Wednesday, January 31, 2007

MEMORIA


E' appena trascorsa la giornata della memoria, eppure sembra che di memoria non ne abbiamo più.
Non é così, in fondo, quando ascoltiamo notizie al giornale radio del mattino, riguardanti l'ennesima strage in Iraq o in quella terra senza pace che é Israele e la Palestina e ci accorgiamo di farlo distrattamente, ormai incapaci di provare emozioni ?
Sembra facile abituarsi al male, far sì che non diventi più storia, oppure - peggio - confinarlo in alcuni territori ben codificati: l'orrore nazista, quello sì, per carità, ma guai a parlare un po' di più di quello comunista o di altri stragi del nostro tempo.

Si fa presto a dividere la gente in buoni e cattivi, in realtà la natura dell'uomo é sempre la stessa e siamo davvero tutti uguali, sempre in bilico tra peccato e redenzione.
Ci aveva visto giusto Claudio Chieffo, quando cantava "La Nuova Auschwitz":

"Io suonavo il violino ad Auschwitz mentre morivano gli altri ebrei,
io suonavo il violino ad Auschwitz mentre uccidevano i fratelli miei,
mentre uccidevano i fratelli miei, mentre uccidevano i fratelli miei...
ci dicevano di suonare, suonare forte e non fermarci mai,
per coprire l’urlo della morte, suonare forte e non fermarci mai,
suonare forte e non fermarci mai, suonare forte e non fermarci mai...
Non è possibile essere come loro,
non è possibile essere come loro...
Nel mondo nuovo che ora abbiamo creato
c’è la miseria, c’è l’odio ed il peccato,
c’è l’odio ed il peccato, c’è l’odio ed il peccato...
Ora siamo tornati ad Auschwitz dove c’è stato fatto tanto male,
ma non è morto il male nel mondo e noi tutti lo possiamo fare
e noi tutti lo possiamo fare e noi tutti lo possiamo fare...
Non è difficile essere come loro
non è difficile essere come loro...
Ora suono il violino al mondo mentre uccidono i nuov iebrei,
ora suono il violino al mondo mentre uccidono i fratelli miei,
mentre uccidono i fratelli miei,
mentre uccidono i fratelli miei..."

Parole forti ?
Senza dubbio sì - noi come loro... - ma capaci di scandalizzare solo chi non ha coscienza del proprio limite.
E quanti si sono scandalizzati, adesso come allora, quando la canzone é uscita, quasi quarant'anni fa...

Friday, January 26, 2007

THANK YOU, GARLAND


di Garland Jeffreys

"I live shows, innamorarsi del pubblico, mostrare l'anima e il cuore sul palco sono i miei gioielli. Li proteggo con la mia vita e li regalo liberamente ai miei fans. Cantare e suonare dal vivo é sempre al primo posto. Così tutti voi, giovani cowboys là fuori, tutti voi giovani musicisti, mettetevi davanti al vostro specchio a casa e fate pratica con le vostre mosse. (....)
Sono un ragazzo analogico e il formato digitale si é portato via quello speciale sound, ma questa é una storia per la prossima volta. E' questo avido regime degli imperatori del music business che é andato fin troppo lontano e ormai funziona come una macchina usata e senza spunto. (....)
Staremo a vedere cosa succederà, non si sa mai, ma dopo tutti questi anni, sento di essere finalmente cresciuto. Mi piacciono tutte le cose meravigliose e stare in sintonia tanto con gli alti che con i bassi della vita, e poi le sfide, il buono, il brutto e il cattivo. A dispetto di ogni delusione, e lo ripeto, a dispetto di ogni delusione, continuo a scontrarmi, adoro i bei tempi e continuo a ringraziare il mio potere superiore lassù, per tutte le fantastiche opportunità che ho avuto. (....)
Lasciatevi prendere. Questa cosa chiamata vita é qualcos'altro ed essere un musicista in tutti questi anni é stato formidabile e mi ricorda quanto fortunato può essere un uomo. (....)
E' tempo per ritrovare il contatto umano e spero di rivedervi presto, che sia in un concerto, in un ristorante, a casa mia o a casa vostra, camminando per le strade e in qualsiasi paese, città o nazione, me ne vado cercando soltanto un po' di spicciola conversazione
."

