Saturday, April 15, 2017

IL TRIPLETE DI BOB DYLAN

Diciamoci la verità: il triplete non ce lo aspettavamo. Che Bob Dylan si sia appassionato al repertorio del Great American Songbook è un fatto assodato. Che, nei suoi concerti, gli standard americani vengano affiancati con disinvoltura ai classici che lo hanno reso celebre, è cosa abituale. E che egli potesse recarsi nuovamente con la sua band nei Capitol Studios di Hollywood, con la voglia di incidere ancora qualche brano, era anche possibile. Ma che il nuovo disco dell’artista americano fosse addirittura triplo, il primo, oltretutto, della sua intera carriera, ed intitolato, non senza una certa dose d’ironia, Triplicate, questo ci sorprende davvero. Tre cd per trenta canzoni - o tre vinili, per gli amanti di questo supporto, che, a giudicare dalle vendite, sembra non tramontare mai - ad esplorare quell’universo comunemente chiamato amore, in maniera, come recita il sito internet dell’autore, “tematica”. Til The Sun Goes Down, Devil Dolls e Comin’ Home Late – questi i titoli dei tre dischi – viaggiano infatti lungo un percorso composto da brani, alcuni più celebri, altri decisamente meno noti, molti dei quali già interpretati dalla “voce” per eccellenza della musica americana, Frank Sinatra, ma spesso incisi anche da altri cantanti famosi, quali Ella Fitzgerald, John Coltrane e Rod Stewart, solo per nominarne alcuni. Niente, dunque, di apparentemente nuovo, rispetto ai precedenti lavori, Shadows In The Night e Fallen Angels, anch’essi composti da cover.
Certo che questo nuovo disco, a prima vista, appare, per certi aspetti, già irrimediabilmente vecchio. Vecchio, perché, seppure intramontabili, queste canzoni sono più anziane del suo interprete. Vecchio, perché i nuovi brani vengono riproposti con lo stesso stile dei dischi precedenti, anche se stavolta fa capolino una sezione fiati, arrangiata da James Harper e che conferisce una drammaticità aggiuntiva a quel sottile tappeto sonoro che i musicisti, che da diversi anni accompagnano Dylan in studio e dal vivo, sanno ormai costruire alla perfezione. Insomma, il sospetto che la vena compositiva del premio Nobel della letteratura si sia affievolita e che anche questa nuova uscita sia stata programmata con una buona dose di sano “mestiere”, comincia a farsi strada. “Sarebbe così bello che ci regalasse un disco di sue nuove canzoni”, è uno dei commenti che si leggono più frequentemente sui social, quando non si assiste, da parte dei fans, a frasi di vero e proprio disappunto. Tanto più che Bob sa ancora incantare alle prese con il suo repertorio rock. I fortunati spettatori che hanno assistito al Desert Trip, il festival svoltosi nello scorso mese di ottobre in California, e definito da alcuni “il G6 del rock”, per la presenza, oltre a Dylan, di Rolling Stones, Neil Young, Paul McCartney, Who e Roger Waters, hanno potuto vedere quanto la sua energia si sia mantenuta intatta, e come egli, per dirla alla Paul Williams, sia rimasto il formidabile “performing artist”, capace di incendiare ancora il palco quando si esibisce in brani come Highway 61 Revisited, Ballad Of A Thin Man o Like A Rolling Stone (...)


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Sunday, December 25, 2016

LA NOTTE PIU' BELLA



Tratta da "N come Natale", la scheda di "La Plus Belle Nuit", canzone di Charles Trenet
Buon Natale a tutti i lettori di questo blog


Tuesday, November 29, 2016

N COME NATALE









Cento canzoni legate al 25 dicembre. Un divertente cocktail editoriale per censire e riassumere quel che la musica ha voluto dire del fatto natalizio e delle sue conseguenze umane e religiose. "A Natale si può dare di più", dice un noto jingle pubblicitario: siamo andati a vedere se è vero. Almeno in musica.

