Tuesday, October 26, 2010

LONG AGO, FAR AWAY


Se una sola canzone come Like A Rolling Stone, ha avuto la capacità di generare un libro intero, sebbene scritto dal grande Greil Marcus, su un'uscita discografica come le rimasterizzazioni mono dei primi otto dischi di Bob Dylan, si potrebbe scrivere un'enciclopedia intera.
Dal 1961, anno in cui fu registrato il primo lp "Bob Dylan", alla fine di dicembre del 1967, momento d'uscita di "John Wesley Harding", c'é un intervallo di tempo che equivale ad un intero percorso generazionale. All'inizio c'é un ragazzo che, al sabato pomeriggio, si ritrova a casa Gleason, per sedersi sul divano, chitarra e armonica con sé, fianco a fianco di un Woody Guthrie stanco ed ammalato, ma capace di riconoscere la vera novità che avanza. Lo aspettava sempre, il vecchio Woody: "viene oggi, il ragazzo?", la mente dritta e sicura, l'unica cosa non tremante di quel corpo, ferocemente attanagliato dalla corea di Huntington. Un ragazzino affascinato dalla vita alla quale si stava affacciando, dall'America dei sessanta e dalle scintille della scena musicale folk di allora. Un giovane a tratti insicuro - "accadeva che improvvisamente, un istante prima di cominciare, dicesse:'non ne ho voglia, andiamo a casa'. E io: 'Bob devi andare avanti" (Mikki Isaacson) - ma allo stesso tempo entusiasta e deciso come pochi altri: "dava l'impressione di essere uno che conosce tutte le regole e le trasgredisce regolarmente.. si mascherava da quello che non sa nulla ma si capiva che sapeva quello che faceva e che ignorava le regole deliberatamente: e la cosa funzionava" (Dave Van Ronk). (1)

Ma Dylan, che doveva andare avanti, lo sapeva bene. E in questi dischi ci sono tutti i paesaggi della sua avventura. Il fascino di quella voce narrante, che percorre le emozioni della propria particolarissima esistenza e fa da colonna sonora degli scenari più importanti. La Civil Rights March di Washington é ancora una chitarra acustica che suona, così come lo é il timore di una nuova e devastante guerra atomica, una tragica e definitiva hard rain che i signori della guerra rischiano di far scoppiare nei difficili giorni della crisi missilistica di Cuba del '63. Ma il ragazzo che cresce e si fa uomo é una musica e un'anima che si fanno sempre più complesse e articolate. Il suono diventa di mercurio ed é la vita che si stratifica lungo avvenimenti intensi. Da Bringin' It All Back Home fino a Blonde on Blonde c'é spazio per il matrimonio con Sara, forse l'unico vero grande amore di Bob, per i figli, per una vita on the road sempre più sfida con se stesso e con un pubblico che non capisce quante le sue ruote corrano sempre troppo veloci. L'anticlimax del festival di Newport del '65, la sfida a duello col pubblico inglese dei concerti del '66, sono l'epifenomeno di un'unicità artistica che non può fare a meno di lasciare un segno indelebile nella storia della musica che amiamo. E' per questo che una canzone come Like A Rolling Stone può produrre un libro intero. "Suonate fottutamente forte!", aveva gridato ai suoi musicisti quella sera, alla Free Trade Hall di Manchester, perché no, accidenti, lui non era Giuda, come aveva urlato quel ragazzo giù nel pubblico. Lui stava andando semplicemente dritto per la propria strada, l'aveva sempre fatto tutto il tempo ed il problema degli altri era il non comprenderne la sincerità e la passione. Scrive Greil Marcus, di quel momento leggendario: "Dylan si accolla la canzone come se non avesse mai sentito un fardello simile in tutta la sua vita. Non la canzone, ma tutto quello che era venuto prima e lo scontro che rimane. E' una stanchezza che va oltre il corpo, é uno stato dell'essere; si muta in rimpianto. Poi ogni emozione é possibile. La quarta strofa e l'ultimo ritornello portano via il tetto dell'edificio, spazzano via tutti i limiti della canzone, con quello che a prima vista sembra rabbia che si trasforma dentro ogni parola in un abbraccio, poi avversione, poi sgomento: lo stesso cantante é impaziente di vedere quello che seguirà. Robbie Robertson accompagna la canzone che va avanti per quasi un altro minuto, quasi rifiutandosi di lasciar andar via la gente. Quando finisce, l'applauso sommerge qualsiasi altro rumore". (2)

