Sunday, December 30, 2007

HOPE FOR A NEW YEAR


Quando ero ragazzo, a volte, mi capitava di cantare insieme agli amici una canzone del Gen Rosso che cominciava così : "E' un nuovo giorno, una nuova speranza, posso ricominciare".
Quella canzone mi é tornata in mente in questi giorni di fine dicembre, in una fase del tempo - le soglie di un anno nuovo - in cui si é alle prese con un nuovo inizio.
E in momenti in cui gli auguri cominciano a giungere da ogni parte, a dispetto di un mondo che invece sembra davvero non volerne sapere di diventare migliore, mi é capitato di rimettere nel lettore cd Streetlight, colonna sonora del musical omonimo, che il gruppo continua a rappresentare sui palcoscenici di tutto il mondo.


E' il racconto di una storia vera, quella di Charles Moates, che vive nella fossa - The Hole - un quartiere malfamato della Chicago dei sixties. Charles ed alcuni suoi amici formano la Streeetlight band ; si trovano spesso in un garage per le prove e stanno preparando un concerto da tenere in Malcolm X Boulevard. Quel gruppo di amici é speciale: sono ragazzi che impegnano le proprie forze per la costruzione di un mondo unito e lo fanno anche attraverso la musica.
Jordan é amico di Charles e fa parte di una banda locale - The Gang - che si é imposta nel controllo del quartiere. La banda rivale - The Devil G - nel corso di un'irruzione improvvisa a cui fa seguito una sparatoria, provoca la morte di Lisa, fidanzata di Jordan e sorella di Tray, capo di The Gang.
L'omicidio scatena la vendetta di The Gang, ma Charles, pur appartenenedo alla fossa, non accetterà di rispondere alla violenza con la violenza.
Anche l'amicizia di Charles con Jordan verrà messa a dura prova dalla spirale di questa violenza, e Charles stesso pagherà alla fine con la vita la propria coerenza.
Per Jordan la domanda di significato di fronte al mistero dell'esistenza sorgerà come un grido acutissimo al termine di questa storia, ma la vita e l'esperienza di Charles e dei suoi amici rimarrà "stella vera, che non si spegne più".

La speranza di un mondo nuovo nasce dal dolore abbracciato per amore.
Qualche anno fa a Chicago, così come ogni giorno qui e ovunque, adesso ancora, alle soglie di un anno nuovo.
Per il sogno di un Dio che si rinnova : "Padre, che tutti siano uno" (Gv, 17,21)


"Vedremo le terre, leggeremo la storia,
ameremo la patria l'uno dell'altro.

Al di là delle lingue, al di là delle razze,
ameremo la fede l'uno dell'altro.

Vivremo speranze, porteremo dolori,
ameremo il cammino l'uno dell'altro.

Al di là del passato, di ferite lontane,
costruiremo il futuro
l'uno dell'altro.

Io ci sto !
Tu ci stai ?
Tu ci stai !
Io ci sto:
a giocarmi tutto,
a dare la vita per te.

Io ci sto !
Tu ci stai ?
Tu ci stai !
a dare la mia vita
perché sia così !

L'uno dell'altro."

(L'uno dell'altro - Streetlight, the musical - Gen Rosso)

Tuesday, December 18, 2007

NATALE

"Gesù non é un mito, é un uomo fatto di carne e sangue, una presenza tutta reale nella storia. Possiamo visitare i luoghi e seguire le vie che Egli ha percorso. Possiamo, per il tramite dei testimoni, udire le sue parole. Egli é morto ed é risorto... e i miti hanno aspettato Lui, in cui il desiderio é divenuto realtà."

(Benedetto XVI)


William Congdon, Natività, 1960


Chissà se certe sensazioni le prova anche chi non é nato qui.
Scoprire il fascino di una città, che sembra fare di tutto per apparire brutta.
Eppure Milano, al mattino presto, ti trasmette qualcosa di sé che non puoi trovare altrove.
Mi viene sempre in mente Fabio Concato, con quella sua canzone e allora provo anch'io a camminare e gioire nel "vederla sonnecchiare" e accorgermi "che é bella, prima che cominci a correre e ad urlare".