la recensione di Paolo Vites a questo link

la recensione di Rockol.it a questo link


Wednesday, November 02, 2016

SPEECHLESS

Alla fine siamo tutti “uomini sottili” che hanno cantato la loro ballata: “qualcosa sta succedendo qui, ma tu non sai che cosa”. Come tanti mister Jones, abbiamo cercato ogni tipo di spiegazione. Abbiamo acclamato, oppure contestato il conferimento a Bob Dylan del premio Nobel della letteratura. Siamo rimasti in attesa delle sue parole ed abbiamo cercato d’interpretare il suo silenzio. Qualcuno l’ha apprezzato, altri non l’hanno compreso. Molti l’hanno contestato. “E’ scortese ed arrogante”, hanno scritto. “Se non gli interessa, che lo dica, così lo diamo a un altro!”, hanno affermato alcuni. Perché, in fondo, un premio ha una valenza se il vincitore si dimostra interessato ad esso. In mancanza di questo, possiamo pensare che la ricchezza di ciò che quell’artista ha saputo esprimere possa essere in qualche modo invalidata. Perciò passi pure, andiamo avanti, e vediamo se, con un altro, avremo maggior fortuna. E’ giusto così, non è vero? O forse no? Certamente la strada del rock non è lastricata di buona educazione. Basta mettere su un disco dei Ramones o dei Clash, per rendersene conto. Ma è davvero così importante? Non sarà che il rock’n’roll è una forma di espressione senza fronzoli, cruda, talvolta scomoda e inopportuna, non fosse altro perchè ha saputo esprimere così bene, negli ultimi cinquant’anni, il disagio esistenziale dell’uomo e, in particolare, del mondo giovanile? Nella sua autobiografia “Born To Run”, Bruce Springsteen scrive che la musica e i viaggi furono per anni i suoi compagni migliori, anche dopo che lo spettro della depressione cominciò ad abbattersi sulla sua vita. Essi erano i suoi “fedeli compagni”, la “medicina migliore”: la strada, la musica, i chilometri, da percorrere incessantemente, sino al confine dell’orizzonte, sino alla prossima curva, sino alla ricerca di un significato dell’esistenza che le consentisse di reggersi in piedi. “Una canzone rock è capace di contenere tutto il mondo”, scriveva Greil Marcus nel suo libro Mystery Train e lo stesso Springsteen confidava di avere “imparato di più da un disco di tre minuti” di quanto non avesse “mai imparato a scuola”. Tutto questo per dire – è stato scritto anche questo – che nei momenti più alti la musica rock ha “dato voce alla ferita dell’uomo che cerca di afferrare il mistero”. (...)

Sunday, October 30, 2016

A SESSANTA METRI DALLA LINEA DEL FUOCO

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25 ottobre 2015. Una bomba, lanciata dalla zona est di Aleppo, quella sotto il controllo jihadista, colpisce la parrocchia di San Francesco durante la messa vespertina della domenica, solitamente la più affollata. La cupola della chiesa resiste all’impatto e la bomba esplode al di sopra del tetto. Quelli che seguono sono quaranta interminabili secondi di terrore, in cui la gente, in fila per ricevere la comunione, vede vetri e calcinacci cadere dall’alto, sente vibrare le colonne, scorge l’enorme lampadario del soffitto rimanere miracolosamente attaccato. Nessun morto, solo pochi feriti. Padre Ibrahim raccoglie intorno a sé coloro che non sono fuggiti all’esterno, li accompagna nel giardino della chiesa attraverso le porte laterali, finisce di distribuire la comunione e impartisce la benedizione finale. Più tardi, un frammento della bomba ritrovato verrà portato giù; lo si addobberà e lo si ricoprirà di fiori e, durante la messa del 1 novembre, verrà portato come offerta all’altare. Scriverà padre Ibrahim: “il simbolo di odio e di morte è stato battezzato ed è divenuto un segno dell’amore che perdona e dà vita. Ci mandano la morte e noi restituiamo loro la vita. Ci lanciano l’odio e noi offriamo in cambio l’amore, attraverso quella carità che si manifesta nel perdono e nella preghiera per la loro conversione”.
Esattamente un anno più tardi, padre Ibrahim è a Milano, per incontrare una folla, che riempie sino all’inverosimile la chiesa di Sant’Angelo, e raccontare qualcosa di quella straordinaria esperienza che lui ed i suoi confratelli vivono ogni giorno nella loro parrocchia, situata nella zona ovest di Aleppo, ad appena “sessanta metri dalla linea del fuoco”. Ci ringrazia per essere usciti di casa alla sera, nonostante una fredda ed umida serata di autunno, lui che viene da una città dove non c’è più luce, né acqua, né cibo e dove i missili piovono incessantemente da ogni parte, sia di giorno che di notte. Ed a noi, magari, tornati a casa stanchi dal lavoro, carichi dei nostri stress quotidiani, è parso di fare pure un po’ di fatica, staccandoci da una comoda tavola dopo aver cenato, dalle nostre chiacchiere, dagli schermi della televisione e dei nostri cellulari. Di fronte a noi c’è un frate dai toni dolci e pacati e dal sorriso disarmante, che sta per introdurci all’inferno, un racconto dettagliato di ciò che accade in quella che, nel 2012, alle soglie del conflitto, era invece una splendida città della Siria, un luogo dove più di due milioni di persone sperimentavano una convivenza possibile tra etnie e religioni diverse. Racconta di un bambino di sette anni, colpito da una pallottola in testa mentre giocava nei pressi dell’oratorio e di quella mamma che non riesce a staccarsi dal suo lettino di pronto soccorso sino a che il cuore del suo figliolo non smette di battere. Come si fa a parlare di fede e di speranza durante il funerale, ci chiede padre Ibrahim, di fronte a tanto dolore, eppure il suo volto non smette di sorridere davanti a noi neppure per un istante.