Tra il penultimo e l'ultimo disco di questo cofanetto, rispettivamente Blonde On Blonde e John Wesley Harding, c'é ancora una volta un universo intero. Dall'orlo dell'abisso, il rischio grosso di finire prematuramente un'esistenza che correva ormai decisamente fuori giri, alla vita familiare di Woodstock, forse l'unico periodo sereno della vita di Bob. L'incidente motociclistico del 29 luglio 1966 é uno spartiacque, uno stop certamente non cercato, ma forse esistenzialmente atteso, una modalità per ripartire, provando a riconsiderare tutto da un punto di vista diverso. "Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean, sono tutti morti", aveva scritto una volta e Dylan non poteva e non voleva essere un faro generazionale, sorta di nuovo messia per qualsivoglia turbamento o desiderio di cambiamento di tutti coloro che si sentivano identificati in lui, col rischio di mettere poi a repentaglio la sua stessa vita lungo un'insostenibile accelerazione. Il suo percorso artistico e musicale era certamente espressione tra le più sensibili della sua epoca, ma comunque sempre e soltanto descrizione della ricerca di significato per la sua stessa vita. "Io scrivo canzoni, una poesia é un uomo nudo.. qualcuno dice che io sono un poeta", aveva detto ancora, e allora che senso ha cercare di rendere ancor più nudo un uomo che si é già reso pietra rotolante, che, come la donna della sua canzone, é invisibile, adesso, e non ha più niente da nascondere? E' più logico, invece, che sia il prodotto di quell'arte - le canzoni - ad avere dignità per camminare da sé, perché ognuno possa farlo proprio, lasciando che l'autore continui a percorrere la sua strada. Se, dunque, "una canzone é qualcosa che può camminare da sola", che ciascuno percorra il proprio viaggio, anche grazie ad essa. Magari insieme, però, perché la condivisione non é esclusa da questa modalità e proposta di cammino. E, d'altra parte, se il Never Ending Tour é ancora in corso e il vecchio Bob é ancora lì sul palco a riproporsi senza tregua, significa che, a dispetto di un'impressione fredda e distaccata, c'é un bisogno reale di andare avanti insieme: "Dicono 'Dylan non parla mai'. Che accidenti c'é da dire ? Non é quella la ragione per cui un artista sta di fronte alla gente. Un artista ha uno scopo differente. Io non voglio essere insensibile e dire che non me ne importa niente. Ti importa, ti importa molto altrimenti non saresti lì. Ma c'é un diverso tipo di connessione. Non é una cosa leggera. E' vivere ogni sera, o sentirsi vivi ogni sera. Rischi la tua vita suonando musica, se lo fai nella maniera giusta" (3).



Che si provi, allora, a ripercorre un lungo pezzo della strada di Dylan, attraverso l'ascolto sincero e appassionato degli otto affascinanti dischi di questo cofanetto. Sono canzoni scritte tanto tempo fa - long ago, far away - ma sembravano così vecchie allora, sono molto più giovani, adesso. E magari accadrà anche a noi, come al protagonista di Masked & Anonymous, di scoprire dove stanno di casa quella verità e quella bellezza di cui abbiamo sempre bisogno: "sono sempre stato un cantante e probabilmente niente di più. A volte non é abbastanza conoscere il significato delle cose, a volte abbiamo bisogno di non saperne il significato. Le cose stanno cadendo a pezzi, specialmente il buon ordine di regole e leggi. Il modo in cui guardiamo al mondo é il modo in cui siamo fati. Se lo guardi da un giardino fiorito tutto sembra perfetto. Sali su una vetta più alta e vedrai saccheggi e omicidi. La verità e la bellezza sono negli occhi dell'Onnipotente: ho smesso di preoccuparmi di capire cosa succede molto tempo fa".