Ma queste mattine, nell'aria, c'é qualcosa in più.
Come una magia, che riesce a incidere la crosta del freddo e - soprattutto - delle tristezze del cuore, che, se non stai attento, può assalirti fin dai primi istanti del giorno, appena metti giù i piedi dal letto.
In queste mattine esco prima dell'alba, coi miei due figli più grandi e ci incamminiamo verso la chiesa, prima che qualunque altra attività abbia inizio.
Sono i giorni della novena di Natale e forse qualcosa di diverso nell'aria lo percepisci già per questo.
Ma poi il paesaggio dell'anima si arricchisce di luoghi e di persone.
In quelle vie, così deliziosamente ancora deserte, man mano che ci si avvicina, vedi pian piano spuntare le persone, prima ad una ad una, poi a piccoli gruppetti, come rivoli di ruscelli che alla fine riempono il letto di un fiume più grande, vuoto fino ad un attimo prima, come in attesa di qualcosa.
Quando arrivi in chiesa ti accorgi che c'é dentro una folla, quasi spropositata per quell'ora del giorno e allora cerchi un posto a sedere e ti guardi intorno; dopo, a poco a poco, volgi lo sguardo verso Colui che sei venuto a trovare di prima mattina.
Poi, alla fine, ti alzi dai banchi e allora ti accorgi dei tanti volti amici.
Quelli di sempre, con cui si condivide il cammino, poi gli amici dei tuoi figli; ma anche i conoscenti, il vicino di casa, persino il vecchio compagno del liceo.
E allora saluti tutti - buona giornata ! - ma poi ti muovi, perché é già ora di correre: a scuola, al lavoro e chissà dove, in questa frenetica, impossibile, adorabile città.

Ma quando alla sera, la mente ripercorre ciò che ti é accaduto, capisci finalmente cos'é quella magia che semplici emozioni ti avevano fatto in qualche modo percepire.
E' la realtà di un popolo, che ti sostiene e, piano piano, ti educa e ti cambia, giorno dopo giorno.
E' la realtà di un Dio, Emmanuele - Dio con noi - che ancora una volta, in questi giorni di fine d'anno, si é reso visibile in mezzo agli uomini che Egli ama.
Allora ti addormenti sereno, perché - ora sì - hai finalmente trovato un luogo in cui far riposare la durezza del tuo cuore.
Domani - a Dio piacendo - sarà di nuovo un nuovo giorno.
Tutto da vivere.

Che sia un buon Natale,
anche per tutti coloro che passeranno da qui

Wednesday, December 12, 2007

UNA ROSA NEL DESERTO

UNA ROSA NEL DESERTO
Schizzi ed emozioni suscitati dall'ascolto di un album mai dimenticato




La rivista musicale Jam pubblica questo mese uno splendido e dettagliatissimo articolo su un disco pubblicato esattamente vent'anni fa.
Una lunga ed affascinante cover story, che affonda la propria analisi mettendo in relazione la musica e gli spazi del deserto.
Anche la celebrazione di un vecchio album, però, quasi come a dire: beh, mettetevi il cuore in pace, meglio guardare a quanto di bello ci ha fornito il passato, perché lavori così ormai non li fa quasi più nessuno.
Chissà, potrebbe essere davvero così, o forse lo sguardo critico di tutti noi, che stiamo invecchiando col rock, diviene sempre più nostalgico ed incapace di cogliere le novità.
Certo però che di uscite recenti, ascoltate anche con piacere, ma troppo precocemente finite a far la polvere sugli scaffali, in giro ce ne sono davvero parecchie.
Ma questo disco invece no.
A distanza di vent'anni, The Joshua Tree degli U2 é ancora capace di rinascere a vita nuova ad ogni ascolto.