(tratto dal Buscadero, numero di gennaio 2007)

Monday, January 22, 2007

HAPPY BIRTHDAY, CHIARA !

“Vedi io sono un’anima che passa per questo mondo.
Ho visto tante cose belle e buone e sono sempre stata attratta solo da quelle.
Un giorno (indefinito giorno) ho visto una luce.
Mi parve più bella delle altre cose belle e la seguii.
Mi accorsi che era la Verità”

(da una lettera degli anni ’40)

La grande attrattiva del tempo moderno
di Chiara Lubich


Ecco la grande attrattiva
del tempo moderno:
penetrare nella più alta contemplazione
e rimanere mescolati fra tutti,
uomo accanto a uomo.
Vorrei dire di più:
perdersi nella folla,
per informarla del divino,
come s'inzuppa
un frusto di pane nel vino.
Vorrei dire di più:
fatti partecipi dei disegni di Dio
sull'umanità,
segnare sulla folla ricami di luce
e, nel contempo, dividere col prossimo
l'onta, la fame, le percosse, le brevi gioie.
Perché l'attrattiva
del nostro, come di tutti i tempi,
é ciò che di più umano e di più divino
si possa pensare:
Gesù e Maria,
il verbo di Dio, figlio d'un falegname,
la Sede della Sapienza, madre di casa

This is the great attraction
of modern times:
to reach the highest contemplation
while sharing in the life of everyone,
man close to man.
I would say more:
to merge oneself with the crowd
so as to allow the divine to penetrate,
like wine penetrates a piece of bread.
I would even say more:
as sharers in God’s plans for humanity,
to place points of light within the crowd,
while sharing shame, hunger,
troubles,and brief joys.
'Cause the attraction today,
as in all times,
is the highest conceivable of the human and divine:
Jesus and Mary,
The Word of God ,a carpenter's son,
the seat of Wisdom, a mother at home



Wednesday, January 17, 2007

RIFLESSIONI SULL'AGIRE MEDICO

Un po' di tempo fa mi sono imbattuto nella storia di Antonio Rodari.
Antonio era un medico, padre di tre figli, l'ultimo dei quali affetto da sindrome di Down; lavorava all'Istituto dei tumori di Milano e per parecchi anni aveva svolto parallelamente anche la professione di medico di famiglia.
Una gran bella persona, che mi sarebbe piaciuto avere come amico.
Un amico di quelli che non ti lasciano mai in pace, perché il loro agire quotidiano ti interroga continuamente.
Una di quelle persone vere, insomma, che nessuno, passandogli accanto, sembra mai sfiorare invano.
Antonio visse con pienezza anche gli ultimi dieci anni, quelli della malattia, il tumore che lo portò a una precoce dipartita. Malattia che lui non chiamò "disgrazia": preferiva lasciare solo quel "grazia" finale e vivere la questione così.
Leggendo il libro che raccoglie molti dei suoi scritti (1) ho trovato passaggi straordinari, squarci di vita radicalmente e spericolatamente cristiana, nella convinzione che solo un cammino comunitario quale era il suo fosse capace di frutti quali il centuplo quaggiù.
Antonio ha lasciato il segno su molti e continua a farlo anche ora.
Come con me, con alcuni dei suoi pensieri riguardanti l'agire medico, che sono divenuti spunto di profonda riflessione.

"Intorno alle situazioni di dolore si avverte sempre più un vuoto di umanità, un vuoto inteso anche in senso fisico, nel senso che quando la vicenda é giunta ad un punto in cui l'intervento tecnico é inefficace, incomincia una specie di rifiuto e di fuga da parte di tutti.
Il dolore, la sofferenza, la solitudine, l'indigenza, l'handicap, sono considerati nemici da combattere; ma quando la battaglia per la loro eliminazione é perduta, allora diventano aspetti della vita da dimenticare, luoghi da cui fuggire, viene loro negato ogni significato.
Io stesso, quando vengo chiamato ad intervenire in certe situazioni, sento dentro di me come prima reazione un senso di disagio, di paura, d'inadeguatezza; faccio fatica anch'io a non fuggire.
Questo senso di paura e di disagio non sono altro che manifestazioni sul piano sentimentale di una mancanza di chiarezza su quelle che sono le ragioni del vivere e del soffrire" (1)
(Antonio Rodari)

Mi vengono in mente tre piccole esperienze personali.

