"667 Ne so una più del diavolo" é il titolo del nuovo libro di Fabrizio Barabesi e dell'amico Maurizio Pratelli, da poco disponibile in tutte le librerie ed edito da Arcana.
Quella che segue é la postfazione che ho scritto per il libro. Il volume é acquistabile a questo link
Buona lettura
Buona lettura
Rock'n'roll can never die
"Bologna, 27 settembre 1997, Congresso Eucaristico nazionale. Bob Dylan posa la sua chitarra e si avvicina lentamente al palco, dove è seduto Giovanni Paolo II. Ha appena finito di cantare Knockin’ On Heaven’s Doors e Hard Rain’s A-Gonna Fall ed ora sta andando a salutare il Papa. Cammina di un’andatura incerta, gira e rigira le mani tra di loro. Inciampa lungo i gradini, manca poco che vi cada. Istanti che sembrano infiniti, finché l’uno giunge di fronte all’altro, sino a quando quelle mani, che non sapevano dove stare, vengono strette da un altro. Parole e frasi sconosciute, una serie di sguardi, intensi, poi Dylan torna al suo posto. Giovanni Paolo si risiede, riprende il testo di una delle canzoni più note dell’artista americano – Blowin’ In The Wind – e parla di domande e di strade da seguire: “la risposta non soffia nel vento che tutto disperde, nei vortici del nulla, ma nel vento che è soffio e voce dello Spirito, voce che chiama e dice: vieni”. E’ un uomo anziano, vitale nell’anima, ma ormai stanco nel corpo: si rivolge ai presenti, saluta, sorride e se ne va. Bob Dylan riprende chitarra e microfono, canta la sua Forever Young. Poi se ne va pure lui, ognuno di nuovo a percorrere il proprio cammino. Negli anni a seguire, di fronte alle numerose domande, Dylan non rivelerà mai nulla delle emozioni legate a quegli istanti, ad eccezione di un particolare, forse il più importante. E cioè che quello era stato, “semplicemente”, il momento più alto di tutta la sua carriera. Cosa accadde allora, quella sera? Cosa rappresentò quel momento? Un semplice aneddoto? Un episodio da ascrivere come poco rilevante, nella rotolante e variegata storia del rock’n’roll? Forse è davvero così. O forse no.
Se c’è una cosa, che questa strana forma d’arte moderna chiamata rock non ha mai sottovalutato, è il proprio rapporto con la realtà. Nessun artista che abbia preso la propria musica sul serio si è mai sognato di trascurare ciò che la vita gli poneva innanzi e soprattutto di manifestare ad essa un grido, talora confuso e disperato, ma sempre maledettamente sincero: il desiderio profondo della propria felicità. Sino al punto, magari, di pagare il prezzo più alto – la propria vita – se questo si fosse rivelato disatteso. Perché questo bisogno stringente è severo e, allo stesso tempo, anche impaziente: l’urlo amaro dell’ultima canzone di Hank Williams – “I'll Never Get Out of This World Alive" –, edita appena pochi giorni dopo la sua morte, sembra fare eco a quel “vieni come sei, fai in fretta, non fare tardi” di un Kurt Cobain che muore suicida sulla stessa strada di un cuore che non è disposto a fare sconti a niente e nessuno. La stessa canzone d’amore, se in grado di manifestare davvero se stessa, non è mai – come disse una volta Nick Cave – “semplicemente felice”. Essa “deve innanzitutto abbracciare il potenziale per il dolore”. E se le canzoni che parlano d’amore – aggiunge – non hanno dentro “un malessere o un sospiro”, esse “non sono del tutto canzoni d’amore, ma piuttosto canzoni d’odio mascherate da canzoni d’amore e non bisogna credere loro”.
Ecco, allora, qual è il punto. Se una canzone rock giunge alla pretesa di contenere il mondo, allora quel mondo deve avere quella misura d’amore come misura di verità. Perché solo allora è in grado di abbracciare la ferita dell’uomo e, esprimendola, coglierla come una benedizione, senza avere paura di percorrere anche territori bui ed inesplorati, ma che soli possono essere preludio alla possibilità di giungere ad una vita esistenzialmente più sincera, la vera vita buona. Per questo la musica rock non stanca e non stancherà mai chi saprà farsi capace di andare oltre a quei tre minuti e tre accordi che, così spesso, hanno costruito le grandi canzoni. E che, nella sfrontata esibizione della propria esigenza di bellezza, hanno interpellato in qualche modo Dio. “Tutte le canzoni – scrive ancora Nick Cave – si rivolgono a Dio, perché è la casa stregata dal desiderio nella quale abita la vera Canzone d’Amore”.
