Monday, November 24, 2014

IL PRESEPE DI ENNIO


Erano andati da Ennio in un bel pomeriggio di sole. Una di quelle giornate che il mese di ottobre aveva rubato all’estate, dandole in cambio la pioggia di cui, per una volta, l’autunno aveva deciso di disfarsi. Avevano parcheggiato l’auto giù in cortile ed erano saliti in casa, dove lui li aspettava. I pacchi erano già tutti sistemati e catalogati con cura, pronti per essere portati via perché il loro contenuto potesse riprendere vita altrove. Per tanti anni il presepe aveva abbellito la casa di Ennio, quando era Natale. Piccole casette, steccati, giardini e vialetti con la neve. C’era anche uno splendido Babbo Natale e persino una piccola montagna con gli sciatori. Lui aveva sempre pensato che non l’avrebbe mai dato via ad una persona qualunque. A chi fosse capitato, per così dire, alla prima occasione. Aveva aspettato che arrivasse la persona giusta. Così, qualche giorno prima, aveva chiesto a lei se voleva portarselo a casa. Lei che lo aveva sempre assistito, con impegno e con amore. Quello che metteva sempre, peraltro, nel suo lavoro d’ospedale di ogni giorno, nonostante quel clima perenne di nervosismo e scontatezza che, troppo spesso, non faceva cogliere più a nessuno quanto l’eroico potesse diventare quotidiano. Ma talvolta non era così: capitava ci fosse chi sapeva apprezzare fatica e dedizione. Chi non rimanesse indifferente di fronte a ciò che sapeva di amore e di passione. Ed Ennio era uno di questi.

Li aveva accolti, in casa, con una calorosa stretta di mano. Il volto scavato dalla malattia, che ormai si stava prendendo tutto il suo corpo. Ma il sorriso, quello, il tumore non se l’era ancora portato via. E c’era da scommettere che non ci sarebbe mai riuscito. I suoi gesti e le parole, in quei pochi minuti che avevano trascorso insieme, erano come raggi di luce che trapassavano la stanza. Persino il cagnolino sembrava rendersene conto, in quel suo allegro scorrazzare da un angolo all’altro della casa. Ennio raccontava di quel plastico e dei suoi pezzi, costruiti con pazienza un po’ alla volta, lungo il corso degli anni. Ed ora era lì, come a cercare di trasmettere tutto il desiderio di bellezza scritto nel suo cuore, vestito a forma di casette, personaggi, fili e lampadine. Poi erano scesi ed avevano caricato l’auto, così zeppa che non ci sarebbe stato più neanche il sacchetto del pane; avevano salutato e ringraziato Ennio e sua moglie, semplicemente e senza tanti giri di parole, e si erano rimessi in viaggio.

Sulla via del ritorno avevano percorso strade secondarie, attraversando vecchi quartieri che a Milano pensavano non esistessero più. Avevano parlato ancora di lui e della preziosità del vivere bene ogni istante, che invece questa città, folle e frenetica, sembra volerci portare sempre via. Poi, arrivati a casa, avevano scaricato con cura ogni pacco ed avevano riposto tutto in solaio. Lui aveva cercato uno spazio per tutta quella roba, come si cerca il luogo adatto per qualcosa di prezioso. Ma non vedeva l’ora di riportare giù gli scatoloni. Era ancora un po’ presto per addobbare la casa per Natale, ma quest’anno non avrebbe aspettato a lungo per allestire il presepe. Che poi la cosa buffa è che sembrava che, in tutto quel bendidio, mancasse solo la stalla con la statuetta di Gesù. Ma quel che non mancava, ne era certo, era tutto l’amore con cui ogni frammento era stato pensato e costruito. Quello non sarebbe mai passato inosservato, neppure allo sguardo più disattento. L’amore di Ennio era la sostanza di tutto, la corrente che passava attraverso il filo di rame di ogni cavo, la colla che teneva assieme ogni pezzetto di plastica e di legno. Così il Natale di quell’anno, in casa, avrebbero ricostruito tutto con cura, perché niente rischiasse d’andare perduto. Poi, alla fine, insieme alla Madonna, a San Giuseppe ed ai pastori, avrebbero messo anche la statuetta di Gesù, il figlio di Dio che era arrivato, a dare significato a tutto quell’amore, perché Lui era l’Amore. C’era un tempo per tutte le cose, pensavano in famiglia, di fronte ai pezzi del presepe, rimessi ancora una volta tutti insieme. E Gesù, che rinasceva ancora una volta per ogni uomo, era arrivato in quel presepe proprio adesso. Ora che Ennio, che stava per entrare nella casa del Padre, era finalmente pronto ad abbracciarlo.