M. é un infermiera. Quando sua madre viene ricoverata in gravi condizioni assisto a un grande impegno, clinico ed assistenziale, da parte di tutti gli operatori sanitari, agevolato anche dallo spirito di famiglia che coinvolge tutti. Tuttavia mano a mano che le speranze di guarigione si affievoliscono cala l’impegno “tecnico” dei singoli , mentre cresce un disarmante ed umano imbarazzo da parte di molti di fronte ad un dolore che ormai non chiede più rimedi ma solo “compagnia”.
Faccio i conti anch'io col desiderio di fuggire, ma sento crescere in me l'attrattiva verso qualcosa che percepisco essere prezioso. Così trovo la forza di avvicinarmi una volta in più, sedermi su quel letto solo per pochi istanti, senza aver nulla da fare ormai come medico e nulla da dire come uomo; sono i giorni della vigilia di Pasqua e, nella mia impotente e silenziosa presenza di quei momenti, mi par di percepire solo la desolazione di Maria.
Quella sofferenza giungerà al termine nelle ore successive e qualche tempo dopo qualcuno mi ringrazierà per l'aiuto - che a me appariva di non aver dato - di quei momenti.

Se la malattia coinvolge un collega può sortire l'effetto di scardinare un poco un'idea inconscia che un medico rischia di farsi spesso; che cioè gli ammalati stiano sempre dall’altra parte rispetto a quella dove ti sei messo tu e che lo spartiacque tra questi due territori debba sempre avere limiti ben precisi.
Capita con una persona tutti i giorni al mio fianco e mi accorgo di poter far poco dal punto di vista tecnico, ma sento che la questione in gioco é grande. Una volta di più il limite, la circostanza dell’attimo presente mi interroga, mi chiede di prendere una posizione e la grazia di Dio mi consente di non defilarmi una volta di più.
Faccio poco in fondo: una lettera, qualche parola, ma tutto questo diviene base di momenti di condivisione e la nascita di un rapporto nuovo e più profondo.

Un altro giorno, un altro luogo.
Un colloquio con un altro medico, uno di quei rari momenti in cui é possibile andare in profondità.
Mi dice che negli ultimi anni comincia ad averne abbastanza di questo mestiere, perché non riesce più, al termine della giornata, ad appendere il camice e tornarsene a casa senza pensieri.
Non riesce perché comincia a soffrire con le persone, a non sopportare più la propria invadenza nel conoscerne il destino, nell’entrare nelle loro cose più intime.
Mi sento di dirgli che se lui, già professionista eccelso, comincia ad avere dentro questi sentimenti, allora sarebbe davvero un peccato che mollasse tutto così.
E intanto penso a me stesso e mi rendo conto che più vado avanti in questo lavoro, più mi accorgo di come non conti la somma dei successi e dei fallimenti, ma valga soprattutto la condivisione.
E questo è tanto più vero, quanto più ci si misura con il “limite”, ossia col fatto che la medicina non é – appunto – l’arte di saper spostare i “limiti” come le malattie e la morte il più in là possibile, se non addirittura sperare utopisticamente di eliminarli, ma qualcosa di diverso.
Ne parlo di sera a casa, con mia moglie e le confesso di non capire fino in fondo il disagio del collega di fronte a situazioni di sofferenza.
La risposta che mi dà é illuminante: “Certo, é perché non ha ancora trovato la risposta. E’ per questo che un peso così gli risulta insopportabile”.


Il punto allora é proprio questa risposta.
Il culmine della passione di Cristo sembra essere stato il momento in cui, in croce, ha gridato “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?” (2) Gesù, che ha già vissuto la sofferenza fisica oltre l’immaginabile, assume su di sé il dolore più atroce: la sensazione d’essere lasciato dal Padre.
Chiara Lubich parla così di quell’attimo d’infinito amore di Dio per l’umanità : “Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull’umanità il Divino, attraverso la ferita dell’Abbandono, che é la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio” (3).

