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Thursday, April 28, 2011

PLAY ME SOMETHING SWEET

Play me something sweet / something strong
That will not break or bend /something that could carry me along
On days when friends can't even help a friend
Let the song inside you / Rise and grow and then
Play me something sweet / And your sweet song
Will help me smile again
(Jono Manson)

Forse potrei anche smetterla di comprare riviste o di navigare in lungo e in largo nella rete, nel tentativo di riuscire a masticare un po' di più quella strana lingua (morta, a parere di alcuni) del nostro rock'n'roll. In fondo mi basta seguire le dritte dei miei bravi spacciatori, quei mentori dietro ai quali conviene sempre andare perché é difficile che non ti dicano i luoghi giusti dove sia conveniente parcheggiare. Uno bazzica le rive del fiume rosso, un altro ama i vinili come me ed altri due si nascondono dietro il buon vino, ma sono sempre stati fondamentalmente dei discografici per passione. Insomma, avete capito di chi parlo e poi basta cliccare sopra i loro blog per capire di che stoffa stiamo parlando.
Tant'é, sta di fatto che grazie ai consigli di costoro, tre cd sono finiti nel lettore di quella scassatissima macchina che ogni giorno mi porta avanti e indietro lungo le strade di questa noiosissima pianura padana e non ne vogliono proprio più sapere di uscire. Che poi l'esercizio di per sé - quello dell'ascolto ripetuto - é pure rischioso, perché quando un disco piace troppo, sarebbe buona cosa ascoltarselo anche un po' di meno, per non trovarsi poi alle prese con quei simpatici sintomi vagali tipo nausea, capogiri e via discorrendo.

Comunque sia, ecco qua. Il primo disco di nome fa John Popper, che con i suoi trovatori di Duskray ha fatto davvero un bel lavoro. Il mio amico Major - il direttore - dice che sembra un disco di Jono Manson con voce diversa più armonica. Sarà. Massimo rispetto per chi in casa sua ha nientepopodimeno che la bandiera del Texas regalatagli dal governatore in persona. E poi lui é uno dei quattro mentori e quindi non si discute. Il fatto é che Jono già mi piace per conto suo, quindi se ci metti la voce di Popper, che non é male, e la sua armonica, che canta meglio di mille altre voci e lancia assoli ancora meglio di cento chitarre, cosa volete che ci faccia se poi mi piace da impazzire?
Il secondo viene dal Good Doctor, col quale mi piacerebbe andare on the road più spesso, se solo potessi. Ma non posso e quindi mi godo almeno le sue dritte. L'ultima di nome fa Kurt Vile e di disco fa una roba del tipo un cerchio di fumo a farmi d'aureola, che già come titolo suona che é un piacere. Le canzoni, poi, suonano ancora meglio e sono chitarre che fanno tintinnare quanto basta il jingle jangle del mattino (o del tramonto, fate voi), come dico sempre io (o lo aveva detto qualcun'altro?) . Sapete quel suono di mercurio - accidenti se mi ricordassi chi é che aveva detto questa cosa - insomma quella roba che, quando la senti, non riesci più a tirar via la musica dai brividi del tuo cuore.
Il terzo, in realtà, é un disco mio, ma l'uomo dei vinili ne ha benedetto la canzone più bella - quella di Porto Cotone - e quindi é come se fosse diventato anche un po' suo. Non é di moda parlare dei francesi in Italia di questi tempi. Ora poi che si stanno comprando tutto, pure il latte, é anche peggio. Ma cosa volete farci, io non riesco a smettere di amare loro ed i paesaggi in cui si trovano ad abitare. Che poi sfido chiunque dovesse incontrare questa ragazza - che di nome fa Isabelle Geffroy, ma chiamatela pure Zaz - mentre canticchia, su, nella piazzetta di Montmartre, come faceva almeno fino a poco tempo fa, a non rimanere affascinato in qualche modo.

Insomma, ho deciso che queste canzoni me le porterò per strada ancora per un po', almeno fino ad un attimo prima che mi vengano pericolosamente a noia e in attesa, naturalmente, delle prossime dritte. A patto che si sblocchi il lettore cd dell'auto perché l'iPod, c'é poco da fare, proprio non riesco a sopportarlo...