Tuesday, October 28, 2014

GLI OCCHI DI CATERINA E DI SIMONE

Gli occhi di Caterina corrono su e giù per l’oratorio. Sfrecciano da un angolo all’altro, inseguono ogni cosa con curiosità e stupore. Dall’alto delle spalle del papà, sanno cogliere il particolare di ogni istante, quel frammento nel quale è sempre contenuto il tutto. Gli occhi di Caterina ogni tanto incrociano quelli di Simone. Occhi diversi, eppure con lo stesso sguardo. Quello che racconta del desiderio di Amore e Bellezza scolpito da sempre nel loro cuore (...)

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Thursday, April 17, 2014

OCCHI DI PASQUA

Erano passati anni. Ed era vecchio e stanco, ormai. Eppure ricordava tutto perfettamente, come fosse accaduto pochi istanti prima. Era corso lassù, quel giorno, senza sapere neppure il perché. Qualcosa l'aveva misteriosamente attratto in quel punto, lungo il sentiero. E sì che non era neppure una novità, quel che stava accadendo. Ogni giorno i romani ne ammazzavano qualcuno. Ladri, assassini o semplici oppositori del regime. Avevano inventato quel sistema così barbaro per uccidere la persone - crocifissione, l'avevano chiamato -  che proprio loro, i depositari della legge, gli uomini dotti e sapienti, sembravano i più barbari di tutti, peggio degli animali. Ma tra la gente si mormorava: quell'uomo che stava salendo il Calvario, Gesù di Nazareth, non era passato inosservato. Non che gliene importasse granché a lui, Simone di Cirene, che non aveva mai conosciuto nessuno dei suoi discepoli o di quelli che lo avevano visto o sentito parlare. Ma per qualche strana ragione ora si trovava lì, nel punto del suo passaggio, tra due corridoi di folla che i soldati romani tenevano a bada a forza di pugni, calci e minacce di spada. Poi Gesù era caduto per terra proprio davanti ai suoi occhi, stremato dalla fatica. Ed uno dei soldati aveva tirato proprio lui, Simone, per un braccio e gli aveva intimato di caricarsi la croce sulla spalle. Non aveva neppure provato a farsi da parte e scappare: c'era poco da scherzare con quella gente. Solo, aveva sperato che il suo supplizio durasse un tratto di strada il più breve possibile. Ma in quei pochi istanti aveva incrociato gli occhi di Gesù. Ed era stato come un raggio di luce che era entrato diritto nelle crepe del suo cuore. Quegli occhi erano pieni di strazio, di angoscia e di timore, di sangue e di sudore. Eppure non c'era un barlume di rabbia o di dubbio. L'uomo si era trascinato con lui, carponi, finché i soldati gli avevano tolto la croce di dosso per rigettarla di nuovo su Gesù. Era rimasto lì come impietrito, in mezzo al sentiero, poi, lentamente aveva ripreso a salire, anche lui verso la cima del Calvario. 
Era stato lì tutto il tempo, insieme a pochi altri curiosi e a Maria e Giovanni, la madre e l'amico di quell'uomo. Tutto il tempo di quella folle e atroce crocifissione, e il tempo per udire quel grido assurdo. Colui che dice d'essere il figlio di Dio che urla a gran voce "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Poi non ce l'aveva fatta più. Era davvero troppo ed aveva cominciato a correre giù dal Golgota. Una corsa a perdifiato, i polmoni che scoppiavano, il cuore che batteva nel petto all'impazzata. Era arrivato a Gerusalemme alle tre del pomeriggio e all'improvviso il sole si era oscurato all'orizzonte. Buio in città, buio dappertutto. E il centurione che gli era arrivato quasi addosso, correndo anche lui, sconvolto dopo aver visto il velo del tempio squarciato. "Davvero costui era il figlio di Dio!", gli aveva gridato come un pazzo. 
Poi, seduto in un angolo, aveva incontrato quell'uomo di nome Barabba. Sedeva tranquillo, sembrava l'avesse aspettato da sempre. "Anche tu hai incrociato gli occhi di quell'uomo?", gli aveva chiesto. "So cosa significa, é capitato anche a me". E gli aveva raccontato a lungo di quegli occhi visti anche da lui per un solo istante dopo la scelta della folla alla domanda di Pilato. Occhi sudati e insanguinati, occhi impauriti. Ma occhi ricolmi di un amore infinito. E che non aveva dimenticato mai più.

