Tuesday, April 27, 2010

DALL'ADIGE AL DON



Occhi grandi e spalancati. Forse ancora spaventati. Me li ricordo ancora oggi come fosse allora. Occhi dentro fisici asciutti, malandati, consumati dalla vecchiaia e dalle malattie. E dalla tanta, troppa sofferenza. Me li ricordo, i reduci ormai anziani della guerra, con quel loro gentile e sommesso "sa, dottore, io ho fatto la campagna di Russia". Ed io lì a non capire, a dire va bene ma che c'entra con quello che lei ha adesso, son passati così tanti anni...
Ma ero troppo giovane e troppo stupido per capire. Così come lo sono adesso, d'altra parte, più vecchio e stanco, ma sempre inadeguato. Incapace nel capire sino in fondo che quel "tu" davanti a me non é solo un malato, ma "la" domanda di un significato, il Senso della propria sofferenza, bisogno d'essere curato ma soprattutto esigenza di un cammino in compagnia, dentro quella stessa sofferenza e dentro tutto il male.


* * * * *



La foto in bianco e nero di un tenente alpino, appoggiata giù per terra, vicino ad un leggio. Poi la voce narrante, splendida, di Federica Toti, il volto illuminato dalle luci soffuse del palco, le mani da una piccola abat-jour posta su di un tavolino. Inizia così "Dall'Adige al Don", musica e letteratura a rappresentare insieme il dramma dei soldati e degli alpini: "Durante la seconda guerra mondiale tra il luglio del 1941 e l'autunno del 1942, furono inviati in Russia circa 230.000 soldati italiani. Costituivano lo CSIR, il Corpo di Spedizione Italiana in Russia, successivamente denominato ARMIR, Armata Italiana in Russia. (...) La spedizione ebbe invece un esito finale disastroso per le potenze dell'asse, costituito da Italia, Germania, Finlandia, Romania, Ungheria, una divisione di volontari spagnoli e piccole unità slovacche e croate e si concluse con la perdita di un numero enorme di soldati...".
E' l'inizio di un urto violento e insieme una carezza, racconto di un'ora e mezza che ti rapisce la mente e il cuore, lasciando le tue membra incollate alla sedia, un'intensità che, a tratti, ti costringe quasi a trattenere il respiro. Sono racconti ora del soldato, ora della sposa o fidanzata che é rimasta a casa, ora del padre rimasto senza il figlio, ora della vedova o della madre che il figlio lo ritrova, ma non si può far capace di raccontare la sua gioia davanti agli occhi disperati di chi ha perso il proprio caro. Testi meravigliosi, scritti da Roberto Curatolo, l'autore stesso impegnato con Federica Toti nella passione del racconto.

E, in mezzo, le canzoni di Massimo Priviero. Splendide canzoni: La Strada Del Davai, Nikolajevka, Pane Giustizia e Libertà, classici alpini rivisitati con una rabbia rock che riesce a rimetterli su strada in una maniera nuova. Musica che si fa poesia e canzoni che diventano racconto, in un incredibile crescendo d'intensità anche nei toni della voce, per uno spettacolo che non vorresti avesse fine.
E' così e solo così che forse riesci anche tu ad entrare dentro gli ultimi istanti della vita di quel giovane tenente, quello che amava così tanto i suoi alpini, occhi girati indietro, la vita passata davanti come un film, l'amore disatteso e un "tornerò" ricacciato in gola sotto i colpi delle granate più fredde della neve: "(...) gli occhi, ruotando verso il cielo livido, non incontrarono l'immagine funeraria di mia madre, né il volto apprensivo e severo di mio padre, ma sbiadirono, nella luce calda dello sguardo innamorato di Alina..."