Tuesday, September 20, 2016

JESUS ALONE

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“Sarebbe bello poter leggere il diario di Nick Cave; scorrerlo e conoscere tutti i particolari di una personalità così attiva e creativa, per scoprire il significato dei testi, incrociare le proprie impressioni con la sua realtà interiore e col suo stile, libero da schemi precostituiti”. Le prime righe della pagina iniziale del sito italiano dedicato all’autore australiano non potrebbero essere più chiare di così. Sarebbe bello, davvero. Possedere la chiave d’accesso al suo universo, scavare giù nel profondo del suo cuore, senza, per questo, esercitare alcun tipo di violenza: solo per affinità elettiva, per trovare quel terreno comune dove sono seminati i sogni, le aspirazioni, le gioie e i malesseri che ci accomunano tutti. E’ ovvio che non possa essere così. E che non debba essere questo il percorso da compiere, cercare la soluzione preconfezionata, la guida all’ascolto che ci dica in quale direzione andare e quale possa essere il risultato finale della nostra ricerca.
Il primo livello di lettura di Skeleton Tree, il nuovo album di Nick Cave, dovrebbe allora cercare innanzitutto di non scalfire solo la superficie, evitando il ricorso a facili quanto rischiose semplificazioni. Dire, ad esempio, che questo è un disco che gira intorno alla tragica perdita di Arthur, il quindicenne figlio di Cave morto nel luglio dello scorso anno, dopo essere caduto a precipizio dalle scogliere nei pressi di Brighton. O affermare che Nick, per l’ennesima volta, narra di morte e di dolore come solo lui sa fare, romantico e tormentato come uno scrittore dell’ottocento, cose, peraltro, corrette e risapute. “Sono ormai passati vent’anni – diceva Nick ancora nel 1999 – da che scrivo canzoni, e ancora ho dentro quel vuoto, ancora persiste quella inspiegabile tristezza, il duende, la saudade, l’insoddisfazione divina”. E gli anni trascorsi, adesso, sono quasi quaranta. (...)

Friday, July 29, 2016

LA SPERANZA CHE NON MUORE

All’indomani dell’attentato alle Torri Gemelli, Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, morta nel 2007 ed oggi, con un processo di beatificazione in corso, annoverata tra i Servi di Dio, ebbe a dire che il mondo, nonostante tanto dolore, stava camminando più decisamente verso l’unità. Una visione paradossale, quasi sconcertante, da parte di una delle figure più innovative della Chiesa post-conciliare, e che torna alla mente di questi tempi, in cui l’orrore ha una cadenza pressoché giornaliera e quella terza guerra mondiale “a pezzi” di cui parla il Papa sembra avere frammenti sempre più estesi, pronti a confluire gli uni negli altri. Cosa spingeva la Lubich a vedere semi di fraternità in quei giorni così drammatici, a non smettere di testimoniare una speranza? La speranza, ha detto di recente padre Pierbattista Pizzaballa, per tanti anni custode della martoriata Terra Santa, è la più piccola delle virtù cristiane, ma è anche quella che tiene unite le altre due, fede e carità. E’ la capacità di vedere, nella fede, ciò che ancora non c’è, e realizzarlo concretamente nell’amore. Questo – egli afferma – costituisce la vita di tanti testimoni, dalle prime pagine bibliche ai martiri odierni. E il cristiano non vince il male, ma agisce per costruire il bene, consapevole che il male non lo priverà mai della propria libertà. E’ ciò che è accaduto a padre Hamel, che, alla fine di un’esistenza vissuta in donazione agli altri, non è stato in grado di opporsi al male che lo ha ucciso, ma ha reso quel male, in ultima analisi, impotente, perché incapace di distruggere il suo cuore. (...) 

