Monday, May 31, 2010

GRAZIE IVAN

"La bicicletta insegna cos'é la fatica, cosa significa salire e scendere - non solo dalle montagne, ma anche dalle fortune e dai dispiaceri - insegna a vivere. Il ciclismo é un lungo viaggio alla ricerca di se stessi" (Ivan Basso)

Scrissi di lui all'indomani dell'ennesima brutta pagina di doping nello sport, colpevole come tutti gli altri, ma forse con un pizzico di coraggio in più.
Dopo quei giorni Ivan Basso ha lavorato duramente, nell'umiltà e nel sudore, attraversando - come scrive la gazzetta dello sport di oggi - momenti "in cui pedali per ore solo come un cane nella tua notte infinita e dubiti che esista un'altra alba".
Quell'alba é arrivata ieri, nella splendida cornice dell'arena di Verona e allora lasciatemi gioire per un po' insieme a tutti quelli che questo ciclismo non hanno mai smesso di amarlo, anche mentre attraversava le pagine più buie della sua storia.
Ho visto le lacrime di Mourinho mentre stringe Materazzi e, pur da vecchio cuore rossonero, mi sono emozionato un po' anch'io. Ma l'abbraccio di Ivan Basso alle figlie, mentre compie l'ultimo metro in bici sulla passerella di Verona, con buona pace degli amici interisti, é la più bella immagine di sport che abbia visto da un sacco di tempo a questa parte.
E in un'epoca di giustizialismo e nuovi dei mediatici, sempre pronti ad indicare i peccati senza parlare mai di vie d'uscita, pronti a giudicare il prossimo senza guardare mai alle travi presenti negli occhi propri, é bello vedere immagini di redenzione come questa.
Grazie Ivan, ora ti aspettiamo sulle strade di Francia, a sfidare Contador.
Che bello che sarebbe vederti sfilare in giallo lungo i campi Elisi.

Saturday, May 29, 2010

RELEASED


Che voglia di scappare da tutto, che ti aveva assalito all'improvviso.
Fuggire da pazienti ed elettrocardiogrammi, via lontano, da tutto il male, quello intorno, con la sua richiesta incessante che ci fosse qualcuno che se ne prendesse cura e quello dentro sé, sempre troppo difficile da sostenere.
Ti era venuta voglia di scappare via, in caduta libera e correre libero, dentro un prato pieno di fiori, sbocciati su piante nate da semi marciti tra le lacrime e cresciute dentro una terra ricoperta solo da brina e notti senza stelle. Correre fino a non sentire più le gambe dal dolore e poi arrivare giù, giù, fino al mare, per sedersi un po', affaticato e oppresso, finché non fosse tramontato il sole, finché la tristezza non se ne fosse andata via tutta per davvero, imbarcata per sempre per lidi lontani, sulla prima barca giunta all'alba del nuovo giorno.

Eppure ti ricordavi che era già successo. Ricordavi che ce l'avevi fatta.
Tirar su quelle povere ossa al mattino e non sentirti già così stanco da far sembrare impossibile il tirar sera.
Le disunità e le lacerazioni dell'anima possono anche far questo: distruggere il corpo come se avesse lavorato tutto il giorno in un cantiere. La fatica e l'ira, gli scatti d'impazienza, la risposta infedele al Volto buono che ti viene incontro dentro l'imprevisto dell'attimo presente, tutto ti aveva disteso a terra, stordito, reso confuso e dolorante. Ma gli incidenti di percorso, le asperità del cammino, tutto ciò, lo sapevi, non poteva definirti appieno. Anche se ti aveva ridotto così, sanguinante, mentre continuavi a ripeterti "non é nulla, it's life and life only", la vita soltanto, in fondo.
Ma il giorno prima, sulle scogliere aguzze del tuo io, avevi provato a ricostruire tutto quanto. Anzi, non avevi fatto nulla, in fondo, ti eri messo solo da parte, lasciando che un Altro rimettesse su casa dalle macerie frutto dell'agire del tuo io sulle circostanze.
Era stato così, ti eri messo sotto, di buzzo buono, a ricostruire ogni rapporto, libero finalmente dall'orgoglio della stima di te stesso; libero cioé vuoto e quindi pronto a lasciarti riempire da qualcosa o da qualcuno: volti e braccia, sguardi e pensieri, idee e desiderio d'ascolto di chi ti si parava innanzi di volta in volta.
Era pure arrivato l'sms di quell'amica, piombato addosso come un macigno quasi inopportuno, ma liberatorio, invece, proprio davanti a quel paziente, in quell'ambulatorio, nel momento della fatica e del cedimento: "il mio prossimo paziente, una fatica immensa.. mi viene in mente padre Aldo: mi inginocchio davanti ai miei malati perché sono Cristo. Veni Sancte Spiritus. E' tutto quello che posso offrire nella mia poca umanità! Che grazia oggi averlo sperimentato!".

