Aveva trascinato con sé sul palco quella cosa nera sera dopo sera, poi, finalmente, vi si era avvicinato.
Una luce fioca ad illuminarla, le prime note che fuoriuscivano da essa e dopo pochi istanti si era capito. "My God, it's a piano", aveva pure esclamato qualcuno. No quello non era un piano e quella non era la sua prima performance in quel modo, in ventiquattro anni di esibizioni in Inghilterra. Era un'altra cosa, molto di più, un viaggio in un universo surreale, forse. La rivincita di Giuda, l'ennesima maschera di quell'uomo, troppo abituato a tirare dritto per la sua strada, solo contro tutti, fiero nella sua corsa dietro al desiderio del destino di se stesso.
Poche note, un inizio quasi timido, poi le mani sempre più veloci lungo la tastiera; la voce inizialmente incerta, poi più sicura, sempre più fiera. Il pubblico non grida più "Giuda!", questa volta é impazzito, cerca di corrergli dietro felice, ma non ce la fa, non ce la può fare, lui corre più veloce, troppo veloce questa volta.
E' partito seduto, poi si aggiusta lo sgabello, le mani via via sempre più impazzite, poi non ce la fa più e si alza in piedi.
Una chitarra, quella meravigliosa di G.E., a stargli dietro, e lui sempre più pazzo, un po' Charlie Chaplin, un po' Jerry Lee Lewis.
Disease Of Conceit, questa sera, é la più grande canzone rock di tutti i tempi, più grande ancora di Like A Rolling Stone.
Poco prima li aveva già condotti tutti per mano fino al paradiso.
"The crowd went bananas", aveva detto quel tale, che poi si era arreso anche lui alla follia, quando aveva visto il piano. Si era arreso come tutti gli altri, fatti una cosa sola col cantante, lassù sul palco.
I Want You, quella sera, era la canzone del desiderio del cuore corrisposto. Smorfie, sorrisi e poi sempre più allegria, le dita a scorrere matte sulla tastiera della chitarra, le ginocchia piegate come solo a modo suo, le labbra sull'armonica, per terminare una canzone che non riusciva e non doveva mai finire.
Il pubblico finalmente é con sé, questa sera sì, questa sera che era la musica a suonare attraverso lui, l'incantesimo riuscito, l'alchimia compiuta; ci si trova tutti lassù, dentro territori inesplorati, possiamo gettare le maschere e le difese, finalmente. Siamo tutti un cuore e un'anima sola.
Ed ora, un sacco di tempo dopo, eccoti ancora lì, dietro una pianola che ora sembra non attirare più nessuno, sempre in corsa sul treno sbuffante dei tuoi desideri.
Nessuno freme e trepida adesso, come quella sera all'Hammersmith di Londra, in quel freddo inverno del 1990.
Eppure siamo ancora lì, sbuffanti anche noi, arrabbiati e scontrosi perché tu ci hai abituati così, con la tua assurda abitudine a desiderare sempre qualcosa di troppo grande rispetto a ciò che da soli siamo capaci di ottenere.
Difficilmente la première di Jolene, ieri sera nel Wisconsin, sarà stata anche solo minimamente paragonabile alla Disease Of Conceit di quella sera.
Ma noi, in un modo o nell'altro, finiremo per essere sempre lì con te.
Desiderosi di cogliere l'ultimo sbuffo d'assoluto sullo slow train di Bob Dylan.
Ancora per una sera,
questa volta ancora.
Note:
Post liberamente ispirato alla nostalgia,
alla recensione di Clinton Heylen, del concerto di Bob Dylan all'Hammersmith Odeon di Londra, l'8 febbraio di un ormai lontano 1990,
ed al mio inguaribile e neverending love per Bob.
2 comments:
bello.
la prima di forgetful heart è notevole, sempre a milwaukee.
post ispirato, punto!
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