Si stava profilando come una giornata troppo dura.
Turno di "urgenze" e chiamate conseguenti da ogni dove; telefono che squilla, cicalino che suona: c'era bisogno in pronto soccorso, nei reparti di degenza e la gente era già lì anche in ambulatorio, che aspettava da un bel po'. Insomma, mi stavano cercando dappertutto, praticamente da ogni angolo dell'ospedale. Ed ovunque era richiesta anche premura, così che cominciavo a desiderare fortemente il dono dell'ubiquità, per riuscire in qualche modo a tirare sera.
"Non ce la posso fare", mi dicevo, ed allo scoraggiamento iniziava a subentrare vera e propria ribellione alla realtà.
Quindi cominciavo pure ad arrabbiarmi.
Per giunta ci si era messo pure quel collega (per la verità un amico): neanche lui mi aveva risparmiato la chiamata. Così, quand'ero arrivato lì, in pronto soccorso, non avevo fatto nulla per nascondere il malessere e il disagio e gli avevo detto di non poterne più.
Lui non aveva fatto nulla per scrollarsi di dosso tutto il mio malumore - pare che gli amici veri facciano così - e si era fermato, guardandomi per un attimo fisso negli occhi. "Vatti a leggere la prefazione di Rose sul libro "E' mezzanotte dottor Schweitzer", mi aveva detto.
E poi, non contento, ci aveva pure piazzato un bel sorriso, lasciandomi lì come un cretino.
Così, alla sera, ero andato a leggermela, quella benedetta prefazione (la si trova a questo link) e, riaffacciatomi col mio sguardo alla finestra della realtà, avevo capito da dove poter ricominciare per vivere bene all'indomani.
Turno di "urgenze" e chiamate conseguenti da ogni dove; telefono che squilla, cicalino che suona: c'era bisogno in pronto soccorso, nei reparti di degenza e la gente era già lì anche in ambulatorio, che aspettava da un bel po'. Insomma, mi stavano cercando dappertutto, praticamente da ogni angolo dell'ospedale. Ed ovunque era richiesta anche premura, così che cominciavo a desiderare fortemente il dono dell'ubiquità, per riuscire in qualche modo a tirare sera.
"Non ce la posso fare", mi dicevo, ed allo scoraggiamento iniziava a subentrare vera e propria ribellione alla realtà.
Quindi cominciavo pure ad arrabbiarmi.
Per giunta ci si era messo pure quel collega (per la verità un amico): neanche lui mi aveva risparmiato la chiamata. Così, quand'ero arrivato lì, in pronto soccorso, non avevo fatto nulla per nascondere il malessere e il disagio e gli avevo detto di non poterne più.
Lui non aveva fatto nulla per scrollarsi di dosso tutto il mio malumore - pare che gli amici veri facciano così - e si era fermato, guardandomi per un attimo fisso negli occhi. "Vatti a leggere la prefazione di Rose sul libro "E' mezzanotte dottor Schweitzer", mi aveva detto.
E poi, non contento, ci aveva pure piazzato un bel sorriso, lasciandomi lì come un cretino.
Così, alla sera, ero andato a leggermela, quella benedetta prefazione (la si trova a questo link) e, riaffacciatomi col mio sguardo alla finestra della realtà, avevo capito da dove poter ricominciare per vivere bene all'indomani.
Ricominciare, peraltro, non partendo dalla presunzione di essere cambiato, ma dalla nuova consapevolezza di un'appartenenza, capace di rendere nuovo il quotidiano.
Rose, infermiera a Kampala, in Uganda e che ha a che fare ogni giorno coi malati di AIDS, spiega molto bene di cosa si tratta.
Io, per quel che mi riguarda, devo solo ricordarmi che sì, si può vivere così, ed é davvero tutta un'altra cosa.
Devo anche dirlo a lui, al mio amico, quando capita e ringraziarlo per il suo richiamo.
Magari quando mi chiamerà la prossima volta.
Dal pronto soccorso.
Dal pronto soccorso.
"Solo appartenendo si risponde al bisogno"
di Rose Busingye
"Ciò che è accaduto al dottor Schweitzer accade anche a noi oggi. Era un grande uomo, ma il suo problema - che è il problema di tutti gli uomini - è che partiva da sé, mentre il punto è che l’uomo originariamente appartiene. Siamo così pieni di distrazioni che non sappiamo nemmeno cosa ci fa alzare al mattino. Le nostre azioni sono dettate o dall’istinto o da interessi politici/pratici o, come diceva don Giussani, a volte «viviamo dormendo». Proprio don Giussani una volta mi ha detto: «Vai allo specchio e guarda, guarda quella faccia tonda. Guardala e pensa: “Questa faccia me l’ha data un Altro”. (...) Nel cuore del dottor Schweitzer c’è una grande generosità, quella che abbiamo tutti, anche nel nome di Gesù. Anch’io ho vissuto così. Andavo in ospedale perché volevo guarire i pazienti che incontravo. Volevo lavorare per la presenza di Gesù nei malati, negli orfani, nei poveri... Finché le cose andavano bene dicevo: «Che bello Gesù!». Poi le cose cominciarono a non andare come volevo: i malati che cercavo di guarire morivano, i poveri non erano soddisfatti di ciò che davo loro, gli amici - cosa peggiore - erano scontenti. Non andava bene niente! Sono andata in crisi e ho pensato: me ne vado. Ho cominciato a vivere e lavorare veramente quando qualcuno mi ha detto: «Tu sei mia». In quel momento ho incominciato a intravvedere un significato per la mia vita. Una luce ha cominciato a illuminare la realtà tutta. Ho iniziato a scoprire la verità della mia stessa esistenza. Da quel momento è nata un’attrattiva, un’affezione, una tenerezza verso di me e verso gli altri.
Ho cominciato a lavorare e a vivere veramente quando ho saputo rispondere concretamente alla domanda: «Di chi sono, a chi appartengo?». Quando questa domanda si è incarnata in facce precise, con nome e cognome, paradossalmente sono diventata libera, appartenendo. Quando sei libera finalmente puoi stare di fronte alla realtà senza paura, puoi affrontare tutto perché sai di chi sei. Chi è libero non pretende più dagli altri, perché ha già tutto. (...) solo nel momento in cui ho scoperto me stessa, cioè ho riconosciuto la presenza di Cristo vivo e non l’immagine che avevo di Lui, ho smesso di correre dietro le cose. Questa verso Gesù era una corsa che a fine giornata mi lasciava estenuata e scontenta. Ora, invece, nell’appartenenza ho scoperto me stessa e ciò che posso dare agli altri è una sovrabbondanza del mio rapporto con Cristo (...) . Sono andata in crisi quando, come il dottor Schweitzer, ho pensato che tutto dipendesse da me. Se l’uomo non vive questa appartenenza, riempie il vuoto della propria esistenza con cose da fare, che alla fine sono solo un fascio di reazioni. L’attrattiva originale si riduce nella pretesa di misurare la realtà; allora tutto diventa moralismo, l’insicurezza la fa da padrona. Quello che io ho di più, rispetto al dottor Schweitzer, è questa esperienza di appartenenza a Cristo, un legame che mi definisce per sempre. È lo stesso sguardo che aveva padre Carlo, che stabilisce il contenuto e il metodo del mio lavoro: comunicare la commozione per la sconfinata grandezza dell’esistenza di ciascuno e offrire quella compagnia al Destino che ha abbracciato e abbraccia la mia vita. Ciò che è mancato al dottor Schweitzer è proprio non capire che non si può aiutare l’altro se non si appartiene.
No comments:
Post a Comment