La musica ti colpisce fin dalle prime note, quelle di un organo che introduce la prima canzone - Where The Streets Have No Name - lasciando subito spazio alla chitarra di The Edge.
Ed il suono che esce da quell'amplificatore ti rapisce subito, per non lasciarti più fino alla fine del disco; un martello incalzante ed inebriante - come in Trip Through Yor Wires o In God's County, ad esempio -, tanto che vorresti non finisse mai di colpire; lo senti duellare ovunque, col basso pulsante di Adam Clayton, con l'armonica e la voce - la splendida voce - di Bono, con le atmosfere di tutto l'album, ora desertiche e rarefatte ora letteralmente devastanti come uragani, in una battaglia che, alla fine, non conosce vinti ma solo vincitori.

Il disco si apre con un trittico da leggenda: Where The Streets Have No Name, I Still Haven't Found What I'm Looking For e With Or Without You.
Se é vero che "nei loro momenti più alti, le canzoni rock danno voce alla ferita dell'uomo che cerca di afferrare il mistero" (1), qui si parte dalle strade drammaticamente senza nome, per dare volto a qualcosa che riempa di significato una ricerca disperata:


Io credo nel regno che verrà,
Allora tutti i colori verranno versati in uno solo.
Sì sto ancora correndo,
Tu hai rotto i vincoli,
Sciogliesti le catene,
Portasti la croce
del mio peccato,
del mio peccato.
Lo sai che credo,
Ma non ho ancora trovato ciò che sto cercando (2)



Bullet The Blue Sky é il suono che ti circonda, quando sopra di te il cielo é una plumbea minaccia che sembra voler inghiottire il deserto. Questa canzone é uno dei centri nevralgici di tutto il disco e, di fatto, accade anche che il primo lavoro che palesa l'amore per l'America di questi ragazzi irlandesi sia un atto d'accusa contro certo imperialismo stelle e strisce:

Attraverso i muri sentiamo gemere la città,
fuori c'é l'America,
fuori c'é l'America.
Attraverso il campo vedi il cielo squarciato,
vedi la pioggia attraverso una ferita aperta,
battere sulle donne e i bambini,
che corrono,
tra le braccia
dell'America


Dolore vissuto e presagio di minaccia ancora, che sembra dissolversi d'incanto quando la chitarra distorta lascia spazio alla bottleneck di Running To Stand Still. La disperazione é ancora vicina ("lei patirà il gelo dell'ago, sta correndo per restare ferma"), ma nella musica il bianco e nero del cielo sembrano lasciare spazio a squarci improvvisi di sereno, che ti conducono ad un tramonto intenso ed inatteso, dolce e struggente almeno quanto l'armonica di sottofondo, alla fine della canzone.

A questo punto, quando la musica era di vinile, avresti girato il disco ed era come l'alba di un nuovo giorno.

Red Hill Mining Town ti accoglie così, ma stavolta non c'é respiro fin dal mattino, in un nuovo quotidiano che, appena iniziato, vede già arrivare senza gioia le luci della notte: "il nostro amore ha visto giorni migliori / sto tenendo duro / sei tutto ciò che é rimasto a cui aggrapparsi / guarda le luci spegnersi su Red Hill".

La tristezza é un grido acutissimo, ma non può, non deve morire su se stessa e finire in un vicolo cieco.   Alcuni anni dopo Bono arriverà a dirci: "(...) tutti hanno questo vuoto. Alcuni più nero e più vasto di altri. Esso corre dritto nella tristezza. E' questo che ti fa gridare a Dio". (3)
La tentazione é forte, fortissima, come in Exit, o nella finale Mothers Of The Disappeared, ma il paese di Dio - God's County - sembra davvero lì ad un passo : "abbiamo bisogno di nuovi sogni stanotte / rosa del deserto".

