Possibile che nessuno l'avesse sentito? Eppure aveva urlato, parole così forti da entrare dritte nelle orecchie, sino a trafiggere il cervello. Oltre il volume, tirato al massimo, delle cuffiette del suo iPod, strette tra il bavero dell'impermeabile, tirato su a fare da scudo contro il freddo del vento e serrato con le mani a sé, quasi a proteggere l'anima e il cuore. "C'è qualcuno vivo là fuori?", aveva gridato, più forte della musica che accompagnava i suoi passi in quella Milano così gelida già in autunno. No, non c'era nessuno in giro, nessuno vivo, neppure in mezzo a quella folla che gli camminava intorno. Erano tutti soli, o male accompagnati; tutti alle prese col proprio male di vivere, lo sguardo ostinatamente verso il basso, il passo veloce, corpi abituati a urtarsi gli uni gli altri, facendosi maleducatamente largo nelle strade, rese strette dalla presenza dei troppi guai.
Che razza d'infanzia aveva avuto, là dentro? Forse era per quello che non se la ricordava più. Niente prati verdi, né biciclette; non cieli azzurri, o nuvole nel cielo. Solo nebbia, asfalto ed orizzonti grigi e piovosi. Ed ora le cercava, disperatamente, quelle nuvole, ma quelle che vedeva erano tetre come i suoi pensieri. Avrebbe voluto volare su, sempre più su, fino a vederlo bene, quel cielo che aveva sempre e soltanto immaginato. E come un aviatore, sparire poi lassù in cima, spegnere il motore, respirare forte e vedere se gli fosse riuscito di non tornare più indietro. Sentire la musica vera, la musica del silenzio che ci fa cantare...
Quando si risvegliò era seduto sul sedile dell'auto, ferma lungo una stradina di campagna, via secondaria rispetto a quella principale, la provinciale che era solito percorrere tutti i giorni. Davanti a lui, il bosco di pioppi non c'era più. Era rimasto solo un po' di prato e quel sottile fiumicello, un rigagnolo in realtà, ora che le piogge tardavano a farsi vedere. Tutti gli alberi erano stati tagliati e portati via, segati per bene, resi legna da ardere per le moderne stufe. Si erano portati via anche quello, l'albero caduto, lasciato di traverso lungo quel sottile rivo d'acqua, abbattuto chissà quando e da che cosa, un colpo di vento, una grandinata forte di un giorno ormai lontano. Quell'albero era rimasto a lungo là disteso, i rami ormai avvizziti, privati della vita delle radici, ma rimasti abbarbicati al fusto delle altre piante ancora in piedi, nel disperato tentativo di rimanere aggrappati a qualcosa che potesse donar loro ancora un po' di vita.
Ogni tanto ritornava là, giungeva in quel luogo facendo viaggiare l'auto lentamente, poi spegneva il motore e si fermava per un po'. Si era affezionato a quel tempo e a quello spazio, all'albero caduto, agli alberi ancora in piedi che a quello sdraiato continuavano a voler bene. Ci tornava soprattutto quando era la sua vita a traballare, quando i pensieri ed i gesti si mettevano ad attraversare gallerie oscure, quando, per le sue infedeltà e contraddizioni, cessava di amare. A volte scendeva dall'auto e si metteva volentieri a camminare, il terreno ad impolverare le scarpe ed i calzoni. E spesso, poco a poco, quel passeggiare diventava anche preghiera, luogo di ritrovo del senso più profondo che anche nei momenti bui gli sembrava di cogliere dalle circostanze e dalle cose. Quel groviglio di tronchi, fusti, rami intrecciati tra di loro era il senso di comunità che avvolgeva tutto. E qualche volta, in fondo a quel rivo d'acqua, gli era parso di veder sorgere anche il sole.
Si svegliò di nuovo. Era sempre in mezzo alla gente, le cuffiette dell'iPod ancora addosso e qualcuno, urtandolo lungo il marciapiede, aveva mormorato un sommesso "scusi". Allora aveva tolto elmo ed armatura. Via la musica ed il cappello, un respiro profondo a far entrare tutta l'aria e anche lo smog della città. Poi si era messo pure a sorridere alla gente, quella che, prima, gli sembrava non si curasse minimamente di nessuno, ma che ora, invece, sentiva misteriosamente legata a sé.
Aveva cominciato a fissare la bestia negli occhi, ma si era tolto prima tutte le armi di dosso. Non era una sfida a duello, quella che si stava per compiere. Era, invece, uno sguardo largo che si faceva strada, diverso, in qualche modo anche armonioso e misericordioso, su tutto ciò che vedeva e sentiva attorno a sé.
