“Sarebbe
bello poter leggere il diario di Nick Cave; scorrerlo e conoscere tutti i particolari
di una personalità così attiva e creativa, per scoprire il significato dei
testi, incrociare le proprie impressioni con la sua realtà interiore e col suo
stile, libero da schemi precostituiti”. Le prime righe della pagina iniziale
del sito italiano dedicato all’autore australiano non potrebbero essere più
chiare di così. Sarebbe bello, davvero. Possedere la chiave d’accesso al suo
universo, scavare giù nel profondo del suo cuore, senza, per questo, esercitare
alcun tipo di violenza: solo per affinità elettiva, per trovare quel terreno
comune dove sono seminati i sogni, le aspirazioni, le gioie e i malesseri che ci
accomunano tutti. E’ ovvio che non possa essere così. E che non debba essere questo
il percorso da compiere, cercare la soluzione preconfezionata, la guida
all’ascolto che ci dica in quale direzione andare e quale possa essere il
risultato finale della nostra ricerca.
Il
primo livello di lettura di Skeleton Tree,
il nuovo album di Nick Cave, dovrebbe allora cercare innanzitutto di non scalfire
solo la superficie, evitando il ricorso a facili quanto rischiose
semplificazioni. Dire, ad esempio, che questo è un disco che gira intorno alla
tragica perdita di Arthur, il quindicenne figlio di Cave morto nel luglio dello
scorso anno, dopo essere caduto a precipizio dalle scogliere nei pressi di
Brighton. O affermare che Nick, per l’ennesima volta, narra di morte e di
dolore come solo lui sa fare, romantico e tormentato come uno scrittore
dell’ottocento, cose, peraltro, corrette e risapute. “Sono ormai passati
vent’anni – diceva Nick ancora nel 1999 – da che scrivo canzoni, e ancora ho
dentro quel vuoto, ancora persiste quella inspiegabile tristezza, il duende, la
saudade, l’insoddisfazione divina”. E gli anni trascorsi, adesso, sono quasi
quaranta. (...)
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