Per quello al mattino di quel giorno ce l'avevi fatta.
Per quello ti eri alzato finalmente riposato.
Caduta l'ideologia di te stesso - quella falsa stima basata sui successi, ma così rapida a crollare sempre, inesorabile, davanti ai fallimenti - era rimasta in piedi solo la persona dentro la sua libertà.
Già, la libertà, che bella che era, ora che cominciavi a provarne il gusto. Libertà dal giudizio su di te e sugli altri, libertà nel saperti mettere finalmente nelle mani di un Altro più grande di tutto il tuo agire. Era stato necessario che diventassi nudo, invisibile, una pietra rotolante, dura roccia divenuta finalmente fango, capace di farsi spalmare, di diventare quella scultura che l'Artista aveva in mente sin da principio, sin da quando contemplava assorto la massa informe di marmo grezzo, pronto ad essere colpito dallo scalpello.

Allora, alla fine della corsa, adesso potevi anche tornare.
Non eri un angelo caduto, in fondo, perché quella caduta libera ti aveva reso libero per davvero. Potevi ricominciare un'altra volta, in quella vita insostenibilmente rock'n'roll. E riprendere su di te il nuovo dolore e la nuova tristezza del giorno che sarebbe venuto. Ma pronto e preparato, questa volta, perché reso capace da Qualcuno di prendertene finalmente cura, l'alba di un nuovo giorno in cui Quel dolore l'avevi riconosciuto uguale al tuo.
Ti era tornata voglia di rischiare, di smettere di difenderti, perché era vero, come si era sentito rispondere Enzo quella volta, che ti stavi comportando come se tutto dipendesse dalle tue mani e che stavi andando avanti cercando quello che meno ti feriva, che ti mettesse a posto senza rischiare (1).
No, non poteva durare all'infinito, l'alba del giorno nuovo adesso era arrivata, quella che un Altro aveva già preso su di sé.
Lui, l'Abbandonato, l'Uomo dei dolori, Colui che aveva già sciolto in sé anche tutti i nostri, una volta per sempre, alle ore tre di un giorno di tanti anni fa.



Note:
(1) Enzo é Enzo Piccinini e la questione del difendersi, del rischiare e della libertà la raccontò magistralmente un giorno : "(...) ero lì in corridoio, Giussani si avvicina e dice: «Come va?». Io dico: «Non c’è male». Lui si ferma: «Come, non c’è male? Cosa c’è?». Dico: «No, stupidaggini. Dopo quello che abbiamo detto prima lì all’incontro, queste sono stupidaggini. Dai, andiamo, non importa». Lui si è fermato di colpo, era stanchissimo, si è fermato di colpo (in corridoio - eh! - passava la gente): «Ma scusami, Enzo, con tutte le stupidaggini che ci diciamo, quando c’è una cosa che conta davvero non ne parliamo?». Io rimango inchiodato e dico: «Scusami, guarda, non volevo, ma m’è successo questo e mi do un po’ di colpe, insomma, non riesco più a dormire. Cioè, dormo un’ora, poi mi viene in mente questa cosa. E anche mia moglie è preoccupata, perché dopo un’ora che dormo mi alzo su, e va un po’ avanti così». Lui mi guarda e mi dà una risposta che era la più impensata in assoluto, non potevo neanche immaginarla. Mi guarda e mi fa: «Ma Enzo, proprio tu», ma con una faccia delusa: «Proprio tu ti comporti come se Cristo non ci fosse?! È come se tutto dipendesse dalle tue mani: ma come credi di poter andare avanti così? Non farai mai più niente di quello che fai, farai come tutti: cercare quello che meno ti ferisce, che ti mette a posto. Non rischierai più». Poi fa: «Comunque, in ogni caso, io ne voglio riparlare. Puoi venire appena puoi?». Figurati! Due giorni dopo ero su. Così, ci vediamo a pranzo e dice: «Allora, racconta di nuovo». Allora ho accennato, però gli ho detto: «Senti, Giussani, guarda io non voglio rubarti del tempo, perché poi adesso ho capito. Guarda, da me c’è una cappellina e adesso io prima di andare in sala operatoria vado lì e dico una preghiera e le cose si rimettono insieme. Sono più tranquillo». Lui scatta: «Enzo, ma che pregare e pregare! Il problema non è pregare, è che tu non sai offrire. Il tuo problema è che non sai offrire, e offrire significa che la realtà non è una cosa che hai in mano tu, non è tua, e che tutto quel che si fa è come se avesse dentro la domanda che il Signore, padrone di questa realtà, si riveli, perché è così che si vive, e tu, guarda - te l’ho detto, ma te lo ridico un’altra volta - smetterai di fare quel che fai e avrai paura di rischiare»