The Joshua Tree non ti lascia tranquillo.
E' un disco musicalmente splendido: ci sono gli U2 in forma come non mai e c'é l'ottimo lavoro di produzione di Brian Eno e Daniel Lanois.
Ma, soprattutto, é un corpo con un'anima.
Per questo non smette di stupire ed é capace ancora di rivelare nuovi spiragli di luce ad ogni nuovo ascolto.
Oggi come allora.
E ancora per almeno altri vent'anni.



Post scriptum:E' uscita nei negozi l' anniversary edition del disco: una confezione deluxe comprendente due cd, comprensivi delle canzoni originali, delle b-side dei singoli e di cinque inediti,  unitamente ad un ricco libretto e ad un dvd con un concerto del gruppo, tenutosi a Parigi il 4 luglio 1987.
Un'occasione in più per riscoprire uno dei capolavori della discografia degli U2.

Note:
(1) Leonardo Eva, Walter Muto, Paolo Vites - Good Rockin' Tonight - Itaca edizioni
(2) "I Still Haven't Found What I'm Looking For"
(3) ibid. (1)

Friday, December 07, 2007

REALTA'

Alla fine sembrava la scena di un film.
Di quelli con Bud Spencer e Terence Hill, che se uno comincia a dare uno spintone, tutti si prendono a cazzotti non si sa bene perché.
Un ufficio postale qualunque; tanta gente, come spesso accade; tutti nervosi, come quasi sempre succede.
Un signore che ha perso il turno, ma vuole passare ugualmente davanti a tutti.
Anziani pensionati che si arrabbiano, forse già stanchi della vita e per di più irrisi da quel signore con un: "voi cos'avete da fare tutto il giorno ? Io sono uno che lavora".
Spunta fuori il direttore dell'ufficio, tenta di riportare le persone alla realtà, ma alla fine é aggredito anche lui.
"Chiamate il 113" - dice alle sue impiegate - "ora ci scappa anche una querela".
E' davvero troppo, mi monta un senso di tristezza insopportabile; butto il mio numeretto nel cestino e me ne vado fuori: la raccomandata la spedirò domani.

Salto su in macchina, ho ancora così tante cose da fare e il traffico che c'é in giro non fa presagire nulla di buono.
La musica dentro il lettore cd. Accidenti, le vie di Milano non assomigliano per niente a quelle di Nashville, ma con un po' di fantasia posso immaginarmi anche là, basta lasciarsi trasportare da un'armonica o da una steel guitar.
Qualche giorno fa ho letto il brano di un'intervista ad un giornalista musicale (1).
Parlava di emozioni, proprio quelle di cui sento di aver maledettamente bisogno ora:
"La mappa resta aperta se la musica é una sola, per chi suona e per chi ascolta. Se chi suona va verso chi ascolta. Se chi ascolta va verso chi suona. Queste sono le direzioni, perché é proprio così: chi ascolta reinventa la musica ed é almeno la metà di un processo e il rock'n'roll é stato ed é magnifico in questo. Non hai bisogno della Scala. Non ti serve un'orchestra. E nemmeno lo smoking. Ti basta una chitarra, o ancora meno un disco, una canzone alla radio, per sentirti una rock'n'roll star o magari per sentirti meno solo, o meglio ancora, parte di qualcosa. Magari é solo un'emozione, una sensazione, ma basta e avanza a cambiarti la vita".

Mi sembra vero tutto questo.
Sono già dentro quel dannato traffico - sempre lui - ma De Gregori attacca "compagni di viaggio" ed io non mi sento più così tanto solo.


