Monday, November 25, 2013

WHAT GOOD AM I?


What Good am I then to others and me
If I've had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been?

What good am I if I say foolish tings
And I laugh in the face of what sorrow brings
And I just turn my back while you silently die
What good am I?

Scrivere del passaggio di Dylan al teatro degli Arcimboldi di Milano, a quasi un mese di distanza ed a ridosso dei concerti alla Royal Albert Hall di Londra - uno di quei ritorni che bastarebbe da solo a giustificare fiumi di parole e di pensieri - parrebbe esercizio inutile, se non fosse che, in fondo, queste righe non stai facendo altro che scriverle al tuo cuore. 
Ho guardato il vecchio Bob mentre cantava. L'ho sentito mentre la sua voce s'insinuava cristallina tra le pieghe più nascoste della pelle. Ho fatto un sussulto dopo "What good am I?", quando il suo pianoforte é diventato all'improvviso quello del Beacon Theatre di New York o dell'Hammersmith Odeon di Londra, concerti ascoltati su nastri fruscianti di mille anni fa, ma vissuti come se fossi stato là da sempre, in prima fila. Un pianoforte che oggi appare in primo piano, ma che allora era poco più di una sagoma nera, trascinata da uno show all'altro, oggetto misterioso che prende forma una sera qualunque e senza preavviso. "Was that ok?" aveva chiesto quella volta a Londra, ma nessuno l'aveva sentito. "The crowd went bananas" - aveva scritto Clinton Heylin, lo stesso autore chiamato oggi a raccontare in un libretto la storia intera di Dylan, nel cofanetto con la discografia completa che la Columbia ha appena immeso sul mercato. "La folla era impazzita", aveva scritto Heylin, sorpresa da una "Disease of Conceit" troppo bella per essere vera, suonata da quell'uomo che, in un modo o nell'altro, finisce per sorprenderti sempre. Suonata su di un pianoforte, oggetto di sorpresa almeno quanto lo sarebbe una chitarra messa a tracolla sulle spalle del Dylan dei tempi d'oggi.

Quanto sia buono Dylan, continuano a chiederselo in tanti, ma é esercizio inutile ed incessantemente svolto ormai da troppo tempo. Cominciarono a Newport, quasi cinquant'anni fa. Lo fecero ancor di più in Inghilterra, poco tempo dopo, tirando fuori personaggi del Vangelo che forse sarebbe meglio lasciare dove stanno. Quanto sia buono Dylan, forse é Dylan stesso a chiederselo di volta in volta, da un palcoscenico all'altro, mentre passeggia sorpreso dai paparazzi su un ponte di Amsterdam, o tra le pieghe del sonno su di un'autobus o di un aeroplano da una città all'altra del mondo del suo neverending show. O mentre dipinge un quadro, oppure, fiamma ossidrica alla mano, plasma una delle sue nuove sculture di metallo.
Quanto sia buono Dylan devi chiederlo a te stesso. Sentire se le corde del tuo cuore sono ancora capaci di vibrare. Le mie, vecchie come vecchi cominciano a diventare i capelli grigi del mio capo, lo hanno fatto un'altra volta, anche se accovacciate sulla comoda poltrona di uno dei teatri più belli di Milano. "What good am I? é speranza non del giudizio buono altrui, ma domanda di riverbero del cuore su ciò che conta veramente, risonanza nell'animo di ciascuno. "Basta poca fede per fare tanta strada", aveva raccontato Bob non molto tempo fa su Rolling Stone,"ma ci vuole tempo per acquisirla: bisogna continuare a cercarla".
Non chiamatelo Giuda, allora, non fatelo più, neppure alla Royal Albert Hall, dove lo ritroverete tra poco. E continuate la vostra ricerca, almeno quanto sembra fare lui, con costanza e pazienza, che la voce sia diventata rauca oppure tornata cristallina. Perché se c'è una cosa in cui Dylan non ha proprio mai tradito é nell'andare incessantemente a caccia del desiderio profondo di felicità che abita nel suo cuore. Ci sarebbe da continuare ad andargli dietro anche solo per questo. Lasciandoci attraversare dalle sue canzoni. E per non dimenticarci di fare la stessa cosa col nostro. Perché non sia assopito, mai.