Sunday, May 23, 2010

L'APPARIR DEL VERO


"(...) Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano."
(A Silvia, Giacomo Leopardi)

Di fronte all'apparir del vero, l'esistenza può sbandare paurosamente, perché la realtà spesso non é carezza, ma urto violento, scossone, buco nero capace di mandare fuori strada.
E' allora che l'auto perde di vista il traguardo, sbaglia una curva, s'inerpica lungo salite impossibili per poi correre senza controllo lungo discese che sembrano non finire mai. Così il senso del viaggio s'identifica con le difficoltà del percorso e con le sue emozioni, sale sino alle stelle, a volte, ma poi sprofonda dentro lo scoramento dei momenti più bui.
Come una pietra rotolante, essa si dimentica che il viaggio, per quanto terribile o affascinate che sia, al fondo rimane un mezzo e non un fine.

Ma quando uno sguardo largo e misericordioso riesce alla fine a raccattare quell'auto dentro la sua avventura, allora le fa capire che non é mai stata sola. Ed é in quel preciso istante, solo in quello, che lungo quella superstrada misteriosa si accorge d'essere in compagnia in mezzo a tanti altri viaggiatori.
L'apparir del vero, in quel momento, si copre di una carezza, quella del Nazareno.
E quella carezza, come d'incanto, rimette l'auto in carreggiata, le fa risalire la strada, rivedere il punto d'arrivo, un orizzonte che porta verso casa.
Oggi quella carezza passa attraverso i gesti e le parole di un'amica. Grazie Manu.
"l'unità é la trasparenza della Sua presenza tra noi. Lui rassicura e dona nuovo vigore ai nostri cuori, a tratti stanchi ma trepidanti nell'attesa. L'amicizia che in Lui ci dona é sostegno, provocazione, offerta"


Friday, May 14, 2010

SINGIN' IN THE RAIN


C'é una languida voce e una liquida chitarra ad accompagnare le assonnate emozioni del mattino. Niente di meglio di Jason Molina, mentre la pioggia sembra non voler cessare mai, con "Oh, Grace" a fare da splendida ouverture di un album - Josephine - sempre rimasto nelle pieghe più nascoste degli abiti che mi porto addosso. L'auto percorre la sua strada, cercando la sua via attraverso linee di forzata resistenza e contro un diluvio di pensieri troppo spesso cupi. Eppure questa volta sembra essere una mattina un po' diversa.
Solo pochi istanti prima qualcosa di nuovo era accaduto. Tutti quei ragazzi del liceo nell'aula, insieme ad alcuni delle medie, compagni di scuola dei miei figli e pure qualche bambino della scuola elementare; sguardi sereni, pieni di vita, così belli da vedere. Poi, in mezzo a loro, avevo scorto a poco a poco anche quelli degli adulti, il preside vicino al genitore, il professore seduto di fianco all'impiegata dell'amministrazione.
E una cattedra, laggiù in fondo, cattedra che ogni mercoledì diventa altare. E, dietro a quell'altare, il don Carlo, l'amico che ogni settimana celebra la Messa, prima che tutti si corra in classe, al lavoro oppure a casa, viaggiando come pazzi dietro a mille cose, così che ogni giorno abbia inesorabilmente i suoi affanni e la sua pena. Era stato allora che una sottile gioia mi aveva avvolto e, mentre la mente si era fatta faticosamente anche preghiera, avevo scorto anche quella foto, proprio dietro alla cattedra - a quell'altare! - con quella bella fotografia del cielo a fare da sfondo a tutti i miei pensieri. Non un crocifisso e neppure un icona di Maria, ma la frase di uno scrittore russo, Vasilij Grossman, già capace di pagare un tempo duramente la propria passione per la vita vera: "l'anima di ogni singola vita, nella sua irripetibilità, nella sua unicità, é la libertà".

