Antonio era un medico, padre di tre figli, l'ultimo dei quali affetto da sindrome di Down; lavorava all'Istituto dei tumori di Milano e per parecchi anni aveva svolto parallelamente anche la professione di medico di famiglia.
Una gran bella persona, che mi sarebbe piaciuto avere come amico.
Un amico di quelli che non ti lasciano mai in pace, perché il loro agire quotidiano ti interroga continuamente.
Una di quelle persone vere, insomma, che nessuno, passandogli accanto, sembra mai sfiorare invano.
Antonio visse con pienezza anche gli ultimi dieci anni, quelli della malattia, il tumore che lo portò a una precoce dipartita. Malattia che lui non chiamò "disgrazia": preferiva lasciare solo quel "grazia" finale e vivere la questione così.
Leggendo il libro che raccoglie molti dei suoi scritti (1) ho trovato passaggi straordinari, squarci di vita radicalmente e spericolatamente cristiana, nella convinzione che solo un cammino comunitario quale era il suo fosse capace di frutti quali il centuplo quaggiù.
Antonio ha lasciato il segno su molti e continua a farlo anche ora.
Come con me, con alcuni dei suoi pensieri riguardanti l'agire medico, che sono divenuti spunto di profonda riflessione.
"Intorno alle situazioni di dolore si avverte sempre più un vuoto di umanità, un vuoto inteso anche in senso fisico, nel senso che quando la vicenda é giunta ad un punto in cui l'intervento tecnico é inefficace, incomincia una specie di rifiuto e di fuga da parte di tutti.
Il dolore, la sofferenza, la solitudine, l'indigenza, l'handicap, sono considerati nemici da combattere; ma quando la battaglia per la loro eliminazione é perduta, allora diventano aspetti della vita da dimenticare, luoghi da cui fuggire, viene loro negato ogni significato.
Io stesso, quando vengo chiamato ad intervenire in certe situazioni, sento dentro di me come prima reazione un senso di disagio, di paura, d'inadeguatezza; faccio fatica anch'io a non fuggire.
Questo senso di paura e di disagio non sono altro che manifestazioni sul piano sentimentale di una mancanza di chiarezza su quelle che sono le ragioni del vivere e del soffrire" (1)
(Antonio Rodari)
Mi vengono in mente tre piccole esperienze personali.
M. é un infermiera. Quando sua madre viene ricoverata in gravi condizioni assisto a un grande impegno, clinico ed assistenziale, da parte di tutti gli operatori sanitari, agevolato anche dallo spirito di famiglia che coinvolge tutti. Tuttavia mano a mano che le speranze di guarigione si affievoliscono cala l’impegno “tecnico” dei singoli , mentre cresce un disarmante ed umano imbarazzo da parte di molti di fronte ad un dolore che ormai non chiede più rimedi ma solo “compagnia”.
Faccio i conti anch'io col desiderio di fuggire, ma sento crescere in me l'attrattiva verso qualcosa che percepisco essere prezioso. Così trovo la forza di avvicinarmi una volta in più, sedermi su quel letto solo per pochi istanti, senza aver nulla da fare ormai come medico e nulla da dire come uomo; sono i giorni della vigilia di Pasqua e, nella mia impotente e silenziosa presenza di quei momenti, mi par di percepire solo la desolazione di Maria.
Quella sofferenza giungerà al termine nelle ore successive e qualche tempo dopo qualcuno mi ringrazierà per l'aiuto - che a me appariva di non aver dato - di quei momenti.
Quella sofferenza giungerà al termine nelle ore successive e qualche tempo dopo qualcuno mi ringrazierà per l'aiuto - che a me appariva di non aver dato - di quei momenti.
Se la malattia coinvolge un collega può sortire l'effetto di scardinare un poco un'idea inconscia che un medico rischia di farsi spesso; che cioè gli ammalati stiano sempre dall’altra parte rispetto a quella dove ti sei messo tu e che lo spartiacque tra questi due territori debba sempre avere limiti ben precisi.
Capita con una persona tutti i giorni al mio fianco e mi accorgo di poter far poco dal punto di vista tecnico, ma sento che la questione in gioco é grande. Una volta di più il limite, la circostanza dell’attimo presente mi interroga, mi chiede di prendere una posizione e la grazia di Dio mi consente di non defilarmi una volta di più.
Faccio poco in fondo: una lettera, qualche parola, ma tutto questo diviene base di momenti di condivisione e la nascita di un rapporto nuovo e più profondo.
Faccio poco in fondo: una lettera, qualche parola, ma tutto questo diviene base di momenti di condivisione e la nascita di un rapporto nuovo e più profondo.
Un altro giorno, un altro luogo.
Un colloquio con un altro medico, uno di quei rari momenti in cui é possibile andare in profondità.
Mi dice che negli ultimi anni comincia ad averne abbastanza di questo mestiere, perché non riesce più, al termine della giornata, ad appendere il camice e tornarsene a casa senza pensieri.
