Oggi é tutto diverso ed un viaggio virtuale, fatto di siti internet o dvd guardati su schermi giganti con home theatre ed effetti surround, può dare piacevoli sensazioni anche senza salire fisicamente su un aereo e recarsi di persona in terre lontane.
Certo, rispetto ad un viaggio vero, non é la stessa cosa neppure ora, ma forse una volta arrivare in un paese straniero così distante aveva un po' più di fascino e mistero di quanto ne possa avere adesso.
Scesi dall'aereo, a novembre inoltrato, e la prima sensazione fu quella di un caldo strano, improvviso ed avvolgente, ma non sgradito, primo elemento di novità qual'era; così via la giacca ed il maglione, a dispetto dell'orario serale e poi fuori, a recuperare i bagagli e a superare la prima fila di tassisti, chiassosi e sorridenti, a gara per acchiapparti e portarti chissà dove.
"Taxi !", "Taxi, sir?". "No, thank you", via di corsa, a raggiungere quelli un po' più in là e più tranquilli, perché poi di un taxi avevo pur bisogno per uscire da lì.
E poco dopo eccomi in auto, sulla prima freeway che porta verso il centro, a guardar fuori da un finestrino un mondo sconosciuto, pieno di luci e di scritte incomprensibili.
La prima impressione di Bangkok é quella - affascinante - dello sbarco in un luogo ignoto, allegro e rumoroso, ma tanto bizzarro ed inconsueto quanto quello degli scenari esterni di Blade Runner.
"Hotel Asia, please" - mi rivolgo così al tassista di turno - e dire l'indirizzo é inutile: quelli di Bangkok non conoscono le strade e non sanno neppure leggere le cartine; oggi mi viene da pensare che non siano neppure in grado di gestire un navigatore; però allora sapevano a memoria l'ubicazione di ogni albergo e forse anche adesso sono rimasti uguali.
Così imparai subito la prima regola per girare da queste parti, dove affittare un auto e guidarla da soli é esercizio difficile quanto pericoloso: quando devi andare in un posto ti conviene chiamare un taxi, guardare il nome dell'albergo più vicino e farti portare lì.
Arrivo davanti al mio hotel e la seconda sensazione che subito mi assale sono gli odori.
Strani, dolciastri, talvolta sgradevoli, ma altre volte incredibilmente affascinanti, al punto da attrarre in qualche modo gli altri sensi, quasi che la vista e l'udito e tutto l'immaginario che li accompagna possano andare dietro all'olfatto, un senso che fino a quel momento avevo associato nella mia mente solo agli animali. Negli anni a venire quegli odori rimarranno impressi, anche più di alcune immagini. Immagini però che, pur sopite negli abissi della memoria, riaffiorano all'improvviso, insieme agli attimi di vita che le hanno accompagnate, quando quegli stessi odori fanno capolino di nuovo, magari passeggiando nella chinatown della mia città.
Non é una novità : ci aveva già pensato Proust a descrivere la magia di momenti così, nel suo "Du coté de chez Swann", ma sperimentare di persona qualcosa che prima consideravi solo una bella intuizione letteraria porta con sé un piacevole stupore.
La sera Bangkok, già così piena di vita di giorno, si trasforma ancor di più.
Molti si accomodano per terra e cenano tranquilli; compaiono ristoranti improvvisati, fatti di un carretto con sopra stoviglie e fornelli in quantità. C'é tanta povertà ma é anche un modo di vivere la strada e di stare assieme. Passeggio tra la gente e continuo a guardarmi intorno: l'insieme mi colpisce, ma l'occhio prefererisce soffermarsi sui particolari e, ogni volta, appagato, sembra quasi non volersi distaccare più da quel qualcosa di nuovo che per l'ennesima volta lo ha attirato. E' un volto,un gesto inconsueto, frasi e toni di voce sconosciuti; oppure oggetti che sulle prime non riesco ad identificare, immagini da scoprire, da interpretare.
Mi sembra abbastanza per questa sera e credo di aver bisogno di un pasto un po' più "normale", così rientro in albergo.
L'ho già visitato nei giorni precedenti e tutto quell'insieme d'oro, pietre preziose, statue raffiguranti personaggi strani in pose danzanti, budda dai tratti sereni ed austeri, ha già colpito la mia mente, abituata a scenari occidentali completamente differenti.
Decido però di dedicare ancora un po' di tempo a questo luogo e vi torno nel tardo pomeriggio, acquistando uno degli ultimi biglietti d'ingresso prima della chiusura serale.