Note:
(1) da: Anthony Scaduto, Bob Dylan, la biografia, Arcana ed.
(2) da: Greil Marcus, Like A Rolling Stone, Donzelli ed.

(3) intevista di Jonathan Lethem per Rolling Stone, settembre 2006,



Sunday, October 24, 2010

REALTA'

"Papi, qual é la cosa più bella del tuo lavoro?". Ancora una volta mia figlia mi spiazza. E no, che non si fa così, che diamine. Non si fanno queste domande a tavola alla sera, coi miei due figli più piccoli che, invece di mangiare, fanno il solito casino. Ed io, in questo momento, mica sono di guardia in unità coronarica, magari alle prese con un turno di quelli che sembra che sia arrivata l'apocalisse là fuori, oppure alle tre del mattino davanti alla macchinetta del caffé, quella che ha per sfondo le luci della città e le montagne tutte intorno all'orizzonte.
No, non si fa così, cara figlia mia, che poi dopo cena al lavoro ci devo andare per davvero e se fai in questa maniera, finisce che mi tocca mettermi a pensare al modo in cui ci vado e così mi vengono in mente sia gli entusiasmi e le passioni, che le infedeltà e i fallimenti. Insomma quel misto di vittorie ed insuccessi, i soliti maledetti impostori, che non c'é una volta che siano serviti a tenermi veramente in piedi.
"Sai qual é la cosa più bella? - le rispondo dopo averci pensato per un po' - E' che non c'é nessun lavoro come questo che ti metta così tanto di fronte al reale. Perché sia colui che soffre che quello che se ne prende cura, si trovano davanti alla domanda più profonda di significato del proprio cuore. Ed hanno la possibilità di condividere questo pezzo di strada insieme".

Non sono più a cena coi miei figli e con mia moglie, adesso: sono arrivato dove dovevo andare, lungo le torri di guardia di un'altra notte in ospedale. Ma per questa volta il sasso é stato lanciato ed io sono stato ben felice d'essermi chinato per raccoglierlo. Magari per ricordarmi che quel pezzo di strada, per fortuna, non é condiviso solo da me e da chi mi troverò davanti anche stasera.
Ma anche e soprattutto dall'Amor che move il sole e l'altre stelle.

Wednesday, October 13, 2010

SWEET HOMETOWN

Possibile che nessuno l'avesse sentito? Eppure aveva urlato, parole così forti da entrare dritte nelle orecchie, sino a trafiggere il cervello. Oltre il volume, tirato al massimo, delle cuffiette del suo iPod, strette tra il bavero dell'impermeabile, tirato su a fare da scudo contro il freddo del vento e serrato con le mani a sé, quasi a proteggere l'anima e il cuore. "C'è qualcuno vivo là fuori?", aveva gridato, più forte della musica che accompagnava i suoi passi in quella Milano così gelida già in autunno. No, non c'era nessuno in giro, nessuno vivo, neppure in mezzo a quella folla che gli camminava intorno. Erano tutti soli, o male accompagnati; tutti alle prese col proprio male di vivere, lo sguardo ostinatamente verso il basso, il passo veloce, corpi abituati a urtarsi gli uni gli altri, facendosi maleducatamente largo nelle strade, rese strette dalla presenza dei troppi guai.
Che razza d'infanzia aveva avuto, là dentro? Forse era per quello che non se la ricordava più. Niente prati verdi, né biciclette; non cieli azzurri, o nuvole nel cielo. Solo nebbia, asfalto ed orizzonti grigi e piovosi. Ed ora le cercava, disperatamente, quelle nuvole, ma quelle che vedeva erano tetre come i suoi pensieri. Avrebbe voluto volare su, sempre più su, fino a vederlo bene, quel cielo che aveva sempre e soltanto immaginato. E come un aviatore, sparire poi lassù in cima, spegnere il motore, respirare forte e vedere se gli fosse riuscito di non tornare più indietro. Sentire la musica vera, la musica del silenzio che ci fa cantare...


