Thursday, October 29, 2009

SOUL MUSIC

Quando un disco ti gira e rigira nel lettore ed un tuo amico ha già scritto tutto quello che hai nell'anima, che bisogno c'é di aggiungere altro?
Strict Joy é il nuovo album dei Swell Season.
La recensione di Paolo Vites qui


Saturday, October 24, 2009

FALL IN LOVE


Autunno 1989, Bob Dylan ritorna a New York City. Quattro concerti al Beacon Theatre, dopo quelli splendidi al Radio City Music Hall dell'anno prima. Bob Dylan che ha abbandonato le arene e i grandi stadi, che non ha più dietro a sé Tom Petty e gli Heartbreakers o i Grateful Dead e che ora suona con pochi musicisti - chitarra, basso e batteria - in piccoli teatri. E' iniziato il neverending tour, ma nessuno, probabilmente neanche lui, sa ancora che quello é uno show che non ha mai fine.
Dylan che, sul palco, sembra più crepuscolare e scontroso che mai: sono scomparsi i sorrisi e le risate che regalava alle platee su e giù per gli States nell'estate del 1986. Erano momenti più felici quelli di allora? Sembrerebbe proprio di no: "Avevo fatto diciotto mesi di tournée con Tom Petty and The Heartbreakers. Sarebbe stata l'ultima. Mi sentivo tagliato fuori da ogni forma d'ispirazione. Qualunque cosa fosse stata presente all'inizio, era scomparsa o si era raggrinzita. Tom stava dando il meglio di sé ed io stavo dando il peggio. Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Il mio momento era passato. Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende. Adesso con Petty si trattava di arrivare alla fine del mese, dopo di che avrei detto basta. Ormai ero, come si dice, sulla china discendente. Se non ci stavo attento rischiavo di ritrovarmi a gridare al muro, pieno di furia e con la bava alla bocca. Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso e io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato" (1)


Il mistero della performing art di Bob Dylan risale dunque sul palco di New York il 10 ottobre del 1989, per una serie di concerti attesi, la "promessa" di sentire dal vivo le canzoni di Oh Mercy, lo splendido nuovo disco, uno dei suoi più belli di sempre. Ma cosa é successo a Dylan? "Invece di essermi perso chissà dove alla fine di una storia, capii che in realtà ero all'inizio di una nuova. Potevo mettere da parte la mia decisione di andare in pensione. Sarebbe stato interessante ricominciare da capo, mettendo me stesso al servizio del pubblico. Sapevo che ci sarebbero voluti anni per perfezionare e rifinire questo nuovo idioma, ma grazie alla mia fama e alla mia reputazione l'opportunità si sarebbe presentata". (2)
Il Bob Dylan che sale on stage quella sera é impacciato, barcolla paurosamente, alla fine di ogni canzone non si sa mai se riuscirà a partire per quella successiva; troppe bottiglie di whiskey nel camerino, dicono, ma probabilmente non c'é solo questo; eppure il genio é intatto, l'incedere dello show magico e imprevedibile. Finché arriva Like A Rolling Stone. Essenziale, dura, precisa e senza fronzoli, fino a quell'armonica, messa lì improvvisata, proprio al termine della canzone. Soffia, aspira, succhia; cerca la fine e non riesce a trovarla, sembra un bambino che sta imparando a suonare. E' un anticlimax, é imbarazzante, ma é la musica che cerca l'espressione di se stessa. G.E. Smith lo capisce al volo: sempre un passo avanti agli altri musicisti della band, lo segue da vicino con la sua chitarra, fa da sfondo perché accada ciò che ha da accadere. Finché la canzone risale, percorre territori inesplorati, momenti sospesi in aria senza tempo, la gioia e l'eccitazione degli spettatori in sala, la canzone che canta se stessa, canzone "come un sogno che si cerca di rendere vero", canzoni "come strani paesi dove bisogna entrare" (3). Paesi in cui Bob, per fortuna, entra quella sera senza esitare.