Sapeva che era difficile amare quel luogo se non ci si era nati. Difficile come difficile é amare chi é irascibile e scontroso, chi non compie il primo passo, perché il suo cuore si é indurito, a furia del dolore dal quale ha dovuto difendere se stesso o che, suo malgrado, ha dovuto lasciare entrare dentro sé. Ma nessuno é indifferente all'amore. E quella frenetica e nevrotica città era fatta di tanti volti, nessuno dei quali avrebbe rifiutato quel poco d'amore che lui, adesso, aveva voglia di donare.
Così si era messo ad osservare le persone, ad una ad una. I volti dei bambini, o quelli dei vecchi coi sacchetti della spesa. Gli yuppies in carriera e poi i ragazzi, le donne, gli extracomunitari incrociati mille volte, sempre fermi agli stessi semafori a chiedere la carità. Ecco dov'era bella la sua povera città. Non nelle piazze o nei monumenti e nemmeno nei teatri o nei caffé. Era bella dentro quei visi e quegli sguardi, che a fermarsi ad osservarli, invece che a schivarli, ci si accorgeva di come ognuno avesse dentro la sua strada. E che la strada, per quanto tortuosa e impervia potesse essere o apparire, aveva sempre la faccia di un Destino buono, che ha a cuore il desiderio più profondo del tuo cuore, quello che fa rima con felicità.
C'era una frase, forte, che si era fatta carne, frase scritta da poco da un ragazzo, partito troppo presto per il cielo. Quella frase, ora, sembrava dare senso anche ad ogni conto che sembrava quasi inesorabilmente non tornare: "Non esiste luogo in cui non ci sia la possibilità di creare unità, ogni persona la porta dentro, ma la esprime in modi diversi e bisogna amare senza condizioni".
Da quel giorno decise di voler essere una frase incarnata, parola vissuta, ma sentiva d'aver bisogno ancora di qualcosa. Di un modello, forse. Di un aiuto, certamente.
All'improvviso si trovò davanti ad un portone e lì, dipinto, vide quello che cercava. Il volto di una donna, l'amore di una Madre: eccola, era, quella, la misura. L'Amore mescolato tra tutti, uomo accanto a uomo, come s'inzuppa un frusto di pane nel vino.
Ce la poteva fare, ora sì che ne era certo, ora che non era più da solo, alle prese col deserto lastricato composte da tutte le sue inutili e buone intenzioni; ora l'aiuto di cui aveva bisogno sarebbe arrivato in ogni istante, da Chi era disposto a donarlo gratuitamente, chiesto, com'era, da un cuore sincero.
Respirò a pieni polmoni, l'aria non sembrava poi così tanto inquinata, in fondo. E guardò, un po' più in là, lontano: in mezzo all'asfalto, alle auto ed alla gente, c'era pure un po' di verde.
Tirò un sospiro profondo, per la prima volta si sentiva libero davvero.
E, anche se ci era nato, si accorse di non averla mai amata così tanto, quella sua nevrotica, impossibile, fantastica città.
Ringraziamenti:
A Paolo Vites, per la foto che ha scattato, riprodotta qua sopra e rapita da un portone di città e che trovate pubblicata sul suo blog, a questo link.
A Claudio Chieffo, Bruce Springsteen, Chiara Lubich, che hanno incrociato, come capita spesso, i miei pensieri.
E a Luca, cui é dedicato questo post, partito troppo presto da quaggiù, ma certamente felice, ora che é nel seno del Padre.
4 comments:
Proprio stasera mi chiedevo dove fossi finito... Ora lo so.
A parte la frase in grassetto, questa la trovo splendida;
"Difficile come difficile é amare chi é irascibile e scontroso, chi non compie il primo passo, perché il suo cuore si é indurito, a furia del dolore dal quale ha dovuto difendere se stesso o che, suo malgrado, ha dovuto lasciare entrare dentro sé. Ma nessuno é indifferente all'amore."
Da mesi ho dentro un post su queste strade, prima o poi...
Per ora grazie.
grazie a te.
in attesa del tuo post :-)
Da un anno mi son spostata a lavorare nella zona industriale tra san Donato e Rogoredo così mi capita spesso di scendere con la Gialla a Missori o in Duomo. (Oltre al fatto che schivo sempre la possibilità di incontrare Vites e questo basterebbe) ho cominciato a guardare così la bellezza di certi muri, di certi vicoli e di certi portoni del centro. Proprio come amo le persone (maggior parte operai) che prendono con me l'autobus da Rogoredo verso Chiaravalle, i campi e poi le fabbriche.
Come dici tu: “Era bella dentro quei visi e quegli sguardi, che a fermarsi ad osservarli, invece che a schivarli, ci si accorgeva di come ognuno avesse dentro la sua strada.”
Chiaro che quello che racconti è molto più profondo ma hai descritto anche la mia esperienza.
thanx
ciao
e grazie anche a te, Anna, perché se un mio povero racconto si fa riverbero dentro l'esperienza di un amica, allora questo ritorno si chiama centuplo.
a presto
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