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Tuesday, July 26, 2016

DRUNKEN ANGEL

Mentre la macchina percorre l’autostrada, in viaggio verso Pusiano per l’atteso concerto di Lucinda Williams, il suo primo arrivo in Italia, penso che in fondo è proprio giusto che sia così. Che la mente si prepari all’ascolto delle sue canzoni lungo una striscia d’asfalto. “Il viaggiare appartiene alla mia vita – ebbe a dire una volta Lucinda – ed è qualcosa che fa parte della storia della cultura degli Stati Uniti. Woody Guthrie e Kerouac, “Highway 61 Revisited”, la route 66, Car Wheels On A Gravel Road…”. Viene in mente Mike Bryan, che nel suo libro “Uneasy Rider”, descrive quel desiderio ed insoddisfazione tipicamente americane, che fanno credere che il compimento di un’esistenza si trovi sempre dietro a una curva o in fondo a un rettilineo. E’ qualcosa che noi europei, così radicati al territorio e ad una storia bimillenaria, stentiamo talvolta a capire, ma che lo scrittore americano spiega molto bene: “viaggiando in superstrada, andavo nella stessa direzione di quella cultura, la vivevo dal di dentro, alla massima velocità e con la macchina migliore che potessi permettermi. Niente roulotte coi letti a castello e stufetta a gas, per il sottoscritto. Motel e ristoranti da camionisti dall’inizio alla fine del viaggio. Fissa la bestia negli occhi. Ama il tuo vicino di casa. Porgi l’altra guancia”. 
Viaggiare lungo le strade dell’esistenza ed appassionarsi all’umano che vi si incontra. E’ di questo che è popolata la narrazione della Williams, personaggi e storie dipinte da una cantante che ha viaggiato avanti e indietro lungo la highway 20, l’interstatale che attraversa la Louisiana, sua terra d’origine, giungendo fino ad Austin, scenario, insieme a Los Angeles, dei suoi inizi di carriera. E The Ghosts Of Highway 20 è proprio il titolo del suo ultimo disco, in cui la bellezza dei testi e della voce si armonizza con le straordinarie chitarre di Bill Frisell e Greg Leisz. Accusata di narrare troppo spesso di amori non corrisposti e di vite fallite, di morte e di dolore, Lucinda si è sempre difesa. Già all’indomani dell’uscita di West, quasi dieci anni fa, affermava: “Sono passata attraverso tanti cambiamenti - la morte di mia madre ed una relazione tumultuosa finita male - perciò è logico che vi sia dolore e lotta, ma tutto approda in uno sguardo verso il futuro. Sono stanca di sentir dire dalla gente che le mie canzoni sono tristi. C'è molto di più di tutto questo. Alcuni dovrebbero leggere Flannery O'Connor e coglierne l'aspetto oscuro, ma anche quello filosofico della vita, così come quello comico a volte. Credo che nel disco ci sia tutto questo”. Adesso che la vita di Lucinda è andata avanti, ed è morto pure il padre - il celebre poeta Miller Williams - ma è nata anche una relazione stabile e felice con Tom Overby, suo manager attuale, lo sguardo è certamente più disteso, ma forse ancora più intenso. Parlando dell’ultimo album, dice: “con questo disco sono andata ancor più in profondità. Sono le storie che ho sempre raccontato, ma che, dopo tutti questi anni, si ripresentano sotto una diversa prospettiva. Il bene non arriva mai a prosciugarsi. Tutto ciò che devi fare è allungare la mano e ripescarlo di nuovo”. (...)

Tuesday, July 05, 2016

LAND OF HOPE AND DREAMS

Stoccolma, 1981, The River Tour. C’è un disco nuovo, uscito da qualche mese, le cui canzoni hanno bisogno di essere gettate sul palco perché si sentano vive. Un doppio vinile, che ha già scalato le classifiche mondiali ed è andato a fare compagnia sullo scaffale a capolavori come Blonde On Blonde di Dylan ed Exile On Main Street dei Rolling Stones. Il disco di uno Springsteen che si sta affacciando all’età adulta e vede sbriciolarsi a poco a poco i sogni e le illusioni della sua generazione. Quel disco urla dolore e paura, ha a che fare con un insostenibile senso di perdita e smarrimento. E quella sera, come già in altre occasioni, Bruce prova a spiegare ad una folla di giovani europei, la grande menzogna della sua nazione: “In America c’è una promessa che viene sempre fatta, dalle nostre parti la chiamano American Dream, il Sogno Americano: è il diritto a vivere la vita con decoro e dignità. Ma laggiù, e in altre parti del mondo, quel sogno è riservato a pochi. Abbiamo la sensazione che per raggiungere quel diritto sia necessario essere nati nel posto giusto o pensarla tutti allo stesso modo, capite?”. Milano, stadio San Siro, 3 luglio 2016. Trentacinque anni dopo, vigilia della festa dell’indipendenza americana, ed è di nuovo River Tour, iniziato negli States e sbarcato un’altra volta anche in Europa. Il nuovo album da promuovere è The Ties That Bind, che poi è ancora quel vecchio disco, ma arricchito delle outtakes provenienti dalle sessions di registrazione ai Power Station, gli studi sulla 53ema ovest di New York dove Springsteen e la E Street band avevano inciso ben novanta pezzi. Quel senso di perdita, ormai, è stato raccontato in mille modi e le risposte soffiano nel vento da parecchi anni. E forse anche l’ultrasessantenne Bruce potrebbe avere poco da dire, con mille canzoni alle spalle e uno spettacolo di rock’n’roll che rischia di aver perso molto della sua originalità. Eppure, chi s’incammina verso lo stadio, questa sera, ha bisogno ancora di qualcuno che forse non avrà risposte, ma sarà in grado di formulare di nuovo le domande giuste, alla ricerca di quella reason to believe, che rimane inesorabilmente all’origine di ogni viaggio. Sono giovani e vecchi, padri e figli che vanno al concerto insieme – perché quella che cammina, anche per il Boss, non è più solo la my generation degli anni andati – e che hanno negli occhi l’incertezza del presente, minato dalla paura e dai nazionalismi senza cuore, dal dolore dei morti e dei feriti dell’ennesimo ignobile e crudele attentato. Sono adulti e ragazzi che hanno voglia di gettare il loro dramma in un pugno di nuove e vecchie canzoni. Quelle che, ancora una volta, narreranno di strade ed automobili, di amori perduti, di desideri e felicità disattese, di vite sospese in precari equilibri, ma anche di nuove ed insperate risalite. E poi, certamente, persone che vogliono anche vivere un festoso, irrefrenabile momento di rock’n’roll. Quel rock’n’roll che “deve parlare delle durezze della vita” – come aveva detto Springsteen – ma che “rappresenta sempre la felicità, un tipo di gioia che è l’elemento più bello dell’esistenza” (...)