Adesso, anni ed anni dopo, vedeva con tenerezza tutto il cammino percorso fino a lì. L'incontro con Pietro e Giovanni, che erano corsi quella mattina al sepolcro, il racconto dei discepoli di Gesù risorto e vivo in mezzo a loro. L'amicizia con Barabba e con quel centurione, che si era consolidata poco a poco. E la vita, quotidiana, che si era snocciolata istante dopo istante, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Era stato un bel vivere, pur in mezzo alle incertezze ed agli affanni. Una vita di comunione, con Gesù ancora vivo in mezzo a loro, come aveva promesso a quelli che si sarebbero uniti nel Suo nome. 
In cuore, Simone aveva conservato sempre quello sguardo di Gesù, quegli occhi di Pasqua incrociati un giorno sul calvario. Quegli occhi avevano colorato per sempre la domanda e la strada del suo cuore, che ora era colmo di una gratitudine senza fine. E la sua vita, che stava per finire, era stata, da lì, in poi, una meravigliosa avventura insieme a tutti quelli che l'avevano condivisa con lui. 
Una compagnia di uomini in cammino, che Gesù aveva chiamato Chiesa.




Sunday, April 06, 2014

DI GREGOIRE E DEI SUOI MATTI DA SLEGARE. E DELL'INDIFFERENZA.



Grégoire interrompe il suo racconto e si alza di scatto, cogliendo tutti di sorpresa. Solleva lo zaino, estrae una catena e se la mette al collo, per riprendere poi a parlare, tenendola stretta e tirata. E' un modo efficace per far comprendere meglio a chi ascolta, comodamente seduto di fronte, la realtà di cui sta raccontando dall'inizio della serata: quella delle persone affette da disturbi psichici e trattate nei paesi dell'Africa Occidentale con l'abbandono o l'incatenamento a vita, perché ritenute colpite da stregoneria. E' la sera di domenica 9 marzo ed un teatro milanese ospita un incontro con Grégoire Ahongbonon, responsabile dell'Association Saint Camille de Lellis. Uno sguardo profondo e intenso accompagna le sue parole: occhi che trasmettono dolcezza e, allo stesso tempo, una forza d'immense proporzioni. Lo spessore di un uomo che, dopo aver ritrovato Dio, comprende che "ogni cristiano deve posare una pietra per costruire la Chiesa".
 
Grégoire nasce nel 1953 in Benin, da genitori contadini che lo educano nella fede cattolica. Nel 1971 emigra in Costa d'Avorio; lavora come riparatore di gomme e, poco a poco, giunge ad un discreto benessere. Si allontana da Dio e dalla chiesa, poi, verso la fine del decennio, alcune disavventure economiche lo portano al fallimento e sull'orlo del baratro. Pensa seriamente al suicidio ma, per una serie di circostanze, compie un pellegrinaggio a Gerusalemme, tornando a casa con una fede riabbracciata. Gira per le strade di Bouaké, la sua città, con questo cuore nuovo e, a quel punto, vede ciò che lo circonda. Si accorge di persone che girano nude, a caccia di qualcosa da mangiare, uomini e donne abbandonati dalle famiglie perché malati di mente: i "dimenticati dei dimenticati". Grégoire vede in loro Gesù ed inizia ad aiutarli come può. Porta da mangiare, trascorre con loro le notti, ma si rende conto che non é abbastanza e si dà da fare, finché riesce ad ottenere di gestire un centro dove accogliere queste persone. Comincia a girare per i villaggi del suo paese e scopre una realtà raccapricciante: molti malati mentali vengono incatenati dalle famiglie, bloccati "come Gesù sulla croce" anche per anni, finché la morte non abbia il sopravvento. Il primo incontro di Grégoire con questa realtà é sconvolgente e da quel giorno non si dà tregua, per riuscire a liberare dai ceppi quanta più gente possibile. Oggi i centri gestiti dalla sua associazione sono cresciuti di numero, operando in Costa d'Avorio, Benin e, prossimamente, anche in Togo.
E' un racconto dettagliato, quello a cui si assiste, difficile da descrivere in poche righe. "Come fate ad andare avanti ed a trovare le risorse di cui avete bisogno?", viene chiesto da uno dei presenti alla fine dell'incontro. "Non sono io che faccio funzionare i centri!" - risponde Grégoire, con tono fermo e deciso - vi ricordate cosa ho detto all'inizio? Io sono un gommista! Avevo i soldi, ma Dio mi ha spogliato di tutto, prima di permettermi di cominciare questa storia. Dunque non sono io, né il mio denaro, che ha avviato tutto questo. Ora abbiamo più di 1350 malati in questi centri, ma chi si occupa di questi poveri e se ne occuperà sempre é la Provvidenza, che opera incessantemente attraverso gli uomini".
 