Allora, per chi scrive, ripensare a quell’incontro tra Bob Dylan e san Giovanni Paolo II, non può essere, certamente, un semplice guardare ad un episodio aneddotico della storia della musica rock, ma ad un vertice di incontro, dentro quel desiderio così profondo del cuore dell’uomo. “Basta poca fede per fare tanta strada – disse Bob Dylan, poco tempo fa, al suo interlocutore di turno, giornalista di Rolling Stone – ma ci vuole tempo per acquisirla. Bisogna continuare a cercarla”. Perciò, la domanda dell’uomo, scritta dentro la musica rock più sincera, difficilmente cesserà di suonare la sua canzone. Ed il rock’n’roll, per dirla con Neil Young, non potrà certamente morire. Mai".
Se c’è una cosa, che questa strana forma d’arte moderna chiamata rock non ha mai sottovalutato, è il proprio rapporto con la realtà. Nessun artista che abbia preso la propria musica sul serio si è mai sognato di trascurare ciò che la vita gli poneva innanzi e soprattutto di manifestare ad essa un grido, talora confuso e disperato, ma sempre maledettamente sincero: il desiderio profondo della propria felicità. Sino al punto, magari, di pagare il prezzo più alto – la propria vita – se questo si fosse rivelato disatteso. Perché questo bisogno stringente è severo e, allo stesso tempo, anche impaziente: l’urlo amaro dell’ultima canzone di Hank Williams – “I'll Never Get Out of This World Alive" –, edita appena pochi giorni dopo la sua morte, sembra fare eco a quel “vieni come sei, fai in fretta, non fare tardi” di un Kurt Cobain che muore suicida sulla stessa strada di un cuore che non è disposto a fare sconti a niente e nessuno. La stessa canzone d’amore, se in grado di manifestare davvero se stessa, non è mai – come disse una volta Nick Cave – “semplicemente felice”. Essa “deve innanzitutto abbracciare il potenziale per il dolore”. E se le canzoni che parlano d’amore – aggiunge – non hanno dentro “un malessere o un sospiro”, esse “non sono del tutto canzoni d’amore, ma piuttosto canzoni d’odio mascherate da canzoni d’amore e non bisogna credere loro”.
Ecco, allora, qual è il punto. Se una canzone rock giunge alla pretesa di contenere il mondo, allora quel mondo deve avere quella misura d’amore come misura di verità. Perché solo allora è in grado di abbracciare la ferita dell’uomo e, esprimendola, coglierla come una benedizione, senza avere paura di percorrere anche territori bui ed inesplorati, ma che soli possono essere preludio alla possibilità di giungere ad una vita esistenzialmente più sincera, la vera vita buona. Per questo la musica rock non stanca e non stancherà mai chi saprà farsi capace di andare oltre a quei tre minuti e tre accordi che, così spesso, hanno costruito le grandi canzoni. E che, nella sfrontata esibizione della propria esigenza di bellezza, hanno interpellato in qualche modo Dio. “Tutte le canzoni – scrive ancora Nick Cave – si rivolgono a Dio, perché è la casa stregata dal desiderio nella quale abita la vera Canzone d’Amore”.
Allora, per chi scrive, ripensare a quell’incontro tra Bob Dylan e san Giovanni Paolo II, non può essere, certamente, un semplice guardare ad un episodio aneddotico della storia della musica rock, ma ad un vertice di incontro, dentro quel desiderio così profondo del cuore dell’uomo. “Basta poca fede per fare tanta strada – disse Bob Dylan, poco tempo fa, al suo interlocutore di turno, giornalista di Rolling Stone – ma ci vuole tempo per acquisirla. Bisogna continuare a cercarla”. Perciò, la domanda dell’uomo, scritta dentro la musica rock più sincera, difficilmente cesserà di suonare la sua canzone. Ed il rock’n’roll, per dirla con Neil Young, non potrà certamente morire. Mai".
(Fausto Leali)
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