E' questa allora la prospettiva ?
Questa la modalità per accogliere l'inaccoglibile ?
Personalmente credo proprio di sì, perché questo mi appare essere l'unico terreno dove sia resa possibile la reciprocità.
Ma c'é bisogno d'essere educati e di compiere un cammino insieme.
Citando ancora Antonio Rodari:
"il medico ... deve essere vero con se stesso e con la sua vita. Per poter vivere con verità il destino dell'altro deve essere aiutato a vivere con verità il proprio destino. Deve imparare a giudicare la sua vita e le sue azioni non sulla base del loro esito, ma sulla base di ciò che le muove. E questo avviamento non é istintivo, ma é l'esito di una compagnia e di una educazione.
Quello che permette al medico di non scoppiare dentro un rapporto con una persona che non può ottenere alcun evidente alleggerimento dalla pesantezza della sua situazione e quello che può permettere a chi é nell'indigenza di non disperare é lo scoprire che il vivere insieme quei momenti e con verità l'uno nei confronti dell'altro ha un significato che trascende i limiti dell'esito contingente della vicenda" (4).

Note:
(1) Antonio Rodari - La camomilla ha sconfitto il male - BUR-i libri dello spirito cristiano.
(2) Mc 15,34; cf. Mt 27,46
(3) Chiara Lubich, “Il grido“, ed. Città Nuova, 2000
(4) vd. (1)

Friday, January 12, 2007

PARIS, TEXAS


A distanza di più di vent’anni “Paris, Texas” regge ancora.
Un cult-movie, senza dubbio, con tanto di siti web ad esso dedicati.
Sta di fatto che, a dispetto della storia triste, rimane ancora un gran bel film.
Wim Wenders che si cimenta per la prima volta in una storia d’amore e lo fa in un modo tutto suo.
Un racconto anomalo, tutto americano, frutto della mente di quel Sam Shepard ritrovatosi di lì a poco anche con Bob Dylan, in quella “Brownsville Girl” scritta assieme, anch’essa lontana anni luce dal mito di un’America fuoriuscita da un catologo del Marlboro Country Travel, e capace di compiacersi nel fascino che ne deriva dall'esserne così distante.

Scenari western, deserti del New Mexico e dell’Arizona, girovagati a lungo da Wenders prima del film, in un voyerismo fotografico straordinariamente espressivo, che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, anche nelle numerose mostre allestite sul regista.
Ry Cooder ci mette del suo, con una musica a dir poco stupefacente.
L’uso sagace del bottleneck, la slide guitar, a creare le atmosfere desertiche più idonee alle immagini del film, al punto da costituire non più semplice colonna somora, ma opera a sé stante, capace di suscitare emozioni proprie e muovere l’immaginario in una sorta di etereo trance.
Il tutto avvalendosi dell’aiuto del fidato David Lindley, uno che nei settanta, quando il west-coast sound era un mito per tanti di noi, non era certo lì a fare da spettatore.

Paris, Texas” mi fa venire in mente “On The Road” di Kerouac, ma anche “Uneasy rider” di Mike Bryan, in quel suo viaggiare incessante sulle freeway che attraversano il paese da un lato all’altro: “Io, viaggiando in superstrada, andavo nella stessa direzione di questa cultura, la vivevo dal di dentro, alla massima velocità e con la macchina migliore che potessi permettermi. Niente roulotte con i letti a castello e stufetta a gas per il sottoscritto. Motel e ristoranti da camionisti dall’inizio alla fine del viaggio. Fissa la bestia negli occhi. Ama il tuo vicino di casa. Porgi l’altra guancia”.