Fuori da lì, la faccenda della grazia mi aveva allora interpellato, continuando a farlo anche dopo, senza tregua, mentre la pioggia scorreva incessantemente lungo la mia strada. E chiederla, senza remore né timore alcuno, era diventato il moto più vero del mio cuore, l'agire sincero della mia libertà. Solo così facendo era accaduto che, come l'azzurro spuntato finalmente in fondo al cielo, vedessi quella stessa grazia farsi strada a poco a poco, lungo il percorso di tutta la giornata; grazia pronta a sostenere ogni gesto ed ogni mia intenzione, sia dentro il successo che dentro il fallimento, vera e propria risposta all'agire di quella libertà.
Quante volte la mente e il cuore mi erano apparsi confusi, in affanno, assorti dentro una sorta di sottile compiacimento delle mie stesse emozioni, quasi affogati in giorni di diluvio, in cui sembrava impossibile che l'anima si facesse capace di riscoprire la bellezza! Ma l'irrompere della grazia in risposta all'agire della mia libertà diventava ora il riapparir del vero proprio nel momento in cui meno me lo sarei aspettato.

Dicono che continui a piovere, lo leggo e lo sento dire dappertutto, pure nei blog dei miei amici, quindi deve essere proprio vero.
Ma io, stamattina, sono sicuro d'aver visto spuntare là in fondo il sole.
E' per questo che mi son messo pure a cantare.
Grace finds beauty in everything, after all.


Thursday, May 06, 2010

FRIENDS


Andai a cercarlo un freddo mattino d'inverno. Nuvole grigie e pioggia, alba senza sole dopo una notte buia e senza stelle, passata lungo le torri di un'infinita guardia d'ospedale. In tasca un indirizzo sicuro, ma, arrivato lì, non lo trovai: lui, al cimitero di Bruzzano non c'era più. Trasferito altrove, mi disse poi un amico, sul lago, forse in una cappella di famiglia, certamente in un posto molto più bello di quello.
Mi spiacque, e molto, perché Antonio era entrato dritto negli anfratti più profondi del mio cuore ed ora io avevo bisogno in qualche modo d'incontrarlo. Ma fu il dispiacere di un istante, una tristezza subito fugata via dalla certezza che potevo continuare a vederlo con gli occhi dell'anima e del cuore. E questo mi bastava.
Antonio Rodari era un medico, padre di tre figli, l'ultimo dei quali affetto da sindrome di Down; lavorava all'Istituto dei Tumori di Milano e per parecchi anni aveva svolto parallelamente anche la professione di medico di famiglia. Si era ammalato di un tumore al rene, un giorno d'estate del 1979. L'intervento chirurgico, la convalescenza e poi il ritorno a casa, la ripresa del lavoro, la vita in famiglia e con gli amici, più bella e più intensa di prima. Chiede, con insistenza, solo una grazia: quella di poter vivere altri dieci anni, il tempo d'accompagnare il figlio più grande sino ai vent'anni. E il Signore gliela concede, prendendolo con sé un altro giorno d'estate, nel 1990: "In fondo una guarigione del corpo, che comunque il Signore potrebbe accordare a me come a chiunque, sarebbe pur sempre una guarigione provvisoria - aveva detto un giorno - invece il ritornare e l'essere accolti nella sua casa é un abbraccio definitivo, per l'eternità, per la vita".
Comincia a scrivere il suo diario nel periodo dell'intervento, poi prosegue ad annotare tutta la sua vita, sin quasi alla fine. Scrive del lavoro, della famiglia, della comunità di amici che sempre lo sostiene ed é giudizio sulla sua esistenza. Parla della malattia che lui non chiamò mai "disgrazia": preferendo lasciare solo quel "grazia" finale e vivere la questione così. Il diario diventa, dopo la sua morte, un libro: "La camomilla ha sconfitto il male". Già, perché un giorno, il significato più profondo della vita e del dolore, lui l'aveva compreso fissando lo sguardo dentro un campo di fiori: "sembrerà incredibile, ma ciò che in questo momento mi costringe a conservare la speranza, mi lega quasi inesorabilmente ad una fede che le circostanze di per sé non giustificherebbero minimamente é un banalissimo giardino pieno di camomilla, di camomilla intesa come pianticella recante all'apice una miriade di piccoli fiori dalla corolla giallo-oro, circondata da una linea di piccoli petali bianchi. E' la memoria di quest'incontro che ho fatto da bambino, che ha generato in me una gioia indimenticabile, che giustifica ora la mia speranza in Cristo".

