"A volte con questa stampella mi scambiano per un paziente. - Allora metti il camice come tutti noi. - No, altrimenti mi scambiano per un medico"
Quella volta era accaduto qualcosa di speciale.
Il collega, per una volta, si era confidato; aveva aperto uno spiraglio del proprio cuore in un ambiente, quello di lavoro, che di solito non concede spazi a debolezze, stati d'animo, desideri e aspettative.
Tutti i luoghi di lavoro, d'altra parte, appaiono ormai drammaticamente simili: conta solo la velocità e la quantità; il valore della persona solo raramente viene messo in rilievo e la qualità sembra non interessare più a nessuno.
Lui, invece, si era sfogato e mi aveva detto che era stanco di stare in ospedale.
Stanco perché non riusciva più ad appendere il camice e tornarsene a casa, lasciandosi il lavoro alle spalle. La sofferenza che incontrava ogni giorno cominciava a farsi strada in maniera troppo prepotente e lui, a sua volta, non sopportava la propria invadenza nel conoscere il destino degli altri.
Ricordo che in qualche modo rimasi male; era uno dei colleghi professionalmente più validi che avessi mai incontrato: ora che provava anche questo, sarebbe stato davvero un peccato se avesse mollato tutto così.
Ci rimasi male, anche perché quel desiderio di umanità che i pazienti hanno sempre nei confronti dei medici, io lo riconoscevo come un bisogno e quel giorno mi parve, nello sguardo del collega, desiderio ingiustamente disatteso.
Eppure quante volte, prima d'allora, mi ero ribellato a quella pretesa di mestiere inteso come missione, schiacciato invece dalla pericolosità e dal rischio, dalla pressione e dalla responsabilità di un quotidiano che talvolta sembra impossibile da vivere ?
Ma qual é il ruolo del medico ?
La questione se la pone anche il British Medical Journal, in un recente editoriale. (1)
E, nel farlo, inizia col citare una serie di attributi.
Come quello dell'imperturbabilità, ad esempio, quella di cui parlava William Osler rivolgendosi ai suoi studenti di medicina: "due qualità possono far decollare o affondare le vostre vite. La prima qualità: imperturbabilità. Il medico deve apparire calmo in mezzo alla tempesta e mostrare lucidità nei momenti di grande rischio: "E' essenziale infondere sicurezza nei pazienti impressionabili o impauriti".
E la seconda qualità, prosegue poi Osler é l'equanimità: tolleranza ed attitudine a non giudicare mai il prossimo.
Ma poi l'articolo menziona altre caratteristiche: altruismo, modestia, diligenza, desiderio di fare sempre la cosa giusta.
E ancora: destrezza nel gestire situazioni incerte, nel raccogliere informazioni in fretta, nel prendere decisioni giuste anche sotto pressione; capacità di mostrare empatia ed ascolto.
Insomma, i medici parrebbero persone davvero speciali: gente proprio fuori dal comune.
Ma l'articolo va oltre tutto ciò.
Vuole prendere giustamente in considerazione anche l'aspettativa del paziente: é un altro marcatore di qualità.
Ed é facile immaginare quale possa essere la soddisfazione di quest'ultimo: il paziente prende in grandissimo rilievo l'umanità del medico; tuttavia, allo stesso tempo, non é disposto a fare a meno di un'ineccepibile competenza, sin nei più minimi particolari.
Il collega, per una volta, si era confidato; aveva aperto uno spiraglio del proprio cuore in un ambiente, quello di lavoro, che di solito non concede spazi a debolezze, stati d'animo, desideri e aspettative.
Tutti i luoghi di lavoro, d'altra parte, appaiono ormai drammaticamente simili: conta solo la velocità e la quantità; il valore della persona solo raramente viene messo in rilievo e la qualità sembra non interessare più a nessuno.
Lui, invece, si era sfogato e mi aveva detto che era stanco di stare in ospedale.
Stanco perché non riusciva più ad appendere il camice e tornarsene a casa, lasciandosi il lavoro alle spalle. La sofferenza che incontrava ogni giorno cominciava a farsi strada in maniera troppo prepotente e lui, a sua volta, non sopportava la propria invadenza nel conoscere il destino degli altri.
Ricordo che in qualche modo rimasi male; era uno dei colleghi professionalmente più validi che avessi mai incontrato: ora che provava anche questo, sarebbe stato davvero un peccato se avesse mollato tutto così.
Ci rimasi male, anche perché quel desiderio di umanità che i pazienti hanno sempre nei confronti dei medici, io lo riconoscevo come un bisogno e quel giorno mi parve, nello sguardo del collega, desiderio ingiustamente disatteso.