Fatica, Priviero, a star seduto mentre canta, ma, lui ed i suoi musicisti (tra gli altri, un Michele Gazich spettacolare al violino) riescono a farlo mentre i testi di quel dramma scorrono uno dopo l'altro, uno più feroce e più tenero dell'altro, la stessa solennità capace di rapire tutti. Rispetto e solennità di fronte al dramma della guerra, che a poco a poco sanno farsi tenerezza, sinché giungono ad essere comunione. Perché é questo ciò che accade quando il racconto di quei protagonisti si fa strada tra attori, musicisti e spettatori: ciò che si realizza é una magica alchimia che, in modo misterioso, fa diventare tutti una cosa sola.
Finché, alla fine, riusciamo anche ad alzarci tutti, per un applauso che più che tributo diventa in qualche modo una condivisione, coscienza d'essere entrati dentro la storia tutti insieme.
Ed é solo alla fine, allora, che ci si può alzare per cantare per davvero, cantare tutti insieme quel Nessuna Resa Mai, sorta di manifesto di umana resistenza, perché, prima della fine, si possa ripartire da qui nuovi per davvero.



* * * * *

"Lo sai mamma mia che freddo fa stasera
E quanti occhi senza niente accanto a me
Chissà se mai la finirà, chissà se tu mi rivedrai
Son sulla strada, la strada del davai"
(M. Priviero, La Strada Del Davai)

"Davai!", "avanti!", urlavano i soldati russi ai prigionieri, italiani e tedeschi, quelli che non erano morti sotto le granate o congelati, costretti a ripercorrere, da catturati, l'estenuante marcia nella neve che avevano provato a fare prima, disperata ritirata alla ricerca di una via di scampo. "Davai !", "avanti !" gli urlavano in faccia e chi non ce la faceva veniva finito lì, senza pietà, con una raffica di mitra. Non sapevano, quei poveretti che ancora riuscivano a camminare, che i loro compagni di sventura già morti sul campo di battaglia avevano fatto una fine migliore di quella che aspettava loro, nei lager sovietici. Più di sessantamila dichiarati "dispersi" dalle autorità occidentali alla fine della guerra, ma invece - tutti lo vennero a sapere, molti anni più tardi - fatti morire di fatica, fame e freddo dal regime comunista che aveva "vinto la guerra" contro il nazismo.

Ma qualcuno, a tornare a casa, alla fine ce l'aveva fatta. E loro, i sopravvissuti della guerra, avanti nella vita, in qualche modo, c'erano andati. Finché, vecchi e stanchi, erano arrivati sino a qui, davanti a me, con quel loro "sa, dottore...". Ogni acciacco, ogni pianto, ogni incertezza, buttati dentro quello sguardo indietro, l'inferno di un inverno del '43.
Ed ora, potessi tornare indietro, me li abbraccerei tutti, ad uno ad uno.
Adesso sì che lo farei, ora che non li incontro quasi più, perché poco a poco stanno morendo ormai; loro, gli ultimi, destinati a raggiungere tutti gli altri , l'ARMIR che si riforma in un altro luogo, dove deporre finalmente le armi, lassù dove trovare di nuovo la strada che porta verso casa.

Non li abbracciai allora, ma non é un rimpianto. Loro, ne sono certo, avevano già capito. Compreso che nessuno, in fondo, potesse intuire veramente ciò che avevano vissuto, la sofferenza da portare dentro di sé, ogni maledetta alba di ogni nuovo giorno.
Eppure, poco a poco, qualcosa può iniziare a entrare nell'anima anche adesso, dentro le pieghe di una fredda mente e di un arido cuore.
Aiutandosi con chi ha fatto memoria di quegli avvenimenti - certamente - ma facendo anche in modo che mente e cuore siano capaci di farsi compagnia, andare a braccetto tutti e due, sostenendosi l'un altro nel cammino, alla ricerca dell'Amore al quale alla fine, siamo tutti destinati.

E, fatto questo, andare avanti, una strada del davai dentro le incertezze della nostra stessa vita, cercando di non sfuggire più la sofferenza che il nostro passo incrocia ogni momento.