* * * * *

Quella stretta di mano, forte, te la ricordavi ancora.
Eppure lo scontro era stato duro, senza esclusione di colpi. Posizioni inconciliabili, apparentemente senza possibilità di una via d'uscita condivisa. Ma alla fine c'erano state quelle parole strane, quegli sguardi così nuovi e tu capivi che non potevi censurare la realtà, deformarla a tuo piacimento per compiacerti dentro le tue ragioni. Non quella volta, almeno.
Dentro quel litigio - furibondo - lui ti aveva ringraziato per avergli parlato, per essere tornato indietro da lui. Ed alla fine aveva pure stretto la tua mano, in un gesto che ti aveva sorpreso e colpito letteralmente in contropiede. Aveva persino avuto parole di stima per la tua fede e per la tua famiglia, eppure tu non gliene avevi mai parlato sino ad allora.
Era così che ti era tornato in mente Domenico, quell'amico così caro. La sua lezione, tu non l'avevi mai dimenticata. T'aveva aiutato a diventare uomo, e tu, grazie a lui, grazie al suo cammino in compagnia col tuo, avevi afferrato la presenza di una Misericordia più grande, che sempre ti guardava anche quando tu non la vedevi, pronta a liberarti dall'esito delle vicende della vita. Avevi compreso - finalmente - che relazione non é attendere la soddisfazione di ciò che é andato bene, ma credere al senso dell'altro che ti sta davanti, anche dentro il contrasto e l'incomprensione.
Domenico Mangano, alla fine, s'era ammalato di tumore. Ed anche lui, come Antonio, non smetteva mai di ringraziare. Anche quel giorno, in cui aveva appreso la notizia che, nonostante undici cicli di chemioterapia, la metastasi al polmone s'era ingrandita; lì per lì aveva fatto fatica ad accettare quell'urto violento, che aveva fatto di nuovo irruzione dentro la sua vita, ma poi era accaduto qualcosa: "(...) Il giorno dopo, di buon mattino, durante la mia quotidiana, lunga passeggiata, ho chiesto a Gesù e a Maria perché non vivessi la stessa gioia dell’anno scorso, all’apparire del tumore, dopo l’operazione, nei cicli di chemio… E ho sentito forte una voce che mi diceva: “Non fermarti al particolare, a questo pezzo di vita che stai vivendo; guarda l’insieme, il traguardo: la santità, il Paradiso. E’ necessaria una sterzata per non sbagliare strada! E una gioia immensa ha invaso il mio animo, una gioia ancora più grande della precedente."
Poi, quel giorno, poco tempo prima di morire, aveva parlato davanti a tutta quella gente, s'era messo a raccontare a tutti dove stava il segreto di quel gusto per la vita, come rivestirsi di un abito di speranza che non si sporca mai . E tu, quelle parole, non le avresti lasciate mai più, te le saresti portate addosso per sempre: "la nostra vocazione, cioé il nostro essere figli di Chiara (Chiara Lubich, nda), comporta che noi costruiamo rapporti d'amore, che significa amare colui che mi sta di fronte nell'attimo presente. Questo amore, questo uscire da me stesso, questo farmi uno, questo amare per primo, questo amare senza giudicare, questo amore, comporta una risposta che può essere un rifiuto o un'accettazione. Se é un rifiuto, é la nascita di Gesù Abbandonato, e l'abbraccio di Gesù abbandonato é sempre un Gesù riconosciuto e perché riconosciuto, quel Gesù emana il suo spirito, cioé emana lo Spirito Santo, che raggiunge anche quella persona che rifiuta il nostro amore e lo raggiunge in un modo misterioso che noi non sappiamo, ma lo raggiunge, come raggiunge noi. Se c'é invece un gesto d'accettazione, indipendentemente dal fatto che lui sia o no cristiano, che lui sia o non un credente, indipendentemente da questo fatto, per il semplice fatto che c'è un sorriso o c'è una manifestazione di reciprocità, nasce Gesù perché anche lui ha abbracciato Gesù abbandonato. Cioé in un certo senso anche lui é uscito da se stesso ed é una cellula, é un seme. Se noi questo rapporto lo portiamo avanti, vediamo che genera delle cose meravigliose".