Certi momenti forti della vita, chissà perché, si accompagnano spesso ad una buona tavola ed al buon vino.
Lo sapeva anche Gesù, che quando il gioco si faceva duro provava ad incontrare le persone anche lì. Come quel giorno, che aveva visto Zaccheo sull'albero e gli aveva detto di sbrigarsi ad andar via di là: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua" (2).
O come quell'ultima volta, l'ultima cena, quando provò a spiegare loro la dimensione ed il significato ultimo di un incontro, capace di divenire dimora: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui" (3)

Una cena tra amici - colleghi nella vita - qualche giorno fa mi ha ridato speranza.
Le parole di un amico speciale, meditate insieme, davanti a una zuppa di pesce e ad un bicchiere di vino.
La premessa di una realtà complessa, quella del nostro lavoro di medici, sempre più difficile da vivere. E la tristezza, spesso, di vedere cose che non cambiano mai: "Aiutaci a capire in quale situazione siamo, che cosa sta acacdendo intorno e che cosa sta accadendo in noi, in modo da chiarire le ragioni di una diffusa stanchezza, quella che fa dire ad alcuni tra noi: "non ce la faccio più. Ditemi la ragione per cui valga la pena di andare avanti a fare questo mestiere dopo 10, 20, 30 anni. Non cambia niente..."
Parole dure ? Certamente, ma chi non può dire di passare momenti di stanchezza così, qualunque "mestiere" si faccia ?
Ma poi parlando ad uno ad uno, la speranza si riaffaccia, ed é legata alla presenza di Uno più grande tra noi, che ci costringe a guardare in faccia alla realtà in un modo nuovo: "E' successo qualcosa che ha ridestato l'interesse, che ci ha rimesso in moto: sì, l'incontro: qualcosa che si é insediato in noi e che ha ridestato tutte le nostre esigenze".

Uscendo da lì, quella sera, la realtà non mi faceva più così paura.
E' un abbraccio diverso, quello che si fa strada nel cuore, che non guarda più al particolare.
Neanche quello del mio limite, di fronte a circostanze spesso più grosse di me, che mi fanno sentire solo col pallone in mano, davanti al dischetto del rigore.
E - in fondo - é quello che cantava anche De Gregori, quando, risalito in macchina, ho rimesso su la musica, a farmi compagnia lungo la strada:

"Mino, non aver paura di sbagliare un calcio di rigore,
non é da questi particolari che si giudica un giocatore.
Un giocatore lo vedi dal coraggio,
dall'altruismo, dalla fantasia
".

Il coraggio che si é dato un gruppo di amici.
E che mi ha fatto, ancora una volta, ricominciare.


Note:
(1) "Il Rock'n'roll di Marco Denti" - intervista di Luca Miele a Marco Denti
http://www.bombacarta.com/?p=562#more-562

(2) Vangelo di Luca, 19, 1-10
(3) Vangelo di Giovanni, 6, 56, 14-20

Saturday, December 01, 2007

UN MEDICO PERFETTO ?

"A volte con questa stampella mi scambiano per un paziente. - Allora metti il camice come tutti noi. - No, altrimenti mi scambiano per un medico"
(Doctor House)


Quella volta era accaduto qualcosa di speciale.
Il collega, per una volta, si era confidato; aveva aperto uno spiraglio del proprio cuore in un ambiente, quello di lavoro, che di solito non concede spazi a debolezze, stati d'animo, desideri e aspettative.
Tutti i luoghi di lavoro, d'altra parte, appaiono ormai drammaticamente simili: conta solo la velocità e la quantità; il valore della persona solo raramente viene messo in rilievo e la qualità sembra non interessare più a nessuno.

Lui, invece, si era sfogato e mi aveva detto che era stanco di stare in ospedale.
Stanco perché non riusciva più ad appendere il camice e tornarsene a casa, lasciandosi il lavoro alle spalle. La sofferenza che incontrava ogni giorno cominciava a farsi strada in maniera troppo prepotente e lui, a sua volta, non sopportava la propria invadenza nel conoscere il destino degli altri.
Ricordo che in qualche modo rimasi male; era uno dei colleghi professionalmente più validi che avessi mai incontrato: ora che provava anche questo, sarebbe stato davvero un peccato se avesse mollato tutto così.