Come Maria, che non chiedeva, ma stabat, ai piedi della croce.
Maria, sicurezza della nostra speranza, madre della nostra povera, stanca, incerta umanità,
figlia di un Amore che si é fatto inchiodare per noi ed é risorto.



Note: le foto sono tratte dal sito di Massimo Priviero (www.priviero.com)

Friday, April 16, 2010

CAHIERS DE FRANCE (7) - SOUTHERN ACCENTS



La lavanda non é ancora in fiore, ma pazienza: if you believe in magic, la Provenza é un luogo che ti può rapire in qualsiasi stagione e per sempre.
La valle del Lubéron, quella dove arriviamo noi, é splendida terra di colline e paesini arroccati in ogni dove, vigneti ovunque (ed irresistibili inviti alla degustazione di domaines che compaiono ad ogni curva della strada) e colori sempre affascinanti, anche ora che di fiori in giro ce ne sono ancora pochi. Il paesino che ci attende - Murs - ha un nome strano, ma in effetti sono proprio quattro case circondate da muri dappertutto; quei muri, specie i più distanti, sono quelli della peste, costruiti qui nel settecento, per difendere gli abitanti da una malattia che poi sarebbe inesorabilmente entrata e mantenuti in seguito, per impedire ai pochi sani di uscire ed ammalarsi fuori. Gli altri muri, invece, i più secolari ancora, sono quelli delle case, che qui chi ha ristrutturato la villetta l'ha fatto su palazzi del millecinquecento, compreso il proprietario del castello, lassù in cima al paese, che ancora oggi é residenza privata, beato lui.

Tanté, sta di fatto che alla sera, quando usciamo a fare quattro passi fuori dal logis, dopo una cena degna della migliore ristorazione francese, l'atmosfera é decisamente spettrale, le vie buie, poche luci nelle case e perfino qualche ululato in lontananza. Meglio tornare dentro allora, che siamo pure stanchi, domani si va in giro e poi i gestori dell'albergo sono pure così gentili. Già, perché le mail che arrivavano da qui giungevano congedandosi con un "provençalement votre" da parte di un'accattivante Laetitia, e vuoi mettere come suona meglio una frase così in francese, rispetto ad un "lombardamente tuo" come ti firmeresti tu?
Come resistere allora e non venire fin quassù? Speriamo solo che di notte non saltino fuori i fantasmi ed i vampiri...


Al mattino dopo, grazie al cielo, ci svegliamo tutti sani, allora c'é modo di cominciare a perder tempo, in giro per questa terra ricca di splendidi profumi, sapori e colori.
Si fa tappa ad Avignone che quattro salti su quel ponte proprio non puoi dire di non averli fatti, poi via di corsa all'Isle Sur Sorgue, che qui chiamano la Venezia provenzale, ma si sa che all'estero appena hanno quattro canali in più gli monta subito l'invidia per quella città sull'acqua, che così bella, però, ce l'abbiamo solo noi. Il paesino, comunque, confronti a parte, é carino per davvero, coi suoi mulini ad acqua, un tempo preziosa fonte d'energia e tuttora perfettamente funzionanti; il fiume, poi - la Sorgue - é quello che affascinò Petrarca facendolo meditare sulle chiare fresce e dolci acque e allora vagabondare un po' da queste parti non é tempo perso neanche per noi, in mezzo a negozietti d'antiquariato strano e paperelle che nuotano tranquille nei canali, salvo fuggire terrorizzate all'arrivo del più piccolo dei miei figli.