Eppure quante volte, prima d'allora, mi ero ribellato a quella pretesa di mestiere inteso come missione, schiacciato invece dalla pericolosità e dal rischio, dalla pressione e dalla responsabilità di un quotidiano che talvolta sembra impossibile da vivere ?
Ma qual é il ruolo del medico ?
La questione se la pone anche il British Medical Journal, in un recente editoriale. (1)
E, nel farlo, inizia col citare una serie di attributi.
Come quello dell'imperturbabilità, ad esempio, quella di cui parlava William Osler rivolgendosi ai suoi studenti di medicina: "due qualità possono far decollare o affondare le vostre vite. La prima qualità: imperturbabilità. Il medico deve apparire calmo in mezzo alla tempesta e mostrare lucidità nei momenti di grande rischio: "E' essenziale infondere sicurezza nei pazienti impressionabili o impauriti".
E la seconda qualità, prosegue poi Osler é l'equanimità: tolleranza ed attitudine a non giudicare mai il prossimo.
Ma poi l'articolo menziona altre caratteristiche: altruismo, modestia, diligenza, desiderio di fare sempre la cosa giusta.
E ancora: destrezza nel gestire situazioni incerte, nel raccogliere informazioni in fretta, nel prendere decisioni giuste anche sotto pressione; capacità di mostrare empatia ed ascolto.
Insomma, i medici parrebbero persone davvero speciali: gente proprio fuori dal comune.
Ma l'articolo va oltre tutto ciò.
Vuole prendere giustamente in considerazione anche l'aspettativa del paziente: é un altro marcatore di qualità.
Ed é facile immaginare quale possa essere la soddisfazione di quest'ultimo: il paziente prende in grandissimo rilievo l'umanità del medico; tuttavia, allo stesso tempo, non é disposto a fare a meno di un'ineccepibile competenza, sin nei più minimi particolari.
Allora viene da pensare che forse tutto questo sia un po' troppo quasi per chiunque.
Anche per i medici, persone che hanno percorso un sentiero un po' particolare, quando hanno scelto questo mestiere - verrebbe da dire vocazionale - ma uomini, anche loro, come tutti gli altri.
Anche per i medici, persone che hanno percorso un sentiero un po' particolare, quando hanno scelto questo mestiere - verrebbe da dire vocazionale - ma uomini, anche loro, come tutti gli altri.
Un'altra citazione, me la si perdoni, ma uno cerca di attingere saggezza ovunque sia possibile.
E' tratta da una mostra - "Che cosa posso fare per te" - nata dall'esperienza di Medicina e Persona. (2)
L'introduzione della mostra comincia con un pensiero di John Updike : "confidiamo nei medici e negli infermieri. Per necessità li veneriamo; immaginiamo che la loro istruzione, competenza professionale e pia dedizione li abbia spogliati da ogni incertezza e agitazione, dalla repulsione che noi, nei loro panni, sperimenteremmo al vedere quello che loro vedono ed al doverlo curare. Il sangue, il pus e il vomito non fa venir loro il mal di stomaco; la senilità e la demenza non li spaventa (...) la carne e le sue malattie sono oggetto di diagnosi infallibili e cure efficaci".
E quell'introduzione prosegue così: "niente é più lontano dalla verità. Noi operatori sanitari soffriamo intensamente il contraccolpo della realtà nella quale lavoriamo: malattie, dolore, morte. Questo accade perché ci dedichiamo a esseri che non solo soffrono, ma cercano il senso della propria sofferenza. L'educazione che riceviamo non ci prepara ad affrontare questi temi in modo che non feriscano i nostri cuori".
Questo sì, é maledettamente vicino alla verità.
L'università non é mai stata maestra in tal senso e potrebbe non esserlo mai, se non accoglie un rischio educativo, nel desiderio di cambiare se stessa.
E quella ricerca del senso della sofferenza é, nella mia personale esperienza, sempre più il valore aggiunto di ciò che incontro costantemente e continuamente ogni mattina, subito pochi istanti dopo aver timbrato il cartellino all'ingresso del mio ospedale.
La sofferenza che interroga il paziente, costretto a fare i conti con la sua malattia, é la stessa sofferenza che, in forme diverse, irrompe nella mia vita di ogni giorno, portando con sé l'analoga richiesta di scovarne un significato.
Ed il desiderio di felicità, che alberga nel cuore di ciascuno, offuscato da quella stessa sofferenza, irrompente e inopportuna, invasiva e destruente, é quello che sia il paziente che il medico cercano, ma non perché coinvolti nei rispettivi ruoli alla ricerca di una soluzione che renda soddisfatti entrambi (la guarigione della malattia), ma semplicemente perché é un qualcosa che cercano comunque in quanto uomini.
