Thursday, December 24, 2015

PEOPLE HAVE THE POWER

Nello splendido Hard To Handle, il brillante film di Gillian Armstrong che documenta l'avvio del tour di Bob Dylan con Tom Petty & The Heartbreakres del 1986, alla fine di una Knockin' On Heaven's Door letteralmente da brividi, Dylan raccoglie dal palco una rosa per porgerla ad una delle coriste prima di uscire di scena. Sui palcoscenici di certi shows, specie quelli americani, accadeva che a volte volasse di tutto, dalle scarpe alle cose più bizzarre. Ma era ben raro che Dylan, spesso tacciato d'essere poco o per nulla comunicativo col pubblico, si chinasse a raccattare uno qualsiasi di quegli oggetti, disposto a far sì che diventassero un tramite tra sé e gli altri, sorta di transfert più intenso con la gente sotto il palco. Era successo, però, che l'avesse fatto, un'altra volta almeno. Nel 1978, al termine di un tour attraverso Giappone, Australia, Europa ed America, con una ricca band ed un disco - Street Legal - nuovo di zecca, Dylan, a metà novembre, canta a San Diego, con un mese di concerti ancora davanti a sé. Non si sente troppo bene ed è convinto che anche gli altri se ne siano accorti. Qualcuno, da sotto, butta un crocifisso d'argento sul palco e lui lo raccoglie da terra. Sono gesti che di solito non fa, ma quella volta se lo mette in tasca, per portarlo con sé, fino al concerto successivo, in Arizona, dove si sente ancora peggio del giorno prima. "Ho bisogno di qualcosa", dice a se stesso, ma non sa cosa. Non lo sa perché ha già provato e conosciuto di tutto ed ora prova il bisogno di qualcosa di nuovo, mai conosciuto prima: "mi guardai in tasca e trovai quel crocifisso". (...) 

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Saturday, October 17, 2015

IL CIELO D'IRLANDA


Ho un’amica che è convinta che la magia d’Irlanda abiti tutta nel suo cielo. Qualcosa d’indescrivibile a parole, che colora le scogliere e le colline coperte dall’erica in fiore. Probabilmente è davvero così, anche se i miei occhi scettici mi fanno pensare a quei paesaggi del nord come avvolti dalle nuvole e bagnati dalla pioggia, che solo ogni tanto lascia spazio a qualche squarcio d’azzurro e di sereno. E Milano, questa sera, non mi appare neppure così diversa, umida e fredda in quest’inizio d’autunno che, per giunta, non l’ha neppure colorata, lasciandola ancora una volta immobile nel suo perenne grigiore. Solo il traffico non smette mai di dimostrare tutta la sua nevrotica vitalità, ma questa è l’unica cosa, capace di rinnovarsi ogni giorno, che perderei volentieri in un istante. Alcatraz, noto locale milanese, è un’isola, allora, dove approdare felicemente, tanto più che sul palco, appena entrati dentro, campeggia la grancassa di una batteria, dove sta scritto che “Save a soul” – salvare un’anima – è la “mission” del giorno. Un’anima, anche una sola, in mezzo alla folla di gente che, poco a poco, riempie il luogo dove assistere al nuovo ritorno di Glen Hansard in concerto. Un’anima sola è sufficiente, così come un singolo spicchio di cielo può bastare a rasserenare mille giornate piene di affanni (...)