Il film non é altro che la storia di una famiglia che non é riuscita a stare in piedi, vittima di quell’America errabonda e perennemente alla ricerca di un’identità, incapace di vivere le proprie responsabilità, ma anche altrettanto piena di quel grido rivolto alla Realtà di farsi presente.
Il grido di Jane (Nastassja Kinski), abbandonata dal marito, allo sbando nel suo sbarcare il lunario nei peep show, ma che nella drammaticità della sua vita non perde una stilla di sangue del suo essere madre del figlioletto Hunter.
Il grido di Travis (Harry Dean Stanton), incapace di resistere alla propria folle gelosia, distruttore di sé e degli altri, ma capace alla fine di recuperare la maternità di Jane, apparentemente relegata in una deriva di sofferenza senza senso.
La soluzione felice sembra ad un passo, ma la storia non può giungere così in là: Travis non appare in grado di riproporre a se stesso una possibilità.

Eppure, alla fine, quel senso di famiglia ti rimane dentro lo stesso.
Quel grido d’impotenza, la deriva sempre possibile dietro l’angolo, non é esclusiva di qualche personaggio estremo, elaborato dalla genialità di un bravo scrittore o regista.
E’ un qualcosa dentro ciascuno di noi, pronto a far capolino appena pensi di poter camminare da solo, nella presunzione di un bastare a noi stessi nella bontà delle passioni e dei sentimenti che abbiamo dentro.
Come dice Paola Scaglione: “A indicare l’orizzonte della vita a due non c’é il reciproco guardarsi negli occhi di chi si illude che si possa amare sul serio l’altro escludendo il resto dell’esistenza, ma il camminare insieme nella medesima direzione. Perché non ha altra scelta chi, pur desiderando amare in modo totale, scopre che la propria fragilità lo rende incapace di una simile pienezza

Sunday, January 07, 2007

PEDANA DI LANCIO


"Si sta facendo buio. Non vedo bene. Non che ci sia molto da vedere, in effetti. C'é troppa confusione. Dovrei dormire, ma sono troppo stanco anche per fare questo.
Mi piacerebbe vedere Clara ed Alessandra. Mi piacerebbe vedere la mia vita. Mi piacerebbe fare tante cose. Tante cose per cui non ho avuto tempo...
Ma come si fa ad avere tempo ?

E' sempre più buio. Ho anche un po' freddo. Non ho più dolore.
Mi hanno spostato di letto. Dove stiamo andando ? Dove mi portano ?
Io non riesco a vedere. Non sento più niente. Niente. Ho di nuovo paura.
Clara ! Alessandra ! Dove siete ? Non lasciatemi solo ...
Ma dove sono andati tutti ?
Ma perché hanno spento la luce ?
E' buio, é sempre più buio. Sempre più buio. "
Nel romanzo di Marco Venturino (1) per il protagonista, Pierluigi Tunesi, ricoverato in rianimazione dopo un'intervento chirurgico, non c'é più speranza : quel buio é l'anticamera della morte.
La storia del libro é spietata e fa riflettere, ma non lascia scampo.
Nel racconto non c'é prospettiva neppure per Luca Gaboardi, responsabile del reparto, che attende la moglie del paziente: "Sono nel mio studiolo e sto aspettando. Sto aspettando le lacrime e il dolore della signora Clara in Tunesi. Lacrime e dolore che conosco bene, che ho visto tante volte. Così come conosco la solita domanda: "Perché é successo ? ". Ma non conosco la risposta".

Quella di Tunesi é l'esperienza estrema: la sua paura é quella finale, terribile, di una malattia vissuta senza speranza.
Eppure basta una circostanza dolorosa qualsiasi e a ciascuno di noi sembra che accada come a lui: qualcuno ha spento la luce.
Cala il buio all'improvviso su circostanze di vita che un attimo prima ti erano apparse diverse, magari anche affascinanti. Buio sulle emozioni, buio anche sulla luce dell'intelletto: ciò che ti pareva d'aver compreso diviene all'improvviso oscuro e privo di significato.
Tuttavia come non sapere che "un prato verdeggiante di notte, quando le tenebre lo coprono, può sembrare non più un prato, però rimane sempre un prato". (2)
Ti sembra di saperlo, ma in realtà lo misconosci: il buio schiaccia e rifiuta l'evidenza.