Così mi ritrovo quasi da solo, senza più folle di turisti intruppati intorno a guide locali, circondato solo da qualche fedele assorto in preghiera. E' in questi momenti che la prorompente bellezza del tempio passa d'improvviso in secondo piano, lasciando affiorare suoni che il frastuono della gente prima soffocava. Sono i tintinnii dei campanelli appesi lassù, in cima ad ogni stupa e punta di pagoda. Mi fermo quasi incantato e improvvisamente mi sento meno estraneo, più partecipe di quel mondo che non mi appartiene e percepisco il fascino di una serenità talvolta sconosciuta a noi occidentali. Suggestione, ma anche esigenza di spiritualità: molti negli anni settanta giungevano in India o sino a qui alla ricerca di qualcosa di nuovo. Io però non percepisco il contrasto, riesco in qualche modo a pregare anch'io e non sento soluzione di continuità tra la mia fede e l'animo religioso di questi luoghi e di questo popolo.
Dalla pizza agli involtini primavera, dai menu thailandesi a vere e proprie stranezze, come le bistecche di cobra che però nessuno, evidentemente, si azzarda a comperare.
Ai tavoli c'é gente di ogni tipo, compresi, anche qui, i lavoratori in pausa pranzo.
Il ricordo più curioso però é poco dopo la cassa, dove ognuno prende le posate. Io, dovendo scegliere, non ho dubbi nel prendere la forchetta, ma poi devo capitolare di fronte ad un tedesco che, capelli biondi ed occhi azzurri, mangia davanti a me maneggiando impeccabilmente un paio di bacchette cinesi...
Ultimo ricordo e sono da Asia Book, una delle librerie più grandi della città.
Mi soffermo su uno scaffale con numerose pubblicazioni riguardanti il cosiddetto "cultural shock". Non so di cosa si tratti, ma sembra che molti occidentali lo subiscano quando si trovano a dover stare a lungo da queste parti. Mi tornano in mente le prime immagini della città, su quel taxi filante verso il centro, e mi sembra di capire di cosa si tratti, ma certo é molto di più: un altro modo di pensare, di comunicare, altre radici culturali.
Sfoglio altri libri, mi capita in mano "The stones cry out", di Molyda Szymusiak.
Narra della Cambogia, un paese sfortunato, di cui si parla poco nel mio paese.
Eppure i fatti tragici che lo riguardano non sono poi così lontani.
L'agire di un criminale, Pol Pot, e le conseguenze del suo modello di comunismo rurale, che nella seconda metà dei settanta produssero un genocidio spaventoso, colpendo in toto la popolazione del paese e cancellando completamente tutta la classe dirigente e chiunque avesse un briciolo di cultura. Non so nulla, allora, di quel popolo ed acquisto quel libro, testimonianza drammatica di una sopravvissuta.
Mi capiterà in seguito di trovare anche l'edizione italiana, tradotta da Natalia Ginzburg (1); lo rileggerò e non sarà esercizio inutile : col tempo ho imparato a conoscere meglio la storia, fuori dagli schemi di certa cultura, che giunge a ritenere alcuni fatti tragici più importanti - e quindi sempre degni di maggior rilievo - rispetto ad altri.
Limiti fatti di contraddizioni.
Come la voglia di democrazia unita però a continui colpi di stato dei militari, che intervengono ogni volta che il tranquillo regime di pacifica corruzione comincia a tagliarli troppo fuori.
Desiderio di spiritualità, che cogli nel monaco buddista che incroci per strada al mattino, sempre nutrito dalla popolazione, unito alla disinvoltura con cui il paese continua ad accettare prostituzione e traffico di droga come importanti componenti del bilancio economico.
Ricchezza ostentata negli alberghi, a disposizione di turisti occidentali sempre meno critici, a fianco della presenza di vasti strati della popolazione ancora vegetanti negli slums della periferia e con poche speranze di elevarsi ad un rango di maggiore dignità.
Fondamentalmente un paese povero, ma con una dolcezza tutta particolare, che forse noi tracotanti ed esuberanti occidentali dovremmo imparare a conoscere e ad usare, almeno qualche volta.
E' un po' quella che descrive Khru Prateep, ex senatrice, quando conclude il suo incontro con Zanzucchi e parla della povertà del suo paese : "Penso che si debba ridefinire la categoria di poveri. Non basta più il solo criterio della ricchezza, dei beni posseduti. Nella povertà é la sofferenza che conta, i pericoli che si corrono, la tranquillità, l'infelicità insomma". E alla domanda, ma allora qual é la qualità principale dei thailandesi, risponde: "La pazienza. Senza di essa sarebbe saltato tutto per aria da parecchio tempo".
Note:
(1) Molyda Szymusiak - Il racconto di Peuw bambina cambogiana - ed. Einaudi
(2) Michele Zanzucchi - Chiaroscuri, più chiari che scuri - reportage dalla Thailandia - Città Nuova, n° 3/2007