Sunday, September 06, 2015

PIETRE VIVE

Bet Sahur, periferia di Betlemme. La casa di Nasir è l’ultima in fondo, là dove finisce la strada sterrata. Si distingue per la struttura ed il colore scuro, che le donano un tocco di eleganza in più rispetto alle abitazioni circostanti. Dopo la laurea in architettura conseguita in Italia, Nasir ha fatto ritorno dalla moglie e dai figli, in quella terra distribuita sulla carta geografica a macchia di leopardo, chiamata Palestina o territori, a seconda del punto di vista dal quale ci si metta a guardarla. Mi scopro ad osservarlo stupito, mentre passa sorridente da un tavolo all’altro a distribuire il cibo. Quasi cinquanta amici tra adulti, ragazzi e bambini, ospiti a cena a casa di una famiglia cristiana palestinese, e sentirsi a proprio agio come se ti avessero accolto i tuoi genitori. Noi che, prima di invitare un paio di persone, guardiamo sul calendario se è il giorno giusto, perché siamo pieni d’impegni e torniamo sempre troppo stanchi dal lavoro.
Per arrivare qui abbiamo dovuto attraversare il check point israeliano, ma per noi occidentali è stata questione di pochi istanti. Lui, Nasir, quella frontiera non può oltrepassarla quasi mai; la sua auto targata a caratteri verdi su sfondo bianco è come un passaporto palestinese, senza visto per andare in territorio d’Israele. Quasi una prigione a cielo aperto, Betlemme. Non come la striscia di Gaza, ma dall’orizzonte reso oscuro dalla presenza del muro, costruito per separarla da Gerusalemme. Una barriera creata come reazione di difesa da parte di uno stato che ha subito la perdita di un migliaio di civili, vittime dei terroristi che, durante la Seconda Intifada, partivano da qui per compiere attentati nella città santa. Ma il muro, che è riuscito ad interrompere la sequela delle stragi, non ha fatto altro che alimentare ancor di più l’odio reciproco. Prima di arrivare a casa di Nasir, mi ero preso un po’ di tempo per passeggiarci intorno: un serpente di cemento, lungo e spettrale, chiuso in alto da chilometri di filo spinato e coperto quasi ovunque da disegni e graffiti; in fondo ad una strada c’è persino una palazzina che è stata circondata sui tre lati, e le cui finestre del piano superiore, più alte del muro, hanno le tapparelle perennemente abbassate, dato che la legge proibisce la presenza di punti di osservazione verso Israele. Poco lontano da qui una scritta recita in inglese: “questo muro può curare il presente, ma non ha futuro”. Un’altra, in italiano, è posta vicino all’immagine di una colomba della pace: “la velocità è il tempo dell’odio, la lentezza è il tempo dell’amore”. Impara da subito a non giudicare, sembra suggerire, davanti ad un conflitto tra ebrei e palestinesi che dura ormai da un secolo ed appare incomprensibile ai più. Prendi su di te il tempo dell’amore di Dio, che non conosce confini. (....)

Saturday, July 25, 2015

CANZONI PER VOLARE



Sembra felice, Stefano Barotti. Lo incontro sul lungomare di Laigueglia, borgo della riviera ligure di ponente annoverato tra i più belli d’Italia, poco prima del suo showcase, in cui presenterà alcuni brani tratti dal suo nuovo disco, Pensieri Verticali. Una performance, quella a cui assisteremo, di una trentina di minuti in tutto, decisamente troppo pochi, non solo per chi ha già imparato ad amare le sue canzoni, ma anche per chi ancora non conosce le sue grandi qualità di musicista e cantautore. In un tardo pomeriggio assolato, è seduto accanto a me, il tavolino di un bar all’aperto a fare da backstage, ed ha appena percorso più di duecento chilometri, per arrivare fin qui dalla sua Toscana. Ha un viso dolce e niente affatto stanco: “Cosa vuoi che siano per un musicista due ore e mezza di strada - scherza, mentre sorseggia un buon bicchiere di vino – praticamente come andare a suonare dietro casa”. Racconta qualcosa di sé, del disco che sembra andare bene, dei prossimi concerti: “non molti – il volto si schiude in un sorriso che la barba non riesce a smorzare - perché tra poco divento babbo e allora devo stare fermo per forza per un po’…”. 



 

Monday, June 01, 2015

LOVE NEEDS A HEART



C’è un uomo sul palco, la chitarra a tracolla, i capelli ingrigiti dal tempo e una mano sul cuore. Ha voglia di dire thank you, e grazie, mille grazie. In questa splendida cornice che stasera è il teatro di Como. In questa, che, per una volta, non è “just another town along the road”, ma una “città per cantare”. Non può conoscerli, quell’uomo, i mille cuori che stanno davanti a lui. Con le loro mille storie, le loro ferite e il desiderio di felicità che le accomuna. Non può conoscerle, ma le attraversa con le sue canzoni. E stringe mani, saluta quelli che può. Le storie che sono arrivate fin sotto il palco, alla fine dello show, che proprio seduti non si può continuare a restare.
Lassù in cima, un altro ragazzo lo osserva. Si è fatto grande, ormai. E’ diventato uomo ed è invecchiato, i capelli si sono ingrigiti anche a lui. Ha cantato, col suo cuore, tutte le canzoni, per tutta la sera. Quel ragazzo, che aveva conosciuto l’uomo sul palco così tanto tempo fa. Diciott’anni o poco più, un disco che arriva a casa con un amico, che ha il suo regalo di Natale da donare. Tony, che ogni volta che veniva con un disco nuovo era un orizzonte infinito che si spalancava. Quell’anno era arrivato con “For Everyman” e il ragazzo aveva scoperto Jackson Browne per non lasciarlo più. Poi Tony si era ammalato, sindrome da immunodeficienza acquisita, l’avevano chiamata. AIDS, una malattia tutta da scoprire, un cammino verso il calvario ancora da percorrere per la medicina. E così, di lì a poco, Tony se ne era andato via, la sua vita spezzata come quella di tanti altri. Lasciando la sua storia e i suoi dischi a quel vecchio ragazzo, che ora ha i capelli grigi ma il cuore ancora tutto intero. (...)