Ci rimasi male, anche perché quel desiderio di umanità che i pazienti hanno sempre nei confronti dei medici, io lo riconoscevo come un bisogno e quel giorno mi parve, nello sguardo del collega, desiderio ingiustamente disatteso.
Eppure quante volte, prima d'allora, mi ero ribellato a quella pretesa di mestiere inteso come missione, schiacciato invece dalla pericolosità e dal rischio, dalla pressione e dalla responsabilità di un quotidiano che talvolta sembra impossibile da vivere ?

Ma qual é il ruolo del medico ?
La questione se la pone anche il British Medical Journal, in un recente editoriale. (1)
E, nel farlo, inizia col citare una serie di attributi.
Come quello dell'imperturbabilità, ad esempio, quella di cui parlava William Osler rivolgendosi ai suoi studenti di medicina: "due qualità possono far decollare o affondare le vostre vite. La prima qualità: imperturbabilità. Il medico deve apparire calmo in mezzo alla tempesta e mostrare lucidità nei momenti di grande rischio: "E' essenziale infondere sicurezza nei pazienti impressionabili o impauriti".
E la seconda qualità, prosegue poi Osler é l'equanimità: tolleranza ed attitudine a non giudicare mai il prossimo.
Ma poi l'articolo menziona altre caratteristiche: altruismo, modestia, diligenza, desiderio di fare sempre la cosa giusta.
E ancora: destrezza nel gestire situazioni incerte, nel raccogliere informazioni in fretta, nel prendere decisioni giuste anche sotto pressione; capacità di mostrare empatia ed ascolto.

Insomma, i medici parrebbero persone davvero speciali: gente proprio fuori dal comune.
Ma l'articolo va oltre tutto ciò.
Vuole prendere giustamente in considerazione anche l'aspettativa del paziente: é un altro marcatore di qualità.
Ed é facile immaginare quale possa essere la soddisfazione di quest'ultimo: il paziente prende in grandissimo rilievo l'umanità del medico; tuttavia, allo stesso tempo, non é disposto a fare a meno di un'ineccepibile competenza, sin nei più minimi particolari.

Allora viene da pensare che forse tutto questo sia un po' troppo quasi per chiunque.
Anche per i medici, persone che hanno percorso un sentiero un po' particolare, quando hanno scelto questo mestiere - verrebbe da dire vocazionale - ma uomini, anche loro, come tutti gli altri.

Un'altra citazione, me la si perdoni, ma uno cerca di attingere saggezza ovunque sia possibile.
E' tratta da una mostra - "Che cosa posso fare per te" - nata dall'esperienza di Medicina e Persona. (2)
L'introduzione della mostra comincia con un pensiero di John Updike : "confidiamo nei medici e negli infermieri. Per necessità li veneriamo; immaginiamo che la loro istruzione, competenza professionale e pia dedizione li abbia spogliati da ogni incertezza e agitazione, dalla repulsione che noi, nei loro panni, sperimenteremmo al vedere quello che loro vedono ed al doverlo curare. Il sangue, il pus e il vomito non fa venir loro il mal di stomaco; la senilità e la demenza non li spaventa (...) la carne e le sue malattie sono oggetto di diagnosi infallibili e cure efficaci".
E quell'introduzione prosegue così: "niente é più lontano dalla verità. Noi operatori sanitari soffriamo intensamente il contraccolpo della realtà nella quale lavoriamo: malattie, dolore, morte. Questo accade perché ci dedichiamo a esseri che non solo soffrono, ma cercano il senso della propria sofferenza. L'educazione che riceviamo non ci prepara ad affrontare questi temi in modo che non feriscano i nostri cuori".

Questo sì, é maledettamente vicino alla verità.
L'università non é mai stata maestra in tal senso e potrebbe non esserlo mai, se non accoglie un rischio educativo, nel desiderio di cambiare se stessa.
E quella ricerca del senso della sofferenza é, nella mia personale esperienza, sempre più il valore aggiunto di ciò che incontro costantemente e continuamente ogni mattina, subito pochi istanti dopo aver timbrato il cartellino all'ingresso del mio ospedale.