La fede mi ha sempre aiutato, non a comprendere le ragioni del dolore, che resta Mistero inspiegabile nella vita dell'uomo, ma a rendermi capace di mutare uno sguardo, ossia di provare a guardare la stessa realtà con occhi differenti.
Una personalità carismatica del nostro tempo, Chiara Lubich, parlò un giorno proprio di sguardo, quello di un Dio morto misteriosamente in croce; e poiché di sguardo si tratta, citò le pupille di Occhi attraverso i quali Dio guarda l'umanità:
"Gesù é Gesù Abbandonato (3). Perché Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull'Umanità il Divino, attraverso la Ferita dell'Abbandono, che é la pupilla dell'Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell'umanità attraverso la quale si vede Dio". (4)
E' tratta da una mostra - "Che cosa posso fare per te" - nata dall'esperienza di Medicina e Persona. (2)
L'introduzione della mostra comincia con un pensiero di John Updike : "confidiamo nei medici e negli infermieri. Per necessità li veneriamo; immaginiamo che la loro istruzione, competenza professionale e pia dedizione li abbia spogliati da ogni incertezza e agitazione, dalla repulsione che noi, nei loro panni, sperimenteremmo al vedere quello che loro vedono ed al doverlo curare. Il sangue, il pus e il vomito non fa venir loro il mal di stomaco; la senilità e la demenza non li spaventa (...) la carne e le sue malattie sono oggetto di diagnosi infallibili e cure efficaci".
E quell'introduzione prosegue così: "niente é più lontano dalla verità. Noi operatori sanitari soffriamo intensamente il contraccolpo della realtà nella quale lavoriamo: malattie, dolore, morte. Questo accade perché ci dedichiamo a esseri che non solo soffrono, ma cercano il senso della propria sofferenza. L'educazione che riceviamo non ci prepara ad affrontare questi temi in modo che non feriscano i nostri cuori".
Questo sì, é maledettamente vicino alla verità.
L'università non é mai stata maestra in tal senso e potrebbe non esserlo mai, se non accoglie un rischio educativo, nel desiderio di cambiare se stessa.
E quella ricerca del senso della sofferenza é, nella mia personale esperienza, sempre più il valore aggiunto di ciò che incontro costantemente e continuamente ogni mattina, subito pochi istanti dopo aver timbrato il cartellino all'ingresso del mio ospedale.
La sofferenza che interroga il paziente, costretto a fare i conti con la sua malattia, é la stessa sofferenza che, in forme diverse, irrompe nella mia vita di ogni giorno, portando con sé l'analoga richiesta di scovarne un significato.
Ed il desiderio di felicità, che alberga nel cuore di ciascuno, offuscato da quella stessa sofferenza, irrompente e inopportuna, invasiva e destruente, é quello che sia il paziente che il medico cercano, ma non perché coinvolti nei rispettivi ruoli alla ricerca di una soluzione che renda soddisfatti entrambi (la guarigione della malattia), ma semplicemente perché é un qualcosa che cercano comunque in quanto uomini.
La fede mi ha sempre aiutato, non a comprendere le ragioni del dolore, che resta Mistero inspiegabile nella vita dell'uomo, ma a rendermi capace di mutare uno sguardo, ossia di provare a guardare la stessa realtà con occhi differenti.
Una personalità carismatica del nostro tempo, Chiara Lubich, parlò un giorno proprio di sguardo, quello di un Dio morto misteriosamente in croce; e poiché di sguardo si tratta, citò le pupille di Occhi attraverso i quali Dio guarda l'umanità:
"Gesù é Gesù Abbandonato (3). Perché Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull'Umanità il Divino, attraverso la Ferita dell'Abbandono, che é la pupilla dell'Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell'umanità attraverso la quale si vede Dio". (4)
E' condivisibile tutto ciò, nel quotidiano agire con pazienti, colleghi e gli altri operatori sanitari ?
Mi auguro davvero di sì, ma mi rendo conto che ha a che fare con la ricerca di ciascuno - me compreso - della Verità.
Credo però che tutto non si possa solo condurre ad un percorso individuale, quasi fosse una sorta di ascesi personale, "religiosa" o "laica" che sia.
Credo invece che, proprio perché siamo uomini, si debba cercare un terreno di condivisione, ossia di cammino insieme.
Mi ha sempre colpito una frase di Giancarlo Cesana, docente di Medicina del Lavoro all'Università degli Studi di Milano-Bicocca:
"L'errore formativo più grande é quello di ritenere che la coscienza individuale possa reggere indefinitamente grazie a una coerenza ferrea a principi che, una volta acquisiti, mai sono messi in discussione.