Per qualche strano motivo Bob Dylan sembra spesso ritrovare in autunno energie nuove ed inattese. Era accaduto in quelli shows del Beacon Theatre, ma la cosa si era ripetuta in altre occasioni. Il fall tour del 1991, per esempio, aveva visto un gruppo di musicisti scalcinati trasformarsi d'incanto in una solidissima rock band, capace d'intendersi alla perfezione con un artista che sembrava aver ritrovato se stesso dopo essersi stancamente trascinato sui palcoscenici di mezzo mondo per tutto l'anno. Anche Oh Mercy aveva ridestato in autunno il desiderio compositivo di Dylan, che lui stesso pensava d'aver perduto per sempre: "Avevo fatto tutto quello che si doveva per arrivare dov'ero, lo scopo era raggiunto e non avevo più ambizioni al riguardo (...). Non ero capace di sforzarmi a scrivere, ero convinto che non avrei scritto più niente, e comunque non avevo bisogno di altre canzoni". (4)
Autunno così denso di malinconia e forse per questo così caro ad un musicista che sembra non poterne mai fare a meno. La malinconia di Oh Mercy é la malinconia di New Orleans, quella che "pende cronica dagli alberi", ma quella di cui "non ci stanca mai". C'é malinconia anche nei concerti del tour autunnale del 1999 e del 2000, tra i migliori in assoluto di sempre. Ce n'é un sacco in quelli del 2002, quando Bob regala quasi ogni sera splendide interpretazioni dei classici di Warren Zevon, che, sul viale del tramonto della vita, morirà di lì a breve per un mesotelioma, poco dopo aver pubblicato The Wind, uno dei suoi più bei dischi di sempre.


L'autunno di questo 2009 non sembra un'eccezione, dentro tutta questa avventura.
Il rimpiazzo di Danny Freeman con Charlie Sexton pare abbia ridestato l'artista da un letargo che aveva reso il Bob Dylan Show una sorta di circo che si trascinava stancamente in giro per il mondo. Ma il talento di questo straordinario chitarrista non sembra sufficiente a spiegare il desiderio e la passione che riappaiono percepibili nelle performances del Bob di questi giorni. Come G.E. Smith era capace d'interagire con lui in maniera unica, anche Sexton sembra comunque aver innescato un circolo virtuoso con la mai sopita potenzialità di performing artist di Bob Dylan, a tutto vantaggio delle sue canzoni che riusonano nuovamente dolci e potenti allo stesso tempo, a dispetto di una voce ormai roca e stanca ma sempre più colorita di quelle radici blues che la rendono affascinante come non mai.



Ma che Dylan abbia ancora qualcosa da dire lo dimostra anche il nuovo disco, Christmas In The Heart, il disco natalizio i cui proventi andranno a sostenere Feeding America, una sorta di Banco Alimentare americano. Perché non si può cantare Adeste Fideles per contratto, bisogna avere qualcosa nel cuore. Un cuore noncurante, smemorato forse - Forgetful Heart - ma in qualche modo sempre alla ricerca, pronto a riabbracciare quel Destino buono che lo avvolge dentro sé. Ed anche perché accade sempre qualcosa, anche quando ti sembra di non capire - something is happening here, but you don't know what it is - ma l'importante é che tu non perda la strada che porta verso casa. Quella strada che magari, come scrive Rosanne Cash, parafrasando T.S.Eliot nelle note di copertina del suo ultimo disco, fa sì che tu possa tornare da dove sei partito e scoprire quel luogo come se fosse la prima volta. Quella strada che Dylan non sembra smettere di percorrere, a dispetto di se stesso ed a dispetto di ciò che noi pensiamo. Ma che ci piace continuare a condividere con lui.


Note:
(1) tratto da : Bob Dylan, Chronicles vol.1, Feltrinelli ed.
(2) ibid.
(3) ibid.
(4) ibid.

Tuesday, October 13, 2009

DIPENDENZA


Un amico che ti passa un disco, dicendoti: ascoltalo, io non li conoscevo, sono davvero bravi. Ti passa un disco come ai vecchi tempi, quando internet non c'era, niente musica da scaricare, niente anteprime in streaming, solo i consigli degli amici ed i giri nei negozi di dischi alla caccia delle novità. Lo ascolti, quel disco, e ti piace, come ti piacciono sempre più i vecchi tempi.
Un duo di norvegesi, musica che viene dal nord, dolce e rilassata, anche malinconica se vuoi, ma ricca di freschezza, cangiante dal pallido al brillante, come la copertina del disco, il cui retro sembra un freddo paesaggio scandinavo che lascia subito il passo ad una front cover di sapore caraibico.