Non riesce perché comincia a soffrire con le persone, a non sopportare più la propria invadenza nel conoscerne il destino, nell’entrare nelle loro cose più intime.
Mi sento di dirgli che se lui, già professionista eccelso, comincia ad avere dentro questi sentimenti, allora sarebbe davvero un peccato che mollasse tutto così.
E intanto penso a me stesso e mi rendo conto che più vado avanti in questo lavoro, più mi accorgo di come non conti la somma dei successi e dei fallimenti, ma valga soprattutto la condivisione.
E questo è tanto più vero, quanto più ci si misura con il “limite”, ossia col fatto che la medicina non é – appunto – l’arte di saper spostare i “limiti” come le malattie e la morte il più in là possibile, se non addirittura sperare utopisticamente di eliminarli, ma qualcosa di diverso.
Ne parlo di sera a casa, con mia moglie e le confesso di non capire fino in fondo il disagio del collega di fronte a situazioni di sofferenza.
La risposta che mi dà é illuminante: “Certo, é perché non ha ancora trovato la risposta. E’ per questo che un peso così gli risulta insopportabile”.
Mi dice che negli ultimi anni comincia ad averne abbastanza di questo mestiere, perché non riesce più, al termine della giornata, ad appendere il camice e tornarsene a casa senza pensieri.
Non riesce perché comincia a soffrire con le persone, a non sopportare più la propria invadenza nel conoscerne il destino, nell’entrare nelle loro cose più intime.
Mi sento di dirgli che se lui, già professionista eccelso, comincia ad avere dentro questi sentimenti, allora sarebbe davvero un peccato che mollasse tutto così.
E intanto penso a me stesso e mi rendo conto che più vado avanti in questo lavoro, più mi accorgo di come non conti la somma dei successi e dei fallimenti, ma valga soprattutto la condivisione.
E questo è tanto più vero, quanto più ci si misura con il “limite”, ossia col fatto che la medicina non é – appunto – l’arte di saper spostare i “limiti” come le malattie e la morte il più in là possibile, se non addirittura sperare utopisticamente di eliminarli, ma qualcosa di diverso.
Ne parlo di sera a casa, con mia moglie e le confesso di non capire fino in fondo il disagio del collega di fronte a situazioni di sofferenza.
La risposta che mi dà é illuminante: “Certo, é perché non ha ancora trovato la risposta. E’ per questo che un peso così gli risulta insopportabile”.
Il punto allora é proprio questa risposta.
Il culmine della passione di Cristo sembra essere stato il momento in cui, in croce, ha gridato “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?” (2) Gesù, che ha già vissuto la sofferenza fisica oltre l’immaginabile, assume su di sé il dolore più atroce: la sensazione d’essere lasciato dal Padre.
Chiara Lubich parla così di quell’attimo d’infinito amore di Dio per l’umanità : “Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull’umanità il Divino, attraverso la ferita dell’Abbandono, che é la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio” (3).
Chiara Lubich parla così di quell’attimo d’infinito amore di Dio per l’umanità : “Gesù é il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull’umanità il Divino, attraverso la ferita dell’Abbandono, che é la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio” (3).
E' questa allora la prospettiva ?
Questa la modalità per accogliere l'inaccoglibile ?
Personalmente credo proprio di sì, perché questo mi appare essere l'unico terreno dove sia resa possibile la reciprocità.
Ma c'é bisogno d'essere educati e di compiere un cammino insieme.
Citando ancora Antonio Rodari:
"il medico ... deve essere vero con se stesso e con la sua vita. Per poter vivere con verità il destino dell'altro deve essere aiutato a vivere con verità il proprio destino. Deve imparare a giudicare la sua vita e le sue azioni non sulla base del loro esito, ma sulla base di ciò che le muove. E questo avviamento non é istintivo, ma é l'esito di una compagnia e di una educazione.
Quello che permette al medico di non scoppiare dentro un rapporto con una persona che non può ottenere alcun evidente alleggerimento dalla pesantezza della sua situazione e quello che può permettere a chi é nell'indigenza di non disperare é lo scoprire che il vivere insieme quei momenti e con verità l'uno nei confronti dell'altro ha un significato che trascende i limiti dell'esito contingente della vicenda" (4).
Note:
(1) Antonio Rodari - La camomilla ha sconfitto il male - BUR-i libri dello spirito cristiano.
(2) Mc 15,34; cf. Mt 27,46
(3) Chiara Lubich, “Il grido“, ed. Città Nuova, 2000
(3) Chiara Lubich, “Il grido“, ed. Città Nuova, 2000
(4) vd. (1)
2 comments:
great stuff thanx
hai visto l'infedele questa settimana? il tuo post capita a fagiolo...
Non l'ho visto, ma ho letto la sacrosanta presa di posizione di Medicina e Persona....
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