Quando si risvegliò era seduto sul sedile dell'auto, ferma lungo una stradina di campagna, via secondaria rispetto a quella principale, la provinciale che era solito percorrere tutti i giorni. Davanti a lui, il bosco di pioppi non c'era più. Era rimasto solo un po' di prato e quel sottile fiumicello, un rigagnolo in realtà, ora che le piogge tardavano a farsi vedere. Tutti gli alberi erano stati tagliati e portati via, segati per bene, resi legna da ardere per le moderne stufe. Si erano portati via anche quello, l'albero caduto, lasciato di traverso lungo quel sottile rivo d'acqua, abbattuto chissà quando e da che cosa, un colpo di vento, una grandinata forte di un giorno ormai lontano. Quell'albero era rimasto a lungo là disteso, i rami ormai avvizziti, privati della vita delle radici, ma rimasti abbarbicati al fusto delle altre piante ancora in piedi, nel disperato tentativo di rimanere aggrappati a qualcosa che potesse donar loro ancora un po' di vita.
Ogni tanto ritornava là, giungeva in quel luogo facendo viaggiare l'auto lentamente, poi spegneva il motore e si fermava per un po'. Si era affezionato a quel tempo e a quello spazio, all'albero caduto, agli alberi ancora in piedi che a quello sdraiato continuavano a voler bene. Ci tornava soprattutto quando era la sua vita a traballare, quando i pensieri ed i gesti si mettevano ad attraversare gallerie oscure, quando, per le sue infedeltà e contraddizioni, cessava di amare. A volte scendeva dall'auto e si metteva volentieri a camminare, il terreno ad impolverare le scarpe ed i calzoni. E spesso, poco a poco, quel passeggiare diventava anche preghiera, luogo di ritrovo del senso più profondo che anche nei momenti bui gli sembrava di cogliere dalle circostanze e dalle cose. Quel groviglio di tronchi, fusti, rami intrecciati tra di loro era il senso di comunità che avvolgeva tutto. E qualche volta, in fondo a quel rivo d'acqua, gli era parso di veder sorgere anche il sole.

Si svegliò di nuovo. Era sempre in mezzo alla gente, le cuffiette dell'iPod ancora addosso e qualcuno, urtandolo lungo il marciapiede, aveva mormorato un sommesso "scusi". Allora aveva tolto elmo ed armatura. Via la musica ed il cappello, un respiro profondo a far entrare tutta l'aria e anche lo smog della città. Poi si era messo pure a sorridere alla gente, quella che, prima, gli sembrava non si curasse minimamente di nessuno, ma che ora, invece, sentiva misteriosamente legata a sé.
Aveva cominciato a fissare la bestia negli occhi, ma si era tolto prima tutte le armi di dosso. Non era una sfida a duello, quella che si stava per compiere. Era, invece, uno sguardo largo che si faceva strada, diverso, in qualche modo anche armonioso e misericordioso, su tutto ciò che vedeva e sentiva attorno a sé.
Sapeva che era difficile amare quel luogo se non ci si era nati. Difficile come difficile é amare chi é irascibile e scontroso, chi non compie il primo passo, perché il suo cuore si é indurito, a furia del dolore dal quale ha dovuto difendere se stesso o che, suo malgrado, ha dovuto lasciare entrare dentro sé. Ma nessuno é indifferente all'amore. E quella frenetica e nevrotica città era fatta di tanti volti, nessuno dei quali avrebbe rifiutato quel poco d'amore che lui, adesso, aveva voglia di donare.
Così si era messo ad osservare le persone, ad una ad una. I volti dei bambini, o quelli dei vecchi coi sacchetti della spesa. Gli yuppies in carriera e poi i ragazzi, le donne, gli extracomunitari incrociati mille volte, sempre fermi agli stessi semafori a chiedere la carità. Ecco dov'era bella la sua povera città. Non nelle piazze o nei monumenti e nemmeno nei teatri o nei caffé. Era bella dentro quei visi e quegli sguardi, che a fermarsi ad osservarli, invece che a schivarli, ci si accorgeva di come ognuno avesse dentro la sua strada. E che la strada, per quanto tortuosa e impervia potesse essere o apparire, aveva sempre la faccia di un Destino buono, che ha a cuore il desiderio più profondo del tuo cuore, quello che fa rima con felicità.
C'era una frase, forte, che si era fatta carne, frase scritta da poco da un ragazzo, partito troppo presto per il cielo. Quella frase, ora, sembrava dare senso anche ad ogni conto che sembrava quasi inesorabilmente non tornare: "Non esiste luogo in cui non ci sia la possibilità di creare unità, ogni persona la porta dentro, ma la esprime in modi diversi e bisogna amare senza condizioni".