Lo metti su appena esci dal lavoro, questo Declaration Of Dependance dei Kings Of Convenience. Che bel titolo, pensi: certo che voglio dipendere da qualcosa o da qualcuno, in questo pazzo mondo dove la gente pensa sempre di farsi da sola, credendo di trovare la felicità dentro di sé. E' utile, é conveniente, é la cosa più saggia da fare: nessuno basta a se stesso.
Metti su quel disco e le armonie vocali e musicali sembrano rimetterti finalmente in pace, dopo una giornata dove mille problemi e delusioni si sono aggrovigliati al punto tale da far sfuggire la speranza dall'orizzonte della tua esistenza. Ma é l'illusione di pochi istanti e sei già tornato al punto di partenza. E' in quel momento che ti torna in mente quella frase di Chiara Lubich, quella che ti ronza sempre, ogni volta che ti senti così perso: "quando si accavallano problemi nella tua mente piglia nelle mani il problema chiave, l'Amore e sciogli tutto in esso".
Dipendere dall'Amore, ecco una bella soluzione, ma non é ancora chiaro il punto, perché tu sai che di amore sei troppo incapace, hai sperimentato mille volte la tristezza della tua infedeltà.
Allora provi a guardare tutto da un'altra prospettiva e ti viene in mente un'altra frase, sentita da un incontro sull'educazione, quella che ti ha mandato quella cara amica ed alla quale, lì per lì, non avevi fatto neppure troppo caso: "scriviti sullo specchio del bagno, dove tu ti fai la barba e tua moglie si trucca al mattino, "chi sono io?". Perché se tu sei seriamente alla ricerca della risposta a questa domanda (perché é una domanda a cui non si risponde una volta per tutte ma tutti i giorni devi ricominciare) ci saranno tante conseguenze".

Chi sono io é una cosa che davvero io non so. Ma quando non si sa una cosa, la mossa più intelligente che si possa fare non é inventarsi le risposte, ma chiedere.
E stamani, come prima cosa, dopo aver accompagnato i miei figli a scuola, sono andato a fare proprio quello: chiedere. Ho cercato il posto adatto, era pure comodo, proprio vicino a casa mia, un luogo grande, sempre aperto, con tanto spazio a disposizione ed un tabernacolo là in fondo. Sono entrato in chiesa, carico solo dei miei dubbi, ed ho chiesto di dipendere.
Dipendere da qualcosa: l'Amore. Dipendere da qualcuno: Colui che ha dato la vita perché quell'amore lo potessimo conoscere.
Quando sono uscito da lì il freddo vento del mattino aveva lasciato spazio ad un tiepido calore che sa ancora di un'estate che non vuol finire. Ed é stato a quel punto che mi é venuto in mente l'altro pezzo di quella frase di Chiara: " (...) Verrà l'intimità profonda con Gesù; le tue relazioni con Lui saranno vive e gioiose. Aspetta tutto dalla vita, però dopo che hai dato ad essa tutto te stesso".



Thursday, October 08, 2009

LA LISTA DI FAMIGLIA



It was so many years ago.

La cameretta di un adolescente e dentro una poltrona rovinata, quella del salotto vecchio di casa che non si vuole buttar via. Seduto sopra, un ragazzo con un libro in mano, un po' malinconico, con tanti sogni nel cassetto; é inverno e fuori fa freddo, il cielo grigio e tanta fantasia, così che la mente vola sin laggiù, il Greenwich Village di New York. Quel ragazzo legge la biografia di Bob Dylan, quella di Anthony Scaduto tradotta in italiano e, mentre legge, ascolta Desire, il nuovo disco appena uscito, e quelli più vecchi, quelli dei sessanta, del folksinger di protesta, che poi lui, Dylan, quando mai aveva protestato per qualcosa, che aveva sempre e soltanto camminato dritto per la sua strada. Emozioni, desideri e fantasie che, a distanza di anni, quel ragazzo divenuto uomo ricorda ancora come fosse ieri; ma che non prova più, perchè ora non riesce ad immaginare il Village fuori dalla finestra di casa. Quell'uomo, adesso, prova emozioni differenti, certamente più vere ed anche più esaltanti, perché la realtà é molto meglio della fantasia, ma non riesce più a riprodurre quella sensazione, l'impressione d'esser lì con loro, Bob e Woody, il sabato pomeriggio a casa Gleason, seduti sul divano cantando canzoni, mentre tracciano, inconsapevolmente, un pezzo insostituibile di storia della musica americana.
"(...) Woody chiedeva di lui in continuazione: "Viene oggi il ragazzo? Quando torna il ragazzo?" Si era stabilito un legame tra il morente, creatore della musica popolare moderna e il ragazzo che faceva la sua imitazione, che lo ammirava e che, presto, l'avrebbe superato. Quando non c'era troppa confusione parlavano tra di loro; Bob aspettava pazientemente che il malato formasse le parole che faticavano tanto a venire. Woody non poteva affrontare una conversazione con più persone: si emozionava, balbettava, perdeva il filo del discorso e non riusciva a mettere insieme le parole. Ma con Dylan accovacciato in un angolo ai piedi del suo giaciglio, parlava. Una domenica, una delle prime, Bob gli cantò sottovoce Song To Woody e tutti gli altri, presenti nella stanza, s'interruppero per ascoltarlo. Ricordano che Woody fece un gran sorriso e disse: "E' molto bella, Bob. E' dannatamente bella". Sembrava che Dylan fosse entrato nel suo cuore. Più tardi, dopo che tutti erano andati via, Woody disse ai Gleason: "Quel ragazzo ha una gran voce. Forse non andrà molto lontano con le canzoni che scrive, ma canta come nessuno" (Anthony Scaduto, Bob Dylan - la biografia, Arcana ed.)