Quando giungiamo all'abbazia cistercense di Sénanque, la lavanda non é ancora in fiore e così ci perdiamo quella che é la cartolina di Provenza: un mare color viola in mezzo al verde, con la chiesa e l'azzurro del cielo sullo sfondo. La lavanda non é ancora in fiore, ma il cuore dei monaci, che ci accompagnano con la preghiera ed i canti delle celebrazioni della settimana santa, vale ben più di ogni fotografia di primavera ben riuscita. Dentro le mura della chiesa, il tempo trascorre senza fretta e l'anima sembra trovare quella pace di cui ha un affannoso bisogno, abituata invece com'é ad una frenetica esistenza che l'attanaglia sempre quando é fuori in mezzo al mondo.
Sono momenti spesi bene, quelli passati insieme ai monaci ed alla gente che partecipa alle celebrazioni del giovedì e venerdì santo; anche i ragazzi non avvertono la fatica del restare fermi troppo a lungo e, all'uscita dall'abbazia, di fronte ai colori caldi del tramonto, il senso di un gesto così solenne di preghiera appare come il filo rosso che lega tra di loro tutti i momenti della giornata, luogo dove deporre felicità e speranze, dubbi e desideri, tensioni ed attimi di pace di un'esistenza troppo spesso distratta ed affannata.


Il tempo é davvero generoso, in questo inizio di primavera provenzale e allora é bello continuare ad andare a caccia di colori, anche se la lavanda, ahimé, sbocciata non lo é ancora.
E allora via di nuovo, questa volta si va fino a Roussillon, che di colori ne ha da vendere in qualunque stagione dell'anno. I colori dell'ocra - gialli, rossi ed arancioni - sono così intensi che qui si parla perfino di Colorado provençal (la grandeur dei francesi non si smentisce proprio mai) e si mischiano magicamente al verde dei prati ed all'azzurro del cielo. Il sentiero dell'ocra é una camminata di mezz'ora alla scoperta di scenari sconosciuti, divertente per i bambini (che ne usciranno come se avessero nuotato dentro un campo da tennis in terra rossa) e terra di conquista per chi, macchina fotografica alla mano come me, é pronto a lasciarsi andare ad un delirio di scatti senza fine. La sorpresa del giorno é trovare qui due famiglie di amici di Milano (che non sappiamo essere pure amiche tra di loro!), che a darsi appuntamento apposta non ci si troverebbe proprio, coi quali poi si possono condividere colori, parole, panini nella piazza del paese e café-crème al bar (che qui da queste parti - comunque - il caffé e il cappuccio non riusciranno a farlo proprio mai..). Sono volti, mani e voci, che si uniscono a noi nell'amicizia di un pomeriggio in compagnia, così come nell'unità profonda quando ci si ritroverà insieme anche a Sénanque. E sono pensieri, emozioni ed esperienza di una bellezza che si é fatta strada. Bellezza di amicizie, felici di vivere in comunione ciò che si é e quello che si ha, per mettere tutto, infine, nelle mani di Colui a cui appartiene per davvero. In cambio c'é un centuplo già promesso sin quaggiù, fatto di felicità e di pienezza come ultimo pensiero su cui volare un po' prima di dormire.


Alla fine di tutti questi giorni, quando siamo pronti per partire ed il motore dell'auto é già acceso, la lavanda non é ancora in fiore e allora tornare nella fredda Lombardia é un po' meno dura. Non é facile lo stesso, però, dopo che sapori, odori e colori hanno comunque rapito senza pietà un pezzetto del tuo cuore.
La lavanda non é ancora in fiore, ma quando lo sarà ci rimarrà anche a lungo, colorando ancor più le luci ed i profumi di questa magica terra del sud. E allora perché non girare l'auto un'altra volta e scappare di nuovo fino a qui. Sono accenti del sud - southern accents - di cui ti senti fatto e che ti hanno attratto irresistibilmente senza via di scampo. Sogni di primavera a cui non ti potrai sottrarre, perché anche di questo siamo fatti in fondo, anime sempre in corsa, runnin' down a dream.