Da quel giorno decise di voler essere una frase incarnata, parola vissuta, ma sentiva d'aver bisogno ancora di qualcosa. Di un modello, forse. Di un aiuto, certamente.
All'improvviso si trovò davanti ad un portone e lì, dipinto, vide quello che cercava. Il volto di una donna, l'amore di una Madre: eccola, era, quella, la misura. L'Amore mescolato tra tutti, uomo accanto a uomo, come s'inzuppa un frusto di pane nel vino.
Ce la poteva fare, ora sì che ne era certo, ora che non era più da solo, alle prese col deserto lastricato composte da tutte le sue inutili e buone intenzioni; ora l'aiuto di cui aveva bisogno sarebbe arrivato in ogni istante, da Chi era disposto a donarlo gratuitamente, chiesto, com'era, da un cuore sincero.
Respirò a pieni polmoni, l'aria non sembrava poi così tanto inquinata, in fondo. E guardò, un po' più in là, lontano: in mezzo all'asfalto, alle auto ed alla gente, c'era pure un po' di verde.
Tirò un sospiro profondo, per la prima volta si sentiva libero davvero.
E, anche se ci era nato, si accorse di non averla mai amata così tanto, quella sua nevrotica, impossibile, fantastica città.


Ringraziamenti:
A Paolo Vites, per la foto che ha scattato, riprodotta qua sopra e rapita da un portone di città e che trovate pubblicata sul suo blog, a questo link.
A Claudio Chieffo, Bruce Springsteen, Chiara Lubich, che hanno incrociato, come capita spesso, i miei pensieri.
E a Luca, cui é dedicato questo post, partito troppo presto da quaggiù, ma certamente felice, ora che é nel seno del Padre.