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Wednesday, May 18, 2016

PLAY FUCKIN' SLOW!

Nella sua biografia del cantante americano, Anthony Scaduto racconta di un giovane Bob Dylan che, tra il 1959 e il 1961, si ritrova spesso a casa dei coniugi Gleason, un appartamento ad East Orange, New Jersey, dove, nel weekend, trova ospitalità Woody Guthrie, il celebre folksinger, ormai gravemente colpito dalla corea di Huntington, che lo costringe ad una prolungata degenza in ospedale nel resto della settimana. "Si era stabilito un legame - racconta Scaduto - tra il morente, creatore della musica popolare moderna e il ragazzo che lo ammirava, e che presto lo avrebbe superato". "Viene oggi il ragazzo?", chiedeva continuamente Guthrie, finché un giorno quel ragazzo non gli aveva cantato la sua Song To Woody, entrando definitivamente nel suo cuore. Scrive ancora Scaduto che Woody, rivolgendosi agli amici che erano soliti frequentare la casa, avrebbe detto: “Quel ragazzo ha una gran voce. Forse non andrà molto lontano con le canzoni che scrive, ma canta come nessuno". Ed aggiunto: "Pete Seeger è un cantante di canzoni popolari. Jack Elliott è un altro cantante di canzoni popolari. Ma Bob Dylan è un cantante popolare. Lui è un vero folksinger". 
A distanza di tanti anni e concordando che su una cosa Guthrie si sbagliava, ossia che quel ragazzo, con le sue canzoni, di strada ne avrebbe fatta parecchia, si potrebbe partire da quelle frasi per provare ad entrare nel misterioso e affascinante universo di Bob Dylan, alla vigilia dell’uscita di un nuovo disco che segue, ad appena un anno di distanza, Shadows In The Night. Il 20 maggio sarà disponibile, infatti, Fallen Angels, un album, come il precedente, interamente composto da celebri standard americani, molti dei quali incisi da Frank Sinatra nel corso della sua lunga carriera. Non si tratta, come sentito dire in precedenza, di registrazioni ricavate dalle sessions del disco precedente, ma di nuove incisioni, esecuzioni di Dylan insieme alla band con cui è stabilmente in tour da diversi anni, effettuate nello scorso febbraio nei Capitol Studios di Hollywood, lo stesso luogo dove Sinatra aveva registrato in passato. Per la seconda volta nella sua carriera, dopo l’episodio di Good As I Been To You e World Gone Wrong, lavori dei primi anni novanta, Dylan pubblica due album consecutivi di canzoni scritte da altri, lui che rappresenta forse l’autore più prolifico ed originale in assoluto nella storia della musica moderna. Colpa di una vena compositiva che, all’età di 75 anni, si è inesorabilmente affievolita o c’è qualcosa in più, che sfugge agli osservatori superficiali? “Bob Dylan è un cantante popolare, lui è un vero folksinger”, aveva detto Woody Guthrie: non sarà questo, forse, che è sempre accaduto, anche quando Bob incendiava il palco chiedendo ai suoi musicisti di suonare “fuckin’ loud” – “fottutamente forte” - Like A Rolling Stone, quella che la rivista Rolling Stone definì la più grande canzone di tutti i tempi?  