Monday, April 12, 2010

TRA I FRANTUMI DELL'IO


"La luce dei fari non riesce ad illuminare la notte, a rompere la cappa di tristezza che mi pesa dentro. Sono a pezzi per l’ira causata da chi mi si è dimostrato ostile e per il tradimento di chi pensavo amico.
Ma non è questo, in fondo, che più mi opprime: insopportabile all’orgoglio è il mio limite, quel sentirmi incapace di uno sguardo di speranza sul reale, nonostante tutto.
Così continuo a guidare, accompagnato dalle note dei Sigur Ros, musica che sa di ghiaccio e brulle lande desolate. Senza la risposta di cui avrei bisogno...." (continua a leggere qui)


Saturday, April 10, 2010

CAHIERS DE FRANCE (6) - IL CUORE, L'ANCORA E LA CROCE




Il cuore pulsante è là, dentro les arènes, oppure nelle vie della città, festanti e colme di folla all'inverosimile, ad Arles come a Les Saintes Maries De la Mer, in questo periodo di feria pasquale, che fa assomigliare un pezzo di Francia del sud ad un angolo di Spagna.
La Camargue é una terra strana, gli uomini più gitani che francesi ed i tori liberi in mezzo ad immensi spazi verdi, allevati dai guardians, uomini fieri in groppa agli splendidi cavalli bianchi tipici di questa zona; uomini e tori che qui sono protagonisti anche di corride, ma con gli animali più fortunati dei fratelli di sangue spagnolo, perché in terra francese la vita viene loro sempre risparmiata e qui l'abilità del toreador é nello schivare l'animale, piuttosto che nell'ammazzarlo.
Non c'é modo di entrare nello splendido anfiteatro romano di Arles, già esaurito da un bel pezzo per la corrida di Pasqua ed allora é bello spostarsi giù, fino alle Saintes Maries De La Mer, dove, dopo la messa, il popolo é in festa a ballare la quadriglia sul sagrato della chiesa.
Il sole ha finalmente fatto capolino, scacciando le nuvole del mattino e la gente, felice, si aggira per le vie del paese, tra mille negozietti che hanno già in bella mostra vestiti ed oggetti che hanno il sapore del mare dell'estate. Ci tuffiamo anche noi, navigando a vista e senza fretta e rimbalzando da un lato all'altro delle piccole stradette del paese, prima di buttarci capo e collo dentro una saporitissima paella, annaffiata da un'ottima birra e dai sorrisi camarguens.



La chiesa di Les Saintes Maries De la Mer sembra un antico fortilizio, baluardo sul mare proprio alla foce del Rodano, dove la tradizione vuole siano arrivate insieme le sante Marie: Maria Maddalena, Maria Jacobé, Maria Salomé (e pure Lazzaro assieme a loro), tutte fatte partire in Palestina, su una barca senza vele e senza remi, da persecutori che le volevano morte a tutti costi e giunte miracolosamente sino a qui, così che la predicazione del Vangelo, invece che naufragare miseramente in mezzo al mare, potesse entrare anche nel cuore dell'Europa, dritta attraverso le porte di Provenza. Si narra che anche santa Sara fosse insieme a loro, anche se non si sa a quale punto del viaggio; sta di fatto che da quei lontani giorni divenne la solenne protettrice dei gitani, che ora si danno appuntamento qui da tutta Europa il 24 maggio di ogni anno, per portare solennemente in processione la statua sino al mare e poi danzare e far festa insieme sino all'alba. Si racconta che anche Dylan - che un po' gitano, almeno negli anni settanta, sotto sotto lo era pure lui - capitasse da queste parti una di quelle volte, con quel capolavoro di Blood On The Tracks già nelle corde della sua chitarra ed il carrozzone della Rolling Thunder Revue pronto a partire per un carosello di spettacoli uno più bello dell'altro.

