Wednesday, May 09, 2007

IL CORAGGIO DI IVAN


Esistono tante chiavi di lettura di fronte a notizie quali la recente ammissione da parte del ciclista Ivan Basso di essere ricorso al doping per aumentare il livello della propria competitività sportiva.
Lo scalpore, suscitato dal fatto che si tratta del primo campione di rilievo che giunge in questo sport ad un tale livello di ammissione di responsabilità, potrebbe in fondo essere mitigato dal fatto che la notizia non sia poi in sé così stupefacente.
L’esistenza di una pratica consolidata di doping nel ciclismo professionistico, pur mai suffragata da prove sostanziali, é in realtà una sorta di segreto di pulcinella: chi frequenta questi ambienti é perfettamente a conoscenza che l’eritropoietina, ad esempio, già una ventina d’anni fa veniva distribuita tranquillamente nel circuito dei cicloamatori anche oltre i sessant’anni di età. E poi le prove a favore della colpevolezza di Basso cominciavano ad essere un po’ troppo evidenti, al punto da far ritenere quindi la sua confessione non inevitabile, ma per lo meno prevedibile.
Eppure la vicenda stupisce lo stesso e viene da pensare che comunque il campione abbia avuto una discreta dose di coraggio e di lealtà verso se stesso.
E’ l’interpretazione, ad esempio, di Candido Cannavò, che, dalle pagine della Gazzetta dello Sport, sottolinea che “non c’é atto di coraggio nella vita che non meriti non dico un premio, ma un aiuto, un riconoscimento, un gesto di solidarietà, una mano tesa. E noi, al di là dell’inevitabile pena da scontare, abbiamo una grande voglia di tendere una mano a Ivan per questo giorno tristemente storico dal quale potrebbe rinascere un ciclismo più piccolo, meno enfatico, ma vero”. (1)

Certo che l’amaro in bocca rimane comunque, al di là di ogni tentativo di difesa o di sublimazione del fatto in sé – un illecito sportivo e morale – che rimane comunque un fatto di cronaca negativo. Ma é anche vero che il senso di disagio che emerge in circostanze del genere ha pure a che fare con la mancanza di una cultura della sconfitta.
In un suo articolo intitolato appunto “Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria” (2), Paolo Crepaz mette in rilievo una possibilità di uno sguardo differente: “Se é vero che dal profondo dell’uomo, individuo razionale, simile dei suoi simili in umanità, fiorisce la socialità, come essenza ed esigenza, come prassi del vivere insieme ad altri esseri umani in una rete di rapporti reciproci, é altrettanto vero che tale relazione si fonda sulla differenziazione, sulla distinzione, arrivando fino alla reciproca contrapposizione, nel senso più positivo del termine, elementi che sottolineano, preservano e tutelano l’identità di ciascuno. La competizione é quindi quella forza dell’interrelazione in cui si mette in luce la distinzione. Accettato che sia quindi privo di significato eliminare, e non solo dallo sport, la dimensione della competizione, é ragionevole ipotizzare che il male maggiore, il grande nemico dello sport, sia oggi l’esasperazione di questa dimensione competitiva. Il peso di cui si é caricata la vittoria, e quindi la sconfitta, in termini d’immagine e di denaro, é diventato sempre maggiore e da più parti si riconosce che questo rischia non solo di snaturare la bellezza dello sport, ma la sua stessa fisionomia. (...)
Nella relazione, l’unità con gli altri e la distinzione di sé risultano polarità spesso inconciliabili (...) ma (...) nella relazione realizzata in pienezza si impone vi sia sempre l’unità nella distinzione e la distinzione nell’unità, una dimensione resa possibile, sul piano interpersonale, solo dall’amore reciproco. Ma cosa può significare leggere nell’ottica dell’unità e dell’amore reciproco la competizione e in particolare la sconfitta ? (...) Se prima di tutto chi mi sta accanto, l’altro da me, é dono per me e io per lui, la sconfitta e la vittoria assumono un sapore particolare
”.


Allora anche una vicenda come quella di Basso può far bene allo sport, soprattutto se guardata non da un punto di vista genericamente giustizialista, ma attraverso una diversa prospettiva, quella della ricerca di una cultura nuova, che tenga conto del limite non come ostacolo ma come pedana di lancio.
C'é tanta strada da fare ancora, senza dubbio, anche per lo stesso Basso che nella prima conferenza stampa ha già smorzato un po' la portata del suo gesto, ma la speranza di segni nuovi rimane intatta.

E allora tanti auguri Ivan, per un’avventura diversa, sulla strada di una nuova forza, magari quella che, direbbe San Paolo, si manifesta pienamente nella debolezza (3).
E arrivederci, sulle strade di sempre, dove ti abbiamo conosciuto campione, e dove siamo certi di poterti ritrovare un giorno, in un futuro speriamo non troppo lontano.

Note:

(1) C. Cannavò – “Quella voglia di tendergli la mano” – Gazzetta dello Sport, 8 maggio 2007
(2) Paolo Crepaz – Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria – Nuova Umanità, XXV (2003/6) 150, pp. 717-728
(3) seconda lettera ai Corinti:12,9

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