Ma quel buio che cos'é?
A volte, in un guizzo di scrupolo e di onestà, non appare più l'insieme delle circostanze.
Non più vittima di esse, ma attore di ciò che accade.
L'oscurità é il tuo limite, percepito in tutta la sua consistenza e questo ti opprime ancor di più, ti immobilizza. L'amor proprio e l'orgoglio ferito superano ogni capacità di pazienza.
Se il buio é causato dagli altri ce la puoi fare ancora, ma se é causato da te stesso, i conti non tornano più.

Allora il limite cos'é ?
Ostacolo che ferma la corsa o pedana di lancio su cui salire per andare oltre ?
E' oltraggio a me stesso guardarlo in faccia per quello che é - bisogno di rivolgere lo sguardo ad un Altro - e magari giungere a scoprire che non mi scandalizza più ?
Un prato "rimane sempre un prato", basta guardarlo nella prospettiva giusta, quella dell'Amore.
Perché quello scritto prosegue così : "...Così tu, Gesù in te è sempre bello, lucente, anche se i tuoi occhi lo scorgono nero e pieno di tenebre. Fuga le tenebre con l’amore". (2)

Note:

(1) Marco Venturino - Cosa sognano i pesci rossi - ed. Mondadori.
(2) Chiara Lubich, scritto del 1949

Wednesday, January 03, 2007

TIGHT CONNECTION TO MY HEART

Alla fine non ce l'ho fatta.
Ho resistito per un po' ma alla lunga una menzione sull'ultimo disco di Bob Dylan la dovevo fare.

Un post inutile, forse, a distanza di quattro mesi dall'uscita del disco: chi ama Dylan l'ha già comprato da un pezzo e chi non lo sopporta non lo prenderà comunque.
E poi su questo album si é già detto di tutto.
Critici che l'hanno incensato come capolavoro, vecchi fans che vedono il nostro incamminato sul viale del tramonto, classifiche di tutto il mondo che hanno visto l'album in vetta a lungo (anche se i maligni diranno che é facile andare in testa nelle vendite di cd: chi li compra più ormai, ora che tutto viaggia in mp3?).

Insomma, allora perché parlarne di nuovo ?
Innanzitutto perché a me questo disco, dopo ripetuti ascolti, piace ancora e poi perché una delle canzoni ha dato il titolo al mio blog (Ain't Talkin').
Ma soprattutto perché ho trovato questa citazione su Dylan di Claudio Chieffo (come dire che tra poeti ci si intende) e allora non ho potuto resistere.....

"Lui é IL grande. E' grande perché é un genio. Ed é un genio del bene, perché ha una passione per la verità della sua vita che traspare da ogni canzone. Eppure era partito così male, con una negatività impressionante: ma solo uno che ha una tale passione per il bene può andare avanti fino in fondo pur partendo da una negazione del genere. Non erano domande retoriche le sue: la domanda di Bob Dylan é una domanda vera. Per questo, quando esce un bel disco di Dylan, vale la pena di ascoltarlo"

(Claudio Chieffo)

Monday, January 01, 2007

L'ANNO CHE VERRA'


Se i propositi per il nuovo anno fossero pretesa di maggior fortuna, salute o ricchezza, forse non durererebbero più dello spazio di un brindisi.
A me piace guardare invece alla certezza di una felicità che prosegue, sulla strada di una misericordia come quella di cui parla Paola Scaglione, nel suo libro che racconta della storia di Claudio Chieffo.

Buon anno a tutti.

"... una sola certezza mi rimase inchiodata quel pomeriggio: una strada in cui c'era qualcuno capace di svelare tutto quello che portavo nel cuore, di cantare la vita e la misericordia di Dio senza censurare nulla, con una libertà, una verità e una bellezza commoventi, sarebbe stata la mia strada. E così é stato. E così é. Vorrei poter raccontare di essere stata totalmente fedele a quest'avventura, ma incoparabilmente più affidabile della mia é stata la fedeltà del Padre che dà coraggio e perdono a ogni istante. Guardando indietro scopro ogni volta con stupore e gratitudine che la mia storia é quella di una misericordia che non mi ha mai lasciato sola".

(Paola Scaglione - La mia voce e le mie parole. Claudio Chieffo, una lunga storia di musica e poesia - ed. Ares)