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Saturday, May 23, 2015

HEART OF MINE

"Oh, can't you see that you were born to stand by my side
And I was born to be with you, you were born to be my bride"
(Wedding Song, Bob Dylan)

La prestigiosa rivista Circulation, edita dall’American Heart Association, ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto su oltre 15.000 persone dal 1992 al 2010, dal quale emerge come il divorzio rappresenti un fattore di rischio significativo per l’infarto miocardico acuto. Nella popolazione studiata il rischio è apparso più elevato nel sesso femminile, con una probabilità di evento coronarico superiore del 24% nei soggetti con un divorzio alle spalle e addirittura del 77% per le donne pluridivorziate. Negli uomini l’aumento del rischio appare minore, con un incremento del 10% in caso di un solo divorzio e del 30% in quello di più divorzi. Linda K. George, uno degli sperimentatori, afferma che tale rischio appare paragonabile a quello provocato dall’ipertensione arteriosa e dal diabete mellito ed appare ridotto solo marginalmente in caso di nuovo matrimonio delle donne, mentre si annulla nel sesso maschile.  (....)

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Wednesday, May 13, 2015

PASTORE DI NUVOLE

Lasciate che vi racconti della mia vita attraverso un pugno di canzoni, sembra voler dire Luigi Grechi, che da qualche anno si é riappropriato del suo vero cognome, De Gregori (Grechi era quello della madre), in scena al Nidaba Theatre di Milano qualche sera fa. Da solo, con la sua chitarra acustica, trasforma il piccolo pub milanese nel Folkstudio, lo storico locale di Roma che negli anni sessanta voleva tanto assomigliare ad un pezzo del Greenwich Village di New York. Che poi non è neanche così banale, provare a raccontare di sé, con sincerità e passione come ha fatto questo cantautore, fratello del più celebre Francesco De Gregori, ma, per quelle strane ed imperscrutabili vie del destino, immeritatamente meno celebre. Non è scontato perché molti, di fatto, non lo fanno; lasciano che le canzoni siano talvolta la maschera da indossare sul palco, per camuffare la vita o, tutt’al più, nasconderla, proteggerla dalle troppe ferite e da ogni tentativo d’intrusione. E se è anche vero che le canzoni camminano da sole, capaci, come ogni opera d’arte, di suggerire al tuo cuore il percorso e le strade dove esso ha bisogno d’andare, è altrettanto bello, quando ci è concesso, poter entrare anche nelle pieghe dell’esistenza di chi le ha create, carpire qualche segreto di come siano state costruite, toccare qualche nodo di quella rete di sensazioni e fatti di vita che hanno fatto sì che esse vedessero la luce. (...)

Wednesday, May 06, 2015

CANZONI ROCK SOTTO IL SEGNO DELLA CROCE

"667 Ne so una più del diavolo" é il titolo del nuovo libro di Fabrizio Barabesi e dell'amico Maurizio Pratelli, da poco disponibile in tutte le librerie ed edito da Arcana. 

Quella che segue é la postfazione che ho scritto per il libro. Il volume é acquistabile a questo link
Buona lettura 