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E poi, alla fine, era arrivato pure Enzo, che una volta per tutte ti aveva spiegato cosa significasse voler bene. Aveva preso l'esempio più calzante, una di quelle cose vissute anche da te, non una ma dieci, cento volte. Tornare a casa tardi, alla sera, il fisico e la mente quasi consumati dall'intensità di una giornata vissuta con pienezza sino in fondo. E, laggiù nelle loro stanze, rischiarati dalla luce soffusa di una lampadina accesa da lontano, quei "gomitoli" nel letto, i tuoi figli addormentati e tu a prenderteli su, ad accarezzarli e baciarli, a dire a te stesso più che a loro, ma sì, mi sembra proprio di volergli bene. "Non é mica così che si vuol bene!" gli aveva risposto invece di getto Don Giussani. E poi aveva aggiunto: Guarda, il modo vero di voler bene è che proprio quando questa tenerezza è intensa, vera e rascinante, umanamente trascinante, dovresti fare un passo indietro, guardarli e dire: “Che ne sarà di loro?”, perché voler bene è capire che hanno un destino, che non sono tuoi, sono tuoi e non sono tuoi, che hanno un destino e che è proprio guardando la drammaticità che il destino impone nel rapporto e nelle cose, nel futuro e nel presente, che tu li rispetterai, gli vorrai bene, sarai disposto a fare tutto per loro, non ti farai ricattare se ti obbediranno o no».
Anche Enzo Piccinini era diventato uno di quegli amici di cui non avresti più potuto fare a meno. Ma anche Enzo, il Signore se l'era portato via con sé. Ma che razza di amministratore é - aveva esclamato quell'amica - il propreitario di un'azienda che lascia andare via i suoi uomini migliori? Un mistero difficile da spiegare, eppure Enzo é ancora lì, insieme a Domenico e ad Antonio, a prendere per mano ogni istante della mia vita insieme a quella di tanti altri amici.

* * * * *

Le vite di questi uomini sono diventate un libro, uno per ciascuno e c'é dentro tutto questo e anche di più. Così, se avete un po' di tempo, voi amici miei, voi viandanti che passate da questo blog, spegnete la musica, le voci, le luci della città e mettetevi a leggere per un po'. Procuratevi questi libri ed entrate dentro la storia di Antonio, di Domenico e di Enzo. E quando, voltata l'ultima pagina, vi ritroverete un'altra volta dentro la vostra strada, piena di quelle luci, di quella musica e di quelle voci, scoprirete che il Bello e il Vero che vi pareva d'aver perso erano sempre stati lì.
E che la vita, come diceva Enzo,"è un’ipotesi positiva" e che il tempo "che per tutti è sinonimo di decadenza, lavora in positivo". "Se guardo la mia vita - diceva Enzo - che razza di roba è successa! Dico sempre: se è successo così fino adesso, immaginiamoci cosa succederà nel futuro! Ne vedremo delle belle. È interessante, no? È un’avventura".
Proprio così, un'avventura, da vivere sino in fondo, ma soprattutto da non vivere da soli, perché non siamo stati fatti per camminare da soli.
E con gratitudine, come diceva ancora lui, che alla fine aggiungeva riguardo alla vita: "perciò non ho paura di darla tutta".

Antonio Rodari - La camomilla ha sconfitto il male - BUR
Paolo Crepaz - Frammenti di reciprocità. La vita di Domenico mangano - Città Nuova
Emilio Bonicelli - Enzo. Un'avventura di amicizia - Marietti 1820