Non si può essere veramente amici degli uomini se non si vive di amicizia.
E l'amicizia non é altro che una correzione (che letteralmente significa "reggere insieme") del cammino ideale e morale di ciascuno verso il compimento del proprio destino" (5).
Mi auguro davvero di sì, ma mi rendo conto che ha a che fare con la ricerca di ciascuno - me compreso - della Verità.
Credo però che tutto non si possa solo condurre ad un percorso individuale, quasi fosse una sorta di ascesi personale, "religiosa" o "laica" che sia.
Credo invece che, proprio perché siamo uomini, si debba cercare un terreno di condivisione, ossia di cammino insieme.
Mi ha sempre colpito una frase di Giancarlo Cesana, docente di Medicina del Lavoro all'Università degli Studi di Milano-Bicocca:
"L'errore formativo più grande é quello di ritenere che la coscienza individuale possa reggere indefinitamente grazie a una coerenza ferrea a principi che, una volta acquisiti, mai sono messi in discussione.
Non si può essere veramente amici degli uomini se non si vive di amicizia.
E l'amicizia non é altro che una correzione (che letteralmente significa "reggere insieme") del cammino ideale e morale di ciascuno verso il compimento del proprio destino" (5).
Si può vivere così ?
Certamente sì, per lo meno si può tendere a questo.
Allora diventa vero quel pensiero che é la conclusione della sopracitata mostra "Che cosa posso fare per te" : "Il bene si comunica in modo tale che unisce. Se in un ospedale c'é un'infermiera con senso di responsabilità, che mette il cuore in quello che fa ed é atea, e nello stesso posto ce n'é un'altra conosciuta per la sua religiosità cattolica, con la stessa passione e che mette il cuore in quello che fa, é impossibile che queste due non stiano insieme. Questo permetterà loro di creare una nuova vita all'interno delle strutture lavorative. Senza tendere a questo il cristiano non é cristiano - e l'uomo non é uomo". (6)
Proprio così: insieme.
Alla faccia del dottor House, che comunque rappresenta sempre una bella provocazione...
Certamente sì, per lo meno si può tendere a questo.
Allora diventa vero quel pensiero che é la conclusione della sopracitata mostra "Che cosa posso fare per te" : "Il bene si comunica in modo tale che unisce. Se in un ospedale c'é un'infermiera con senso di responsabilità, che mette il cuore in quello che fa ed é atea, e nello stesso posto ce n'é un'altra conosciuta per la sua religiosità cattolica, con la stessa passione e che mette il cuore in quello che fa, é impossibile che queste due non stiano insieme. Questo permetterà loro di creare una nuova vita all'interno delle strutture lavorative. Senza tendere a questo il cristiano non é cristiano - e l'uomo non é uomo". (6)
Proprio così: insieme.
Alla faccia del dottor House, che comunque rappresenta sempre una bella provocazione...
Note:
(1) Fiona Godlee - The role of the doctor - BMJ 2007; 335 (17 november)
(2) "Che cosa posso fare per te? Medico e paziente di fronte al dolore" - Medicina e Persona
(3) "Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, eloì, lemà sabactani ?", che significa : "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?" (Mc, 15-34)
(4) Chiara Lubich - Il grido - Città Nuova editrice
(5) Giancarlo Cesana - Il "ministero" della salute - Studio editoriale fiorentino
(6) ibid. (2)
2 comments:
i miei medici preferiti, gli unici medici tv che sopporto
http://www.scrubs-tv.com/
mi domando sempre come mai recentemente qs esplosione di serie tv più o meno impegnate e che riscuotono enorme successo, come se alla gente piacesse vedere il dolore in tv... una ssorta di voyeurismo... forse così fa sembrare più lontano, meno reale il dolore.... io non sopporto l'esposizione pubblica del dolore in televisione, soprattutto da quando ho perso delle persone care mi indigna vedere la sofferenza venduta un tanto al chilo da un george clooney in camice
ma ammiro tantissimo i "dottori veri" come chi gestisce qs blog....
Di fronte al dolore, così come alle questioni vere della nostra vita ce la caviamo in un modo solo :con la mendicanza, come disse un nostro mai dimenticato amico.
Senza ricorrere ad un Aiuto, da soli non ce la possiamo fare.
Non sopporto le fiction e le strumentalizzazioni televisive esattamente come te; hanno reso la tv di oggi inguardabile.
E.R. però non mi dispiace: nell'intreccio delle storie dei personaggi, la domanda del significato di ciò che accade emerge spesso e volentieri.
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