La sofferenza che interroga il paziente, costretto a fare i conti con la sua malattia, é la stessa sofferenza che, in forme diverse, irrompe nella mia vita di ogni giorno, portando con sé l'analoga richiesta di scovarne un significato.
Ed il desiderio di felicità, che alberga nel cuore di ciascuno, offuscato da quella stessa sofferenza, irrompente e inopportuna, invasiva e destruente, é quello che sia il paziente che il medico cercano, ma non perché coinvolti nei rispettivi ruoli alla ricerca di una soluzione che renda soddisfatti entrambi (la guarigione della malattia), ma semplicemente perché é un qualcosa che cercano comunque in quanto uomini.

La fede mi ha sempre aiutato, non a comprendere le ragioni del dolore, che resta Mistero inspiegabile nella vita dell'uomo, ma a rendermi capace di mutare uno sguardo, ossia di provare a guardare la stessa realtà con occhi differenti.
Una personalità carismatica del nostro tempo, Chiara Lubich, parlò un giorno proprio di sguardo, quello di un Dio morto misteriosamente in croce; e poiché di sguardo si tratta, citò le pupille di Occhi attraverso i quali Dio guarda l'umanità:
"Gesù é Gesù Abbandonato (3). Perché Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull'Umanità il Divino, attraverso la Ferita dell'Abbandono, che é la pupilla dell'Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell'umanità attraverso la quale si vede Dio". (4)


E' condivisibile tutto ciò, nel quotidiano agire con pazienti, colleghi e gli altri operatori sanitari ?
Mi auguro davvero di sì, ma mi rendo conto che ha a che fare con la ricerca di ciascuno - me compreso - della Verità.
Credo però che tutto non si possa solo condurre ad un percorso individuale, quasi fosse una sorta di ascesi personale, "religiosa" o "laica" che sia.
Credo invece che, proprio perché siamo uomini, si debba cercare un terreno di condivisione, ossia di cammino insieme.
Mi ha sempre colpito una frase di Giancarlo Cesana, docente di Medicina del Lavoro all'Università degli Studi di Milano-Bicocca:
"L'errore formativo più grande é quello di ritenere che la coscienza individuale possa reggere indefinitamente grazie a una coerenza ferrea a principi che, una volta acquisiti, mai sono messi in discussione.
Non si può essere veramente amici degli uomini se non si vive di amicizia.
E l'amicizia non é altro che una correzione (che letteralmente significa "reggere insieme") del cammino ideale e morale di ciascuno verso il compimento del proprio destino" (5).


Si può vivere così ?
Certamente sì, per lo meno si può tendere a questo.
Allora diventa vero quel pensiero che é la conclusione della sopracitata mostra "Che cosa posso fare per te" : "Il bene si comunica in modo tale che unisce. Se in un ospedale c'é un'infermiera con senso di responsabilità, che mette il cuore in quello che fa ed é atea, e nello stesso posto ce n'é un'altra conosciuta per la sua religiosità cattolica, con la stessa passione e che mette il cuore in quello che fa, é impossibile che queste due non stiano insieme. Questo permetterà loro di creare una nuova vita all'interno delle strutture lavorative. Senza tendere a questo il cristiano non é cristiano - e l'uomo non é uomo". (6)

Proprio così: insieme.
Alla faccia del dottor House, che comunque rappresenta sempre una bella provocazione...

Note:
(1) Fiona Godlee - The role of the doctor - BMJ 2007; 335 (17 november)
(2) "Che cosa posso fare per te? Medico e paziente di fronte al dolore" - Medicina e Persona
(3) "Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, eloì, lemà sabactani ?", che significa : "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?" (Mc, 15-34)
(4) Chiara Lubich - Il grido - Città Nuova editrice

(5) Giancarlo Cesana - Il "ministero" della salute - Studio editoriale fiorentino
(6) ibid. (2)