 Rock'n'roll can never die 
"Bologna, 27 settembre 1997, Congresso Eucaristico nazionale. Bob Dylan posa la sua chitarra e si avvicina lentamente al palco, dove è seduto Giovanni Paolo II. Ha appena finito di cantare Knockin’ On Heaven’s Doors e Hard Rain’s A-Gonna Fall ed ora sta andando a salutare il Papa. Cammina di un’andatura incerta, gira e rigira le mani tra di loro. Inciampa lungo i gradini, manca poco che vi cada. Istanti che sembrano infiniti, finché l’uno giunge di fronte all’altro, sino a quando quelle mani, che non sapevano dove stare, vengono strette da un altro. Parole e frasi sconosciute, una serie di sguardi, intensi, poi Dylan torna al suo posto. Giovanni Paolo si risiede, riprende il testo di una delle canzoni più note dell’artista americano – Blowin’ In The Wind – e parla di domande e di strade da seguire: “la risposta non soffia nel vento che tutto disperde, nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice: vieni”. E’ un uomo anziano, vitale nell’anima, ma ormai stanco nel corpo: si rivolge ai presenti, saluta, sorride e se ne va. Bob Dylan riprende chitarra e microfono, canta la sua Forever Young. Poi se ne va pure lui, ognuno di nuovo a percorrere il proprio cammino. Negli anni a seguire, di fronte alle numerose domande, Dylan non rivelerà mai nulla delle emozioni legate a quegli istanti, ad eccezione di un particolare, forse il più importante. E cioè che quello era stato, “semplicemente”, il momento più alto di tutta la sua carriera. Cosa accadde allora, quella sera? Cosa rappresentò quel momento? Un semplice aneddoto? Un episodio da ascrivere come poco rilevante, nella rotolante e variegata storia del rock’n’roll? Forse è davvero così. O forse no.
Se c’è una cosa, che questa strana forma d’arte moderna chiamata rock non ha mai sottovalutato, è il proprio rapporto con la realtà. Nessun artista che abbia preso la propria musica sul serio si è mai sognato di trascurare ciò che la vita gli poneva innanzi e soprattutto di manifestare ad essa un grido, talora confuso e disperato, ma sempre maledettamente sincero: il desiderio profondo della propria felicità. Sino al punto, magari, di pagare il prezzo più alto – la propria vita – se questo si fosse rivelato disatteso. Perché questo bisogno stringente è severo e, allo stesso tempo, anche impaziente: l’urlo amaro dell’ultima canzone di Hank Williams – “I'll Never Get Out of This World Alive" –, edita appena pochi giorni dopo la sua morte, sembra fare eco a quel “vieni come sei, fai in fretta, non fare tardi” di un Kurt Cobain che muore suicida sulla stessa strada di un cuore che non è disposto a fare sconti a niente e nessuno. La stessa canzone d’amore, se in grado di manifestare davvero se stessa, non è mai – come disse una volta Nick Cave – “semplicemente felice”. Essa “deve innanzitutto abbracciare il potenziale per il dolore”. E se le canzoni che parlano d’amore – aggiunge – non hanno dentro “un malessere o un sospiro”, esse “non sono del tutto canzoni d’amore, ma piuttosto canzoni d’odio mascherate da canzoni d’amore e non bisogna credere loro”.
Ecco, allora, qual è il punto. Se una canzone rock giunge alla pretesa di contenere il mondo, allora quel mondo deve avere quella misura d’amore come misura di verità. Perché solo allora è in grado di abbracciare la ferita dell’uomo e, esprimendola, coglierla come una benedizione, senza avere paura di percorrere anche territori bui ed inesplorati, ma che soli possono essere preludio alla possibilità di giungere ad una vita esistenzialmente più sincera, la vera vita buona. Per questo la musica rock non stanca e non stancherà mai chi saprà farsi capace di andare oltre a quei tre minuti e tre accordi che, così spesso, hanno costruito le grandi canzoni. E che, nella sfrontata esibizione della propria esigenza di bellezza, hanno interpellato in qualche modo Dio. “Tutte le canzoni – scrive ancora Nick Cave – si rivolgono a Dio, perché è la casa stregata dal desiderio nella quale abita la vera Canzone d’Amore”.
Allora, per chi scrive, ripensare a quell’incontro tra Bob Dylan e san Giovanni Paolo II, non può essere, certamente, un semplice guardare ad un episodio aneddotico della storia della musica rock, ma ad un vertice di incontro, dentro quel desiderio così profondo del cuore dell’uomo. “Basta poca fede per fare tanta strada – disse Bob Dylan, poco tempo fa, al suo interlocutore di turno, giornalista di Rolling Stone – ma ci vuole tempo per acquisirla. Bisogna continuare a cercarla”. Perciò, la domanda dell’uomo, scritta dentro la musica rock più sincera, difficilmente cesserà di suonare la sua canzone. Ed il rock’n’roll, per dirla con Neil Young, non potrà certamente morire. Mai". 
(Fausto Leali)

Thursday, April 23, 2015

STATE LINE

“C’è sempre questo sogno di scappare, ma non esiste un luogo da cui fuggire, ognuno di noi non fa altro che correre verso se stesso” (Willy Vlautin)


Lei ha soltanto quindici anni. Carica tutte le sue cose sull'auto di famiglia e scappa, perché morire un po’ alla volta a casa, oppure da sola, nel mondo là fuori, non fa davvero differenza. Guida di notte, lungo strade solitarie e deserte, fino ad arrivare al confine, la linea dove riposano tutti i pensieri e i desideri insoddisfatti del suo cuore. Ma non riesce ad attraversarlo. Così torna indietro e dopo trent'anni quel fotogramma è sempre lì, immobile ed uguale, perché non puoi fuggire da nessun posto se nulla al mondo sarà mai una casa. La vita le appare come la stessa scena di uno stesso film. Quella linea sottile ed immobile che tutti possono varcare, salvo lei. (...)