Sunday, September 06, 2015

PIETRE VIVE

Bet Sahur, periferia di Betlemme. La casa di Nasir è l’ultima in fondo, là dove finisce la strada sterrata. Si distingue per la struttura ed il colore scuro, che le donano un tocco di eleganza in più rispetto alle abitazioni circostanti. Dopo la laurea in architettura conseguita in Italia, Nasir ha fatto ritorno dalla moglie e dai figli, in quella terra distribuita sulla carta geografica a macchia di leopardo, chiamata Palestina o territori, a seconda del punto di vista dal quale ci si metta a guardarla. Mi scopro ad osservarlo stupito, mentre passa sorridente da un tavolo all’altro a distribuire il cibo. Quasi cinquanta amici tra adulti, ragazzi e bambini, ospiti a cena a casa di una famiglia cristiana palestinese, e sentirsi a proprio agio come se ti avessero accolto i tuoi genitori. Noi che, prima di invitare un paio di persone, guardiamo sul calendario se è il giorno giusto, perché siamo pieni d’impegni e torniamo sempre troppo stanchi dal lavoro.
Per arrivare qui abbiamo dovuto attraversare il check point israeliano, ma per noi occidentali è stata questione di pochi istanti. Lui, Nasir, quella frontiera non può oltrepassarla quasi mai; la sua auto targata a caratteri verdi su sfondo bianco è come un passaporto palestinese, senza visto per andare in territorio d’Israele. Quasi una prigione a cielo aperto, Betlemme. Non come la striscia di Gaza, ma dall’orizzonte reso oscuro dalla presenza del muro, costruito per separarla da Gerusalemme. Una barriera creata come reazione di difesa da parte di uno stato che ha subito la perdita di un migliaio di civili, vittime dei terroristi che, durante la Seconda Intifada, partivano da qui per compiere attentati nella città santa. Ma il muro, che è riuscito ad interrompere la sequela delle stragi, non ha fatto altro che alimentare ancor di più l’odio reciproco. Prima di arrivare a casa di Nasir, mi ero preso un po’ di tempo per passeggiarci intorno: un serpente di cemento, lungo e spettrale, chiuso in alto da chilometri di filo spinato e coperto quasi ovunque da disegni e graffiti; in fondo ad una strada c’è persino una palazzina che è stata circondata sui tre lati, e le cui finestre del piano superiore, più alte del muro, hanno le tapparelle perennemente abbassate, dato che la legge proibisce la presenza di punti di osservazione verso Israele. Poco lontano da qui una scritta recita in inglese: “questo muro può curare il presente, ma non ha futuro”. Un’altra, in italiano, è posta vicino all’immagine di una colomba della pace: “la velocità è il tempo dell’odio, la lentezza è il tempo dell’amore”. Impara da subito a non giudicare, sembra suggerire, davanti ad un conflitto tra ebrei e palestinesi che dura ormai da un secolo ed appare incomprensibile ai più. Prendi su di te il tempo dell’amore di Dio, che non conosce confini. (....)