Si esce dall'incontro come trafitti. Una ferita provocata da una realtà sconosciuta a molti e per questo ancor più dolorosa, ma risanata dallo sguardo di Grégoire, un uomo innamorato di Gesù. Rimane in cuore solo un rammarico. Perché la gente non accorre mai sufficientemente numerosa ad incontri come questo, preferendo le comodità di casa propria? Forse perché la malattia dei tempi moderni, quelli della grande comunicazione di massa, dove viviamo come sconosciuti, pur in mezzo a mille messaggi su telefonini, twitter o facebook, è quella dell'indifferenza. L'ha spiegato bene, lo stesso Grégoire: "Qual é la tentazione che ci allontana da Dio oggi? Satana, che é venuto a seminare l'indifferenza nei nostri cuori. Siamo diventati indifferenti gli uni verso gli altri e non vediamo più la sofferenza di chi ci é accanto. Ma l'unico cammino per la nostra felicità e santità é questo: ama Dio con tutto il tuo cuore e il tuo prossimo come te stesso". Non c'è giudizio, né condanna nei suoi occhi, mentre pronuncia queste parole, anche se é un richiamo forte, che scuote la coscienza di tutti i presenti e rende difficile prendere sonno, una volta ritornati a casa. Ma siamo tutti in cammino e rincuora, al mattino, ricominciare cercando di mutare lo sguardo verso chi ci passa accanto nel momento presente. Vivere l'uno accanto all'altro. Per riscoprire l'io, il fratello e Dio.
 

Tuesday, March 04, 2014

TOCCATO DA UNO SGUARDO

Estate 2013, una famosa località del litorale italiano. Un gruppo di amici mi propone di assistere al nuovo spettacolo di Pietro Sarubbi, “Il mio nome è Pietro” ed a portarci, per giunta, tutta la famiglia. Si va tutti a teatro, questa sera, dai dieci ai cinquant’anni. “Ma sei sicura?”, chiedo timoroso a mia moglie. “Stai tranquillo – mi risponde – vedrai che sarà bello anche per i nostri figli!”. Mi fido, si va. E faccio bene, perché, oltre a passare una splendida serata, scoprirò con sorpresa l’esperienza di un attore, che ha visto la sua vita trasformata dalla partecipazione al film “The Passion” di Mel Gibson. Una vicenda che approfondirò meglio in seguito, leggendo il suo libro “Avrei voluto fare san Pietro, ma sono nato Barabba”, in cui viene brillantemente scritta la storia della sua conversione. 