Wednesday, October 06, 2010

HUNGRY HEART




"Quando ho accettato di sedermi, di nuovo, di fronte alle cento canzoni di Bruce Springsteen (macché, sono molte di più), per tradurle, spiegarle, amarle di nuovo, l'ho fatto per riappropriarmi di qualcosa che sento mio. E' quel sentiero che ogni tanto amo percorrere a ritroso, come il protagonista di Long Walk Home. Che ha visto un bel pezzo di vita passare davanti ai suoi occhi, molte cose e volti, cambiare, eppure torna davanti alle botteghe di una volta, infila dentro la testa per capire chi c'é e chi é andato via. E' un processo bello e doloroso. In una parola: inevitabile".
C'é forse bisogno di queste parole di Ermanno Labianca, tratte dall'introduzione di Talk About A Dream - uno dei suoi libri di testi commentati di Bruce Springsteen - per indicare la modalità giusta con cui calarsi nella musica di For You 2, il tributo a The Boss di un folto gruppo di artisti italiani, uscito su doppio cd in questi giorni per la nuova nata casa discografica Route 61. Perché ripercorrere queste canzoni é di fatto un'affacciarsi a quelle botteghe, per vedere che le vecchie canzoni che abbiamo amato non se ne sono mai andate via.
E' per questo, allora, che il fatto che un manipolo d'italiani provi a reinterpretarle possiede un senso, spazzando via ogni sensazione di déjà vu o d'inutilità. E' un qualcosa, invece, che ha a che fare con la canzone popolare, col fatto che quella canzone, perché resasi capace di raccontare qualcosa che é di tutti, può essere fatta propria da ciascuno, mantenendo intatta la poesia e la verità che ha dentro sé. Se quello di Springsteen é spesso un acquerello, dove trovare dipinta quella terra di mezzo abitata dalle speranze andate in frantumi dell'american dream, allora non é difficile trovare rispecchiate in esso le nostre stesse aspettative, i sogni, tutti i dolori e le brevi gioie di esistenze che, al fondo, hanno le stesse esigenze interiori, perché il desiderio del cuore dell'uomo é lo stesso, sia che si trovi nelle pianure del Nebraska o sulle colline dei castelli romani.
Il rock'n'roll - diceva Springsteen - era l'America vera che ti entrava in casa. Qualcosa, dunque, che ha a che fare con la vita, mai ripetitiva, mai uguale a se stessa. Ecco perché gli artisti di questo disco compiono un esperimento che può dirsi riuscito, perché il loro mettersi di fronte a una cover diviene lo spalancare una porta e permettere a quel desiderio del cuore di trovare la propria via d'uscita, fare esperienza di vita e dimostrare a se stesso che esiste.
Allora, anche musicalmente, ci sta tutto. Come le diversioni chitarristiche di PJ Faraglia su State Trooper e Cadillac Ranch, la rilettura italiana di Metamoros Banks da parte di Luigi Mariano, o, ancora, le suggestioni irlandesi dei Modena City Ramblers su The Ghost Of Tom Joad. Ma anche le versioni, ricche di pathos, di canzoni come Radio Nowhere (Daniele Groff), Sherry Darling e Be True (Lorenzo Bertocchini), Eyes On The Prize (Tenca/Severini/Basile), Tomorrow Never Knows (Francesco Lucarelli), la spettacolare Land Of Hope And Dreams dei Mardi Gras e tante (tutte?) altre ancora.
Ma, soprattutto, ci sta che la scelta delle canzoni e lo stile musicale sia quello che predilige i tempi lunghi e distesi, la ballata struggente, il rock che lascia il passo al folk o al country malinconico; un percorso narrativo che si dimentica dei muscoli perché col tempo c'é sempre più bisogno di spazio per pensare piuttosto che per correre e ballare.

La mia Route 61 é spesso una strada che schiva il traffico cittadino, per infilarsi sinuosa a ridosso dei campi, di cui ora l'autunno sta smorzando i colori. Curve vicino ai fossi, tratti dove sei costretto a rallentare l'auto, ma anche la frenesia stessa dei pensieri, appesantiti da notti talora insonni o da giornate dove la sofferenza che ho incontrato ha reso troppo affranto anche il mio cuore. In mezzo ai tempi dell'anima, anche queste canzoni trovano, in questi giorni, il loro giusto spazio, così come lo trova uno sguardo sempre più profondo sul senso delle circostanze e di ciò che mi accade intorno. Sempre di cuore si tratta, ma non quello fatto di sentimentalismi. Un cuore, invece, ogni giorno sempre più affamato - Hungry Heart - di quello che é vero e di tutto ciò che dura e che non può morire.
Quella frase, che mi ha rincorso tutta estate - e di cui ne ho intravisto, a tratti, il senso - continua a non darmi tregua neanche adesso. "Quello che il tuo cuore desidera, esiste": basta tenerlo a mente spesso, fare in modo da non dimenticarlo, attaccarlo, sorta d'ideale post-it, proprio a ridosso dei pensieri.
Solo così il pensare e, ma sì, anche il correre delle mani e dei piedi nei gesti d'ogni giorno, o al ritmo della musica buona, acquista senso. Ed anche la mente trova quel filo rosso che lega le cose tra di loro, anche quando quelle stesse cose sembrano così misteriosamente scollegate. Basta che tutto si rivesta di uno Sguardo largo, diverso, ricco di quella Misericordia e di quell'Amore che tu non hai e che non ti puoi dare da solo.
Anche mentre ascolti un disco di tributo alle canzoni di Bruce Springsteen.

Links:
il progetto e tutte le info sul disco: http://www.foryouspringsteen.com/
la casa discografica Route 61: http://www.route61music.com/