Mentre mi avvicino ad Aigues Mortes - che in italiano suonerebbe molto peggio che in francese - non ho Dylan nel lettore iPod di sottofondo, ma c'é la musica del cuore che mi accompagna, attraversando le strade affascinanti e paludose che portano giù fino al mare, sulla punta di Port Camargue, dove l'atmosfera non é ancora calda, ma i motori sono già accesi e pronti per il decollo estivo. La città conserva il fascino incredibile che doveva avere in tutto il Medioevo, circondata com'é da possenti mura, disposte a quadrilatero e perfettamente conservate sino ad oggi, insieme ai loro torrioni di guardia. Fascino e terrore assieme, perché quelle mura, volute dal re San Luigi, evocano ancora oggi immagini di feroci attacchi dal mare e di partenza sofferta di crociate. Io, però, conservo nella mente l'armonia di dolci suoni, quelli della musica trasmessa all'interno della chiesa di Notre Dame des Sablons, dove capitava che anche il re santo si fermasse spesso e volentieri in preghiera e capaci di placare ogni oscuro risvolto della mia mente, ancora troppo memore dell'assurda frenesia di Lombardia. Fuori da lì, lungo le strette stradine del paese, l'atmosfera é allegramente caotica e colorita, quanto basta per lanciarsi alla carica di ricordi da portare a casa; i souvenirs, per quelli vecchi come me, prendono la forma di dolciumi, spezie con cui arricchire i cibi che cucineremo a casa e liquori provenzali come la deliziosa Farigoule, ricavata dal timo e capace d'inebriare per bene anche i pensieri più distratti; mia figlia, invece, incrementa inesorabilmente la sua collezione di palline trasparenti con la neve; questa volta ha dentro un bel cavallo bianco con sotto la scritta Camargue: lo guardo un po' perplesso, aspettando di vederne un altro uguale ma nero, in vendita in Italia e con sotto la scritta Maremma. I miei figli, invece, guerrafondai per natura e che la spada l'hanno già presa dalle parti di Mont Saint Michel, questa volta ripiegano sulle mazze e meno male che elmi, scudi, archi e frecce costano troppo, così che si possa ripegare verso casa senza spiegazioni.


Il cuore, l'ancora e la croce, in Camargue li trovi davvero dappertutto: sui muri delle case, in cima ai monumenti, nei mille oggetti e souvenirs. Croce come fede, cuore come carità e l'ancora ed i tridenti dei guardians, posti alle estremità della croce, a far rima con speranza. La fede l'abbiamo percepita forte dentro le mura della chiese, anima di un popolo che fuori abbiamo visto in festa; voci all'unisono in preghiera, a volte abbellite dal suono del flauto, altre volte dalle melodie in fondo al cuore di ciascuno. La speranza si fa strada sempre dentro il cuore di chi attende con fiducia, uno sguardo vero rivolto a tutto ciò che accade. I miei occhi hanno percorso in queste terre spazi liberi ed immensi, a volte risalendo il fiume, altre volte a piedi o con l'auto, che ha attraversato lenta strade diritte che parevano non finire mai; percorsi in mezzo a campi verdi ed ai canali, bracci di mare azzurri e saline color rosa, armoniosamente intrecciati tra di loro; sentieri e vie districati in mezzo ai cavalli bianchi, liberi come il vento in mezzo ai prati ed ai fenicotteri rosa, che dipingono il tramonto di colori ancor più accesi. Difficile dimenticare paesaggi così, musiche dell'anima capaci di distendere e sciogliere ogni tensione contorta dentro sé.

L'ultima visione é quella dei miei figli che corrono spensierati a torso nudo lungo una spiaggia ancora selvaggia e davanti ad un mare d'aprile inaspettatamente calmo. La croce e il cuore si sono ancorati qui ed é difficile ripercorrere la strada che porta verso casa. A meno di caricarla di speranza dentro la gioia di un'esistenza che si sappia riempire di significato sempre ed ovunque ci si trovi. Ma lungo l'autostrada che attraversa sinuosa e veloce la Provenza, quella speranza, lo avverto, ricomincia ad insinuarsi a poco a poco.