Yesterday

In una sola cosa si era sbagliato Woody: il ragazzo, con quelle canzoni, sarebbe andato lontano davvero e quella sera, una sera d'ottobre del 1992, al Madison Square Garden di New York, erano arrivati in tanti a ringraziarlo per tutto questo. Uno stadio stracolmo di gente e sul palco tanti di quegli artisti che altro che Woodstock o Live Aid. Tutti a cantare non le loro canzoni, ma le sue, e spesso anche piuttosto bene, con quel geniaccio di G.E. Smith a fare da direttore artistico e da splendida chitarra solista dovunque ce ne fosse stato bisogno. E poi lui, Dylan, che era arrivato alla fine, in imbarazzo almeno quanto doveva esserlo stato le prime volte che aveva visto Woody, disteso in un triste letto d'ospedale del New Jersey alle prese con quella brutta malattia degenerativa, la corea di Huntington. Chitarra acustica a tracolla ed armonica al collo, passo impacciato come sempre, aveva tirato fuori ancora quella canzone, Song To Woody, il colpo da maestro, l'attenzione ancora una volta spostata da sé; perché non é una celebrazione questa, in fondo, é solo ed ancora un altro pezzo della mia strada e allora non chiedetemi di cantare Blowin' In The Wind, niente hits da classifica questa sera, non questa sera almeno.


Today
Quella sera, ad interpretare una bella versione di You Ain't Goin' Nowhere, briosamente country e con la chitarra di G.E. pronta ad accettare il duello con le loro voci, era salito sul palco un trio di belle ragazze: Shawn Colvin, Mary Chapin Carpenter e Rosanne Cash. Le aveva presentate l'uomo in nero, The man in black Johnny Cash e le telecamere non si erano lasciate sfuggire il tenero bacio del papà alla figlia, un attimo prima che l'esibizione avesse inizio.
La performance di Rosanne rassicurava sul fatto che l'eredità di Johnny fosse in buone mani, ma lui era già preoccupato da tempo per una figlia "ossessionata dai Beatles, dal rock californiano del sud e dalla pop music". E' per quello che, a 18 anni le aveva consegnato una lista con le 100 canzoni country a suo giudizio più importanti di tutti i tempi, dicendole: imparale, figlia mia, cos'altro posso lasciarti; faccio il cantante e questa é la mia vita, life and life only; questo fa parte della mia educazione.




Una faccenda di famiglia, insomma, ma una faccenda importante se Rosanne, a distanza di anni, tira fuori di nuovo quella lista e ne estrae dodici canzoni per il primo album di covers della sua carriera, con un secondo disco, a quanto pare, già pronto nel cassetto. Il risultato é assai pregevole, con qualche ospite d'eccezione a duettare con lei per l'occasione. L'onnipresente Springsteen, naturalmente, ma anche Elvis Costello, Jeff Tweedy e l'inatteso Rufus Wainwright. Le canzoni, naturalmente, sono tra le più belle in assoluto, ma la lista, si sa, l'ha fatta Johnny e sulla qualità di scelta certamente non avevamo dubbio alcuno. Ce n'é per tutti i gusti: Hank Williams, Jimmie Rodgers, The Carter Family, Merle Haggard e Patsy Cline; e non poteva mancare quella Girl From The North Country, con cui Dylan e Cash duettarono nelle memorabili sessions del 1969. Alla fine si rivela un disco estremamente piacevole, un altro album pronto a scaldare le prime sere fredde d'autunno, magari seduti intorno ad un tavolo con gli amici ed una buona bottiglia di vino o di whisky a fare compagnia.