Thursday, March 31, 2016

THE DELIVERANCE OF DAN

Chissà se è vero che Marlowe Billings è scappato da un reparto di psichiatria di qualche ospedale di New York, per finire nel Messico del sud, terra di confine con quei paesi del centro America in balia di narcotrafficanti e spesso dilaniati da sanguinose guerre civili. Quel che è certo è che in passato il suo alter ego Dan Stuart non apparve secondo a nessuno in quanto ad abusi alcoolici o ad eccessi di follia. Ed è un dato di fatto che in quel di Oaxaca la mente tormentata di Marlowe abbia finalmente trovato un luogo in cui riposare. Anni di sofferenza per Dan, lontani dalla musica dopo la fine, nel 1992, dei Green On Red, capitolo di quel romanzo, etichettato un po’ impropriamente “Paisley Underground”, che infiammò la musica a stelle e strisce degli anni ottanta, miscelando punk e psichedelia con le radici country e rock’n’roll. Certo, c’era stata un’improvvisa reunion del gruppo, un concerto a Londra nel 2006, omaggio allo scomparso batterista della band, Alex MacNicol. Ed era stato affascinante rivedere insieme il gruppo, tornato sulla scena per onorare l’impegno di un concerto disatteso, quello show cancellato nel 1987, nel corso di un tour europeo interrotto a metà strada per l’incapacità manifesta di Dan Stuart a reggere la scena. Ma dopo quel concerto non si era visto più nulla, fatto salvo, se vogliamo, il secondo episodio Danny & Dusty – con il disco Cast Iron Soul, uscito nel 2007 - decisamente meno emozionante del primo e mai dimenticato The Lost Weekend, del 1985.
Poi, come d’incanto, Dan era tornato. Meno alcool, forse, una mente più lucida e distesa, i capelli grigi sul capo che dicono che tanto dolore si è stemperato nel tempo. E la musica, beh quella non era mai andata via. Merito anche dei Sacri Cuori, certamente, ottima band romagnola guidata da Antonio Gramentieri, che sembrava essere uscita da quell'America di trent'anni prima e che aveva incrociato il proprio destino col suo. Un nuovo disco, nel 2012, ed un libro, stesso titolo per entrambi – The Deliverance Of Marlowe Billings – a dire che forse Dan era stato finalmente liberato. E poi di nuovo un pugno di concerti, qua e là dove capita, dove c’è ancora qualcuno che non si è dimenticato di te. (...)

Saturday, March 26, 2016

PASSO D'UOMO

Canta Mondo Politico, Francesco De Gregori – la sua rilettura di Political World di Bob Dylan – ed in un istante passano davanti agli occhi i fotogrammi del recente attentato di Bruxelles: “Viviamo in un mondo politico / benvenuta non è la pace / che se ne va a bruciarsi viva / nell’esplosione di una fornace”. E riesce difficile non ritornare con il pensiero anche al Bataclan, rinchiusi come siamo dentro l’Alcatraz - il noto locale milanese meta di tanti concerti - la mente ed il corpo solo apparentemente distesi tra un bicchiere di birra e la magia di mille canzoni. Siamo qui per la musica e per la nostra gioia, eppure il cuore resta turbato dalla stessa domanda senza risposta, quella gridata a Dio fin dai tempi di Giobbe: cosa centra questo dolore col nostro desiderio di felicità? Qual è il suo imperscrutabile significato?
Francesco De Gregori è tornato a Milano, col suo fagotto di canzoni, questa volta frutto di amore e furto, come recita il titolo del suo ultimo disco, un lavoro di paziente traduzione di undici canzoni di Bob Dylan, brillantemente arrangiate in maniera simile a quelle dei dischi originali dell’artista americano. Tutta la prima parte dei concerti del suo tour di quest’anno è invariabilmente composta da otto canzoni del disco, al punto che Francesco saluta inizialmente il suo pubblico dicendo “benvenuti a questo concerto in onore di Bob Dylan”. Viene in mente quella sera del 1992, al Madison Square Garden di New York, in cui molti tra i migliori musicisti rock si erano dati appuntamento per celebrare il trentesimo anniversario dall’uscita del suo primo disco, e lui, Dylan, li aveva spiazzati tutti. Uscito sul palco alla fine, solo e con la chitarra acustica a tracolla, aveva scelto Song To Woody, il brano dedicato al maestro Woody Guthrie, colui di cui aveva sempre conservato una paternità nel cuore. I riflettori puntati su di sé, Dylan aveva ancora una volta proseguito dritto per la sua strada. Francesco De Gregori non sembra, in questo momento, compiere un’operazione molto diversa. Certo, c’è da promuovere un disco appena uscito, ma anche per lui è difficile nascondere dove lo porta il proprio cuore. E che la sua musica sia stata da sempre influenzata da quella dell’artista americano non è un mistero per nessuno, con lo stesso Francesco ad affermare di non aver “mai teorizzato l’originalità a tutti i costi”, poiché “niente nasce da niente” (...) 