Tuesday, April 06, 2010

NESSUNA RESA MAI


"L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque". Basterebbe questa frase di Enzo Jannacci a dare il colpo d'ala a tutta una giornata, costringerla a rialzare lo sguardo da una noia accovacciata, fatta di un oscuro ed egoista ripiegamento su se stessi. E se non bastasse quella frase, sarebbe allora sufficiente il colpo di frusta successivo, quel "ci vorrebbe una carezza del Nazareno", che é apertura d'occhi sul bisogno più intimo e profondo, ciò che davvero risponda al desiderio d'amare e d'essere amati, l'unica cosa che definisca appieno l'essere dell'uomo, sino alle pieghe più nascoste e profonde dell'anima.

Oggi quella carezza arriva sotto forma di una mail mandata da un amico - Massimo Priviero - che inoltra ed invita a trasmettere la lettera di un testimone del disastro del terremoto d'Abruzzo.
Un racconto "chiaro e forte", come lui lo definisce, ma - soprattutto - una carezza, perché "é quel che ci leggerete dentro che forse accarezzerà anche voi", aggiunge alla fine della sua mail ed é davvero così.
Allora grazie Massimo e grazie a te, amico sconosciuto: la tua carezza questa sera é stata in realtà uno scossone, ma di quelli che fanno solo bene. Spintoni che non ti fanno cadere, ma, piuttosto, sono capaci di rimetterti in piedi, dentro la certezza che Cristo é ancora una volta risorto in mezzo a noi.


"Ciao Massimo,
è quasi mezzanotte, non riesco a prendere sonno, e credo che non riuscirò a dormire stanotte; non è una notte come le altre, questa, è la notte del ricordo della tragedia, che un anno fa, colpì la mia città, con la forza devastante del terremoto. E’ passato un anno, ma il ricordo, il dolore, sono ancora vivi, radicati in me, e non credo che potrò mai dimenticare; non sarà mai più possibile essere sereni come prima, nella vita precedente, dopo aver vissuto una simile tragedia.
Stasera, in città, ci saranno molte iniziative per ricordare quella notte, ma io non parteciperò; preferisco rimanere solo, con il mio dolore, per pregare e ricordare gli amici scomparsi, e per scriverti, come feci un anno fa, perché ti considero un amico, una persona speciale; ed è con gli amici che voglio condividere il ricordo, il dolore, la speranza della rinascita. Mio figlio ora ha un anno, è in camera, con la mamma che dorme sereno, e per questo ringrazio il Signore che mi ha dato questa immensa gioia e mi ha evitato il dolore, che invece qualche altro mio concittadino prova ormai già da tempo. E’ passato un anno; molto è stato fatto, ma ancora siamo lontani dal poter dire che si è tornati alla normalità; per quello credo ci vorranno altri venti anni, se tutto va bene.
Ti scrivo dalla mia nuova abitazione; ho trovato una casa in affitto, a circa 20km dall’Aquila, visto che la mia casa è ancora inagibile e che i lavori per la sua riparazione ancora non iniziano, ma non mi lamento; c’è chi ancora si trova in una stanza d’albergo o dentro una caserma, quindi va bene così. E’ dura andare avanti, ma quando il mio piccolo angelo sorride, mi dà una forza, una carica incredibile, per non mollare. E poi ci sono le tue meravigliose canzoni che sembrano scritte per noi aquilani: siamo nati per volare, per cadere prima o poi, non fermarti, non fermarti mai!!!! Io volavo, noi volavamo, siamo caduti, ci rialzeremo, non ci fermeremo mai!!!! E poi Nessuna Resa Mai, che è diventata la canzone simbolo della nostra città; ho un amico che fa il dj per Radio L’Aquila 1, la radio più seguita a L’Aquila, e a furia di rompergli le palle, sono riuscito a fargli trasmettere il pezzo tutti i giorni, fino a farlo diventare la canzone ufficiale del post terremoto. Ho saputo inoltre che anche l’associazione L’Aquila per la vita, che si occupa dell’assistenza a domicilio dei malati di tumore, ha adottato la tua canzone Nessuna Resa Mai, come inno ufficiale, e la cosa mi riempie di gioia; spero di poterti vedere presto in concerto tra le macerie del centro storico; sarebbe memorabile. Grazie, Massimo, grazie come un anno fa, quando la tua musica, le tue parole, la tua poesia, mi hanno aiutato ad andare avanti, con la speranza nel cuore, per un futuro migliore. E, aspetto con ansia, l’uscita del tuo nuovo lavoro, che sarà, come sempre, un capolavoro.
Grazie amico mio e un saluto a tutto il tuo staff che tanto caro fu lo scorso anno."