Lunga vita dunque alla famiglia Cash, di cui, tra l'altro, Rosanne parla abbondantemente nel suo blog (http://thelist.tumblr.com/). Anche la bella figlia Chelsea, che ha appena finito di registrare il suo primo disco, pare cominci ad avventurarsi sui sentieri pericolosi della buona musica, senza peraltro lasciarsi condizionare troppo dalla madre ("preferisco starne fuori e lei desidera che io faccia così", dice Rosanne), dalla quale peraltro vorrebbe dei consigli da madre e non da musicista ("come é possibile avere una carriera di successo senza avere per forza anche una vita pubblica?" "Lo sapessi anch'io..." é la risposta...).
Tant'é, auguri di cuore anche a Chelsea, chissà che oltre alla lista non continui a tramandarsi anche il talento di nonno Johnny; per ora mamma Rosanne si accontenta di vedere la figlia indossare splendidamente e volentieri i suoi vecchi stivali da cowboy...


Friday, October 02, 2009

LUCKY OLD MARK


Ascolto Get Lucky, l'ultimo disco di Mark Knopfler e continuo a pensare a paesaggi del nord. Immerso nel traffico, incontro gente frettolosamente in viaggio verso il lavoro, altra che quel lavoro non ce l'ha o, semplicemente, percorre il tragitto che porta verso casa. Persone di ogni tipo, distratte o affaccendate, troppo spesso nervose. Mi piace fermare l'auto davanti alle strisce pedonali, raccogliere il sorriso di chi attraversa la strada, che se é una bella ragazza meglio ancora, ma godendo pure della smorfia del vecchietto incerto nel cammino. Sorriso come anatema dei clacson, quelli isterici dei cretini dietro a me, la cui vita sembra dipenda dal minuto e mezzo che avranno guadagnato, quando, correndo come pazzi, saranno arrivati finalmente in posti dove magari non li aspetta poi nessuno. 
No, non si possono ascoltare così queste canzoni, no davvero: "Prima che la gente avesse gas, tv ed automobili, ci si sedeva intorno a un fuoco, ci si passava la chitarra e si ricordavano canzoni" (Before gas and tv). C'é bisogno di spazi distesi e della luce del tramonto. Non é più il people on tv di Money For Nothing, ma gente seduta intorno a quel fuoco che si passa la bottiglia del vino, racconti di strada che si fanno tradizione: "in the tales of the road, since time out of mind" (Before gas and tv). E' per questo che anch'io, arrivato a questo punto, devo cambiare strada, allungarla, portarla in luoghi improbabili e inattesi, far entrare di nuovo il mare dentro i miei pensieri.

Vorrei invecchiare come Mark, come la sua chitarra, sempre più dolce e sicura. Non più l'assolo devastante di Sultans Of Swing, ma l'arpeggio che entra nelle vene profonde, lasciandovi dentro il brivido che non ha mai fine.  Sono colori pastello, quelli d'indimenticabili paesaggi di Normandia; magie di suoni, radici folk, country e blues malinconicamente e sapientemente intrecciate come solo questo musicista é capace di fare, il cuore che oscilla come un pendolo tra Scozia, Inghilterra del nord e delta del Mississippi. I sessant'anni di Knopfler sono diversi da quelli di Springsteen, giocati sui registri dell'introspezione che rendono lontani i Dire Straits almeno quanto la E Street Band é invece ancora vicina al cuore del Boss. Modalità espressive differenti - non per questo differentemente vere - ma che, nel caso di Mark, rispondono forse un po' di più a quell'esigenza di sintesi interiore di pezzi di vita e d'esperienza musicale che solo la maturità artistica coniugata al genio é in grado di ottenere.

Inframezzato tra il canto di Knopfler ed ogni melodia c'é un canto di popolo, forse autobiografica nostalgia, che si esprime dentro la tranquillità sonora di archi e pianoforte o l'allegria di whistle e violino; frasi luminose di una chitarra, capace di cantare come la più perfetta delle voci ed oggi sempre più in grado di venire dolcemente e magicamente in primo piano anche quando sa mettersi in disparte. 
Il songwriting di Mark Knopfler sembra avviarsi verso una semplicità espressiva solo apparentemente scanzonata ("a volte mi addormento mentre suono la chitarra", ebbe a dire una volta in un'intervista), in realtà figlia di un bagaglio espressivo sempre più colto e cosciente delle proprie radici.
Un disco dopo l'altro, le sue sonorità appaiono sempre più spesso malinconiche, ma, paradossalmente capaci in realtà di rubare la tristezza, quella che ti rende immobile ed incapace di proseguire dritto verso la strada che un Destino buono ha da sempre tracciato dentro la tua storia. La colonna sonora ideale per quest'autunno già iniziato e per mantenere intatte le speranze di un sole d'estate, capaci di scaldare anche il freddo più intenso dell'inverno che verrà.