Vi è qualcosa d’atavico e ineffabile nell’abitudine dell’uomo a dirigersi così spesso ad ovest. Popoli interi o singoli emigranti, l’attrazione a seguire il corso del sole e giungere laggiù dove tramonta appare come qualcosa d’irresistibile. Anche l’asse longitudinale delle grandi cattedrali, quello che dall’abside percorre tutta la navata per giungere sino alla facciata della chiesa, è quasi sempre costruito lungo questo percorso che da est porta ad ovest, fino al luogo che si contrappone al Levante, dove apparirà, come un nuovo sole, Cristo che sconfigge la morte. Per questo a Chartres, ma anche nelle altre numerose chiese che fiorirono nel XII secolo in Francia, è rappresentata l’Apocalisse nel portone principale. Eppure il volto di Gesù, al centro del timpano del Portal Royal, non è di quelli che incutono timore; è un viso dolce, invece, quasi che la Parusia non sia un evento di cui aver paura, ma istante in cui tutta la vita dell’uomo possa finalmente ricomporsi in un’armonia a lungo cercata, in mezzo a mille dolori ed affanni.
Sarà pur vero che quel che importa non è dove si va, ma andare, eppure l’attrazione a puntare il muso dell’auto verso quel benedetto ovest, che fa capolino anche nei più oscuri meandri della mia mente, è troppo forte per opporvi un’adeguata resistenza. Allora i 160 chilometri che separano il tranquillo golfo del Morbihan dalla fine di tutte le terre, la Pointe Du Raz, estremità ovest del Finistère, sono nulla in confronto al desiderio di giungere sino ai confini di queste terre di mezzo. La strada da percorrere, diritta e silenziosa, ha intorno a sé una cornice di sole e nuvole di pioggia che danzano tra loro, mentre il sottofondo è un affascinante tappeto sonoro, strano mélange tra tradizione celtica e rock, come solo la musica di Alan Stivell è stata, negli anni, capace di fare. Suoni e canzoni ascoltati mille volte e che sembrano riuscire finalmente a liberarsi dallo spartito che le ha tenute rinchiuse, ora che hanno ritrovato la strada che porta verso casa. E quando, come richiamati da una sorta di magica alchimia, i fratelli di Scozia dei Runrig fuoriescono prepotentemente anche loro dall’iPod, ecco finalmente, lungo le note di Loch Lomond, stagliarsi all’orizzonte le lunghe scogliere della Finis Terrae.
Alla Pointe Du Raz, però, non si arriva poco dopo aver lasciato l’auto nel parcheggio ed è giusto che sia così, perché la Bellezza è qualcosa che merita d’essere conquistato con fatica e con sudore. Ci sono ancora venti minuti da fare a piedi, lungo il sentiero che s’insinua tra rocce e campi d’erica in fiore e che, poco a poco, lasciano che lo sguardo giunga a conquistare sempre di più il mare.
Mare che, però, non è mai disposto a farsi afferrare per intero. E’ lui il vero padrone della terra, con le onde che, anche oggi, giorno di bonaccia, minacciano pericolosamente i fari più lontani, laggiù dove s’intravede l’Ile de Sein e ancora più in là, ove vi è solo il colosso di Ar-Men.
Eppure non può essere inferno, tutto questo, penso mentre, seduto sul bordo della scogliera, guardo il via vai incessante delle onde. Non lo è il faro di Ar-Men, così come quello della Jument, a dispetto della paura che il mare ha sempre messo addosso ai loro guardiani. Non lo è neppure il maestoso faro di Punta Saint Mathieu, l’altro estremo occidentale del Finistère, costruito a ridosso delle rovine di quell’antica abbazia che monaci benedettini erano venuti a costruire proprio qui, perché, ancora una volta, l’ovest non è più luogo dove tutto finisce, ma dove la Bellezza è risorta perché la gioia e la speranza possano non avere più fine.
E mentre, tranquillo, guardo ancora una volta tutta quella distesa d’acqua, alle mie spalle la statua di Notre-Dame des Naufragés, ultimo baluardo sulla terraferma della Pointe Du Raz ed unico porto sicuro per noi, poveri pellegrini in balia dell’ira della tempesta, mi tornano alla mente le parole che un prete brianzolo, che tanto aveva amato il mare, pronunciò un giorno neppure così lontano: “ma calmo o agitato, silenzioso od irato, il mare ha ogni giorno ed ogni istante un minimo comun denominatore, un significato base unico ed inesorabile, che è la sua grandezza; il senso travolgente di una immane aspirazione all’infinito, al mistero infinito”
(2-continua)
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