Adolfo





Note:
foto di Eddy Waldameri, Massimo Priviero live al Rolling Stone di MIlano, 28 marzo 2009

Thursday, April 01, 2010

TRIDUO


Giovedì Santo
In fondo in fondo alla miniera, dove sta l'oro, c'é solo la vena pura. Quella cosa eterna. (...) La cosa che ci fa scodellare benedizioni invece che insulti sulla testa degli sconosciuti. E' sempre la stessa cosa. Ed é una cosa sola. Solo una. (...)
Allora io la metterei così. Direi che la cosa di cui stiamo parlando é sì Gesù, ma Gesù inteso come quell'oro in fondo alla miniera. Lui non poteva scendere sulla terra e prendere la forma di un uomo se quella forma non era fatta apposta per ospitarlo. E se dico che non c'é verso che Gesù sia un uomo senza che un uomo sia Gesù, mi sa che la sparo grossa l'eresia. Ma pazienza"
(tratto da 'Sunset Limited' di Cormac McCarthy)

Venerdì Santo
"Perche' ci si vuole cosi' male? Perche' anch'io mi voglio cosi' male da non tornare sempre al Mistero? Perche' questo restare voltati verso la profondita' dell'abisso a soffocarci della sua assenza di luce e di aria, senza voltarsi - come dovrebbe essere naturale - verso la superficie oltre la quale luce e aria sono di casa e in misura infinita? Perche' questa
innaturalezza nel mendicare ad ogni respiro l'ossigeno della Misericordia?"
(tratto da una mail del mio amico Mino, sempre capace di rompere la durezza del mio cuore)

Sabato Santo
"In tempi in cui era facile sentire gente che intonava con Pete Seeger e Joan Baez 'We Shall Overcome' come canzone nella quale riconoscersi ("Noi trionferemo, un giorno..."), ho sempre preferito guardarmi alla luce di "da un giorno all'altro sarò liberato" perché ho sempre pensato che non ci si libera da soli: la forza di volontà e le buone intenzioni, le ottime idee e le fantastiche trovate del migliore degli affetti non salvano nessuno."
(di Walter Gatti - su "I Shall Be Released" di Bob Dylan - tratto da "Help! il grido del rock")


Pasqua di Resurrezione
"(...) riaprendo gli occhi sul di fuori vedo l'umanità con l'occhio di Dio che tutto crede perché é Amore. Vedo e scopro la mia stessa Luce negli altri, la Realtà vera di me, il mio vero io negli altri (magari sotterrato o segretamente camuffato per vergogna) e, ritrovata me stessa, mi riunisco a me risuscitandomi - Amore che é vita - nel fratello. Risuscitandovi Gesù - altro Cristo, altro uomo-Dio, manifestazione della bontà del Padre quaggiù, Occhio di Dio sull'umanità. Così prolungo il Cristo in me nel fratello e compongo una cellula viva e completa del mistico corpo di Cristo, cellula viva, focolare di Dio, che possiede il Fuoco da comunicare e con esso la Luce. E' Dio che di due fa uno, ponendosi a terzo, come relazione di essi: Gesù fra noi"
(Chiara Lubich - Risurrezione di Roma, scritto del 29 ottobre 1949)