Wednesday, February 10, 2016

YOU ASK ME TO BELIEVE IN MAGIC. LA SAGA DEI RUNRIG

E’ una splendida mattina, quella del 1 febbraio 2003 sui cieli del Texas, e lo Space Shuttle Columbia sta tornando a casa col suo equipaggio, dopo un viaggio durato quindici giorni. Laurel Clark ha appena mandato una mail al marito e al figlioletto di otto anni: “non sono mai stata così fortunata – scrive – ho visto l’aurora australe e, ad ogni orbita, una porzione diversa della terra; dovunque la si guardi è magnifica ed anche le stelle hanno una luce speciale”. Quella mattina Laurel ha messo nel computer dell’astronave un disco dei Runrig, conosciuti durante un soggiorno in Scozia con la marina militare americana e da allora mai più abbandonati. Ogni astronauta ha portato con sé la sua musica ed oggi tocca a Laurel scegliere il brano con cui svegliare i compagni di viaggio. E’ felice ed ha promesso che quando tornerà a casa manderà ai membri del gruppo una sua foto a bordo dello Shuttle con in mano il loro nuovo disco. Ma il sole di quel giorno è destinato ad oscurarsi presto all’orizzonte. L’astronave non resiste all’impatto con l’atmosfera e dell’equipaggio a bordo non resterà più traccia. I detriti dello Shuttle si sparpagliano lungo un’area di duemila miglia, infiniti frammenti irriconoscibili, salvo un oggetto, che verrà recuperato intatto una settimana dopo. E’ l’ultimo disco dei Runrig - The Stamping Ground - che Laurel aveva portato con sé. La canzone, ascoltata quel mattino, è Running To The Light: “Solo coloro che scorgono la grandezza nelle piccole cose sono degni di ciò che è semplice / essi sono felici e svaniranno correndo verso la luce”.
Nel nuovo disco dei Runrig – The Story – uscito il 29 gennaio e che i musicisti hanno annunciato come l’ultimo album che la band inciderà in studio, il brano finale, Somewhere, è dedicato proprio a Laurel. Un brano epico, che, sul finale in dissolvenza, porta inciso un breve dialogo radio dell’astronauta con la base terra. Pare davvero l’epitaffio posto a sigillo della storia più che quarantennale di questa straordinaria band, che ha saputo coniugare nel rock la musica tradizionale scozzese. “Siamo nati in qualche posto, da qualche parte abbiamo pianto – recitano i versi della canzone – negli spazi del tempo, in quest’orbita di meraviglia e di stupore. Viviamo, moriamo, e la luna e le stelle continueranno a brillare, quando il nostro tempo sarà andato” (...) 

Thursday, December 24, 2015

PEOPLE HAVE THE POWER

Nello splendido Hard To Handle, il brillante film di Gillian Armstrong che documenta l'avvio del tour di Bob Dylan con Tom Petty & The Heartbreakres del 1986, alla fine di una Knockin' On Heaven's Door letteralmente da brividi, Dylan raccoglie dal palco una rosa per porgerla ad una delle coriste prima di uscire di scena. Sui palcoscenici di certi shows, specie quelli americani, accadeva che a volte volasse di tutto, dalle scarpe alle cose più bizzarre. Ma era ben raro che Dylan, spesso tacciato d'essere poco o per nulla comunicativo col pubblico, si chinasse a raccattare uno qualsiasi di quegli oggetti, disposto a far sì che diventassero un tramite tra sé e gli altri, sorta di transfert più intenso con la gente sotto il palco. Era successo, però, che l'avesse fatto, un'altra volta almeno. Nel 1978, al termine di un tour attraverso Giappone, Australia, Europa ed America, con una ricca band ed un disco - Street Legal - nuovo di zecca, Dylan, a metà novembre, canta a San Diego, con un mese di concerti ancora davanti a sé. Non si sente troppo bene ed è convinto che anche gli altri se ne siano accorti. Qualcuno, da sotto, butta un crocifisso d'argento sul palco e lui lo raccoglie da terra. Sono gesti che di solito non fa, ma quella volta se lo mette in tasca, per portarlo con sé, fino al concerto successivo, in Arizona, dove si sente ancora peggio del giorno prima. "Ho bisogno di qualcosa", dice a se stesso, ma non sa cosa. Non lo sa perché ha già provato e conosciuto di tutto ed ora prova il bisogno di qualcosa di nuovo, mai conosciuto prima: "mi guardai in tasca e trovai quel crocifisso". (...) 

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Saturday, October 17, 2015

IL CIELO D'IRLANDA


Ho un’amica che è convinta che la magia d’Irlanda abiti tutta nel suo cielo. Qualcosa d’indescrivibile a parole, che colora le scogliere e le colline coperte dall’erica in fiore. Probabilmente è davvero così, anche se i miei occhi scettici mi fanno pensare a quei paesaggi del nord come avvolti dalle nuvole e bagnati dalla pioggia, che solo ogni tanto lascia spazio a qualche squarcio d’azzurro e di sereno. E Milano, questa sera, non mi appare neppure così diversa, umida e fredda in quest’inizio d’autunno che, per giunta, non l’ha neppure colorata, lasciandola ancora una volta immobile nel suo perenne grigiore. Solo il traffico non smette mai di dimostrare tutta la sua nevrotica vitalità, ma questa è l’unica cosa, capace di rinnovarsi ogni giorno, che perderei volentieri in un istante. Alcatraz, noto locale milanese, è un’isola, allora, dove approdare felicemente, tanto più che sul palco, appena entrati dentro, campeggia la grancassa di una batteria, dove sta scritto che “Save a soul” – salvare un’anima – è la “mission” del giorno. Un’anima, anche una sola, in mezzo alla folla di gente che, poco a poco, riempie il luogo dove assistere al nuovo ritorno di Glen Hansard in concerto. Un’anima sola è sufficiente, così come un singolo spicchio di cielo può bastare a rasserenare mille giornate piene di affanni (...)