Sunday, March 27, 2011

SOLO UNA CANZONE


Quoi que tu fasses, je ne sais pas / ce que ça remplace / et derrière nous / c’est encore à l’ombre / faut-il encore qu’on raconte / que quelques chose nous revienne / faut-il qu’on soit seul sur terre, ici aussi

Boire pour la soif, je ne sais pas / ce qui de nous deux restera / tu dis mais je ne regarde pas / je n’ai jamais vu la mer / mais j’en ai vu des noyés / comment fais-tu pour oublier, pour oublier / et la pluie qui revient dans nos voix / pas une chanson, je ne pense à toi / dans ce monde inhabitable / il vaut mieux danser sur les tables / à Port Coton qu’on se revoit, qu’on se revoit

Et quoi que je fasse, / je ne sais pas ce que ça remplace / et derrière nous / c’est encore à l’ombre / aller auprès des phares / et la vie est sans fard / à Port Coton qu’on se revoit / dans ce monde inhabitable / il vaut mieux danser sur les tables / à Port Coton qu’on se revoit, qu’on se revoit
(Port Coton / Raphael - Zaz )



Port Coton é un angolo dell'isolabella, la Belle Ile del sud della Bretagna, anfratto di rocce, spiaggia mai quieta, frustate di vento e di mare stregato. Clemenza del tempo albergata altrove, acqua che ribolle, come la lava adirata di un vulcano. Onde e spruzzi per un ricamo d'ovatta biancastra, affascinante e terribile allo stesso tempo. Terra di Merlino abbandonata dai viaggiatori, un faro d'inverno, solo in balia del freddo e delle correnti dell'oceano.

Port Coton é una canzone. Che parla di mare e di gente che non l'ha mai visto. Ma che ha visto un sacco di annegati. O ha fatto finta di non vederli. Giovani europei di un tempo, gente dell'ovest a cui la guerra é stata solo raccontata, da libri dalle pagine ingiallite o labbra di reduci vecchi e noiosi, che ormai sembrano non interessare più nessuno. Eppure la guerra é sempre lì, ad un passo, i suoi padroni vivi e vegeti, come sempre. Vissuta lungo i confini del sud o dell'est. Vista dentro occhi di ragazze, sguardi spauriti di giovani madri resi vuoti dal troppo dolore che gli é passato dentro.

Port Coton é una canzone. Che parla della speranza che rischia di morire dentro noi. Una morte fatta di abitudine, d'indifferenza, d'egoismo che é la pasta di cui siamo fatti, dalla pelle fin giù nel profondo, dentro al midollo. Di occhiate rivolte di fianco, o verso il basso, o - ancora peggio - ripiegate su se stesse, al di dentro, come se quegli occhi che ci furono donati un giorno non fossero stati fatti dritti, posti sul capo per guardare avanti, tesi verso quel prossimo che é lo specchio della nostra stessa vita.
Port Coton é la mia meschinità. Luogo di desiderio e di contraddizione. Il Bello e il Vero non accolti. L'umile e l'indifeso mai abbracciati abbastanza.


Port Coton é una canzone. Cantata da una donna, voce roca e voce dolce, voce talvolta disperata.
Port Coton é una canzone che accompagna la mia strada, che mi porta dove devo andare. E' uno sguardo verso l'alto, é una preghiera. Certezza che dopo la burrasca e il vento - le onde che turbano la mente, lungo il percorso di pensieri, parole, atti ed omissioni - c'é sempre un sereno che ritorna, sole mai tramontato per sempre all'orizzonte. Alba che porterà bonaccia dopo la galleria oscura di una una notte buia e senza stelle.

Port Coton é la musica del cuore, che cresce giorno dopo giorno, che ringiovanisce mano a mano che invecchia il corpo, che la polvere si accumula, che i peccati riempono sempre più l'anfora di una Misericordia che si fa più grande a mano a mano che passa il tempo.
Port Coton, in fondo, é solo una canzone. Ma é anche il luogo dove la mia burrasca trova finalmente pace. La sconfitta definitiva di ogni inquietudine e tempesta. Il sì detto ad un Altro, dentro l'unico grande dono che mi rimane in mano. Quello della mia libertà.