Sunday, September 06, 2015

PIETRE VIVE

Bet Sahur, periferia di Betlemme. La casa di Nasir è l’ultima in fondo, là dove finisce la strada sterrata. Si distingue per la struttura ed il colore scuro, che le donano un tocco di eleganza in più rispetto alle abitazioni circostanti. Dopo la laurea in architettura conseguita in Italia, Nasir ha fatto ritorno dalla moglie e dai figli, in quella terra distribuita sulla carta geografica a macchia di leopardo, chiamata Palestina o territori, a seconda del punto di vista dal quale ci si metta a guardarla. Mi scopro ad osservarlo stupito, mentre passa sorridente da un tavolo all’altro a distribuire il cibo. Quasi cinquanta amici tra adulti, ragazzi e bambini, ospiti a cena a casa di una famiglia cristiana palestinese, e sentirsi a proprio agio come se ti avessero accolto i tuoi genitori. Noi che, prima di invitare un paio di persone, guardiamo sul calendario se è il giorno giusto, perché siamo pieni d’impegni e torniamo sempre troppo stanchi dal lavoro.
Per arrivare qui abbiamo dovuto attraversare il check point israeliano, ma per noi occidentali è stata questione di pochi istanti. Lui, Nasir, quella frontiera non può oltrepassarla quasi mai; la sua auto targata a caratteri verdi su sfondo bianco è come un passaporto palestinese, senza visto per andare in territorio d’Israele. Quasi una prigione a cielo aperto, Betlemme. Non come la striscia di Gaza, ma dall’orizzonte reso oscuro dalla presenza del muro, costruito per separarla da Gerusalemme. Una barriera creata come reazione di difesa da parte di uno stato che ha subito la perdita di un migliaio di civili, vittime dei terroristi che, durante la Seconda Intifada, partivano da qui per compiere attentati nella città santa. Ma il muro, che è riuscito ad interrompere la sequela delle stragi, non ha fatto altro che alimentare ancor di più l’odio reciproco. Prima di arrivare a casa di Nasir, mi ero preso un po’ di tempo per passeggiarci intorno: un serpente di cemento, lungo e spettrale, chiuso in alto da chilometri di filo spinato e coperto quasi ovunque da disegni e graffiti; in fondo ad una strada c’è persino una palazzina che è stata circondata sui tre lati, e le cui finestre del piano superiore, più alte del muro, hanno le tapparelle perennemente abbassate, dato che la legge proibisce la presenza di punti di osservazione verso Israele. Poco lontano da qui una scritta recita in inglese: “questo muro può curare il presente, ma non ha futuro”. Un’altra, in italiano, è posta vicino all’immagine di una colomba della pace: “la velocità è il tempo dell’odio, la lentezza è il tempo dell’amore”. Impara da subito a non giudicare, sembra suggerire, davanti ad un conflitto tra ebrei e palestinesi che dura ormai da un secolo ed appare incomprensibile ai più. Prendi su di te il tempo dell’amore di Dio, che non conosce confini. (....)

Saturday, July 25, 2015

CANZONI PER VOLARE



Sembra felice, Stefano Barotti. Lo incontro sul lungomare di Laigueglia, borgo della riviera ligure di ponente annoverato tra i più belli d’Italia, poco prima del suo showcase, in cui presenterà alcuni brani tratti dal suo nuovo disco, Pensieri Verticali. Una performance, quella a cui assisteremo, di una trentina di minuti in tutto, decisamente troppo pochi, non solo per chi ha già imparato ad amare le sue canzoni, ma anche per chi ancora non conosce le sue grandi qualità di musicista e cantautore. In un tardo pomeriggio assolato, è seduto accanto a me, il tavolino di un bar all’aperto a fare da backstage, ed ha appena percorso più di duecento chilometri, per arrivare fin qui dalla sua Toscana. Ha un viso dolce e niente affatto stanco: “Cosa vuoi che siano per un musicista due ore e mezza di strada - scherza, mentre sorseggia un buon bicchiere di vino – praticamente come andare a suonare dietro casa”. Racconta qualcosa di sé, del disco che sembra andare bene, dei prossimi concerti: “non molti – il volto si schiude in un sorriso che la barba non riesce a smorzare - perché tra poco divento babbo e allora devo stare fermo per forza per un po’…”.