Domenica 2 febbraio 2014, un teatro milanese. E’ l’occasione per un nuovo incontro con il nostro attore, invitato questa volta a raccontare dal vivo la propria esperienza personale. Sarubbi inizia a parlare, strappando subito più di un sorriso con la propria simpatia. Narra di un’infanzia poco serena, di un carattere esuberante e trasgressivo, della difficoltà a relazionarsi con gli altri. A dodici anni scappa di casa con una ragazzina che fa parte di un circo; sta via qualche mese, lo ritrovano e lui scappa di nuovo. A quattordici finisce dai salesiani, dove i seminaristi vivono accanto a ragazzi accolti in una sorta di comunità di recupero, ma lui continua a compiere gesti che sanno di ribellione e voglia di libertà: “Mi piaceva bruciare le tende o spaccare le vetrate, che da un piccolo gesto nascesse un grande effetto”. Ma, invece di essere punito, ottiene dal suo tutore, don Luigi, un amore inatteso: “da una parte egli smorzava la mia aggressività e dall’altra mi faceva scoprire una tenerezza che mi spiazzava: ma come - mi dicevo - più faccio il cattivo, più questo mi vuole bene?”. In quel piccolo istituto c’è un teatro e Pietro scopre una passione. Studia da attore e, un po’ alla volta, si fa strada. Ma al centro c’è sempre il desiderio del suo cuore: “Ognuno ha un cuore che cerca la bellezza. Ci sono cuori più semplici che si accontentano e cuori complicati che non è semplice fare felici. Ed in questo cercare, io ho fatto tanti errori, girando il mondo. Ma, crescendo, aumentava la consapevolezza di non trovare la risposta”. Continua a recitare, diventa famoso e intanto cerca di “addormentare il disagio”. Beve, passa da una ragazza all’altra, finché, un giorno, ne incontra una che decide di rimanere al suo fianco e gli dona tre figli. Pietro ha quarant’anni e prova a rimettersi in gioco. Parte per gli Stati Uniti, si fa notare, recita in film famosi, finché, un giorno, Mel Gibson lo chiama per prendere parte a “The Passion”. E’ ambizioso, vuol sapere che personaggio deve fare, ma il regista lo tiene sulle spine. Capisce che si tratta di un film sugli apostoli ed é convinto che gli verrà affidata la parte di Pietro, ma scopre che dovrà svolgere invece il ruolo di Barabba. Rimane deluso: si sente sottovalutato perché deve recitare un personaggio che nel film non dice neanche una battuta. Ma la risposta di Gibson lo sorprende: "che differenza credi ci sia tra Barabba che non parla e Pilato che parla dieci minuti in aramaico? Quello che il pubblico capirà é quello che passerà dagli occhi di Gesù ai vostri occhi". E’ in quel momento che decide di fidarsi e di seguire le indicazioni del regista, persino quella bizzarra di non incrociare mai lo sguardo dell'attore che impersona Gesù, fino al momento in cui, nel film, Barabba guarderà davvero negli occhi del Signore. E lì accade qualcosa di speciale: "Sono colpito dalla profondità del suo sguardo. Mi aspettavo dolore, rabbia, delusione, paura, amarezza, e invece nulla di tutto questo: in quello sguardo vedo quasi una dolce accettazione. Non é uno sguardo feroce, ma dolce e misericordioso, quasi di preoccupazione per me e per la mia condizione, ed accade una cosa unica nel suo genere e nella sua imprevedibilità: mi perdo in quello sguardo, nello sguardo di Gesù, rimango forse un minuto con gli occhi dentro quello sguardo, immobile, a bocca aperta". E’ una novità sconvolgente, di quelle che non fanno più dormire: “a 43 anni, in un albergo a 5 stelle al centro di Roma, sto tutta la notte sulla sponda del letto, con questo sguardo davanti. Era come una domanda di emergenza che io non capivo”.

Passano i giorni, ma aumenta un’inquietudine e si fa strada la solitudine di un uomo famoso, che non riesce a parlare con nessuno di ciò che ha di più urgente nel proprio cuore. Quando il film esce sugli schermi suscita scalpore; i giornali ne parlano e si scrive anche di lui, Pietro Sarubbi in Barabba. Un sacerdote legge un articolo, dove si racconta ancora di quello sguardo. S’incuriosisce, lo cerca e, una volta trovato, gli chiede di andare a portare la propria testimonianza alla sua comunità. Pietro ha ancora quella domanda che ferisce il suo cuore e va. E’ l’incontro non solo con quel sacerdote, ma con una comunità che lo affascina e lo rapisce in un modo nuovo e inconsueto. Parla ancora con quel prete, vuole capire: “Ma come fate ad essere così? Ma lo sa che io ho un figlio a casa che è sempre così agitato che sembra che abbia una colica renale?”. La risposta è disarmante: “Tu sei la colica renale di tuo figlio! Perché i figli non vogliono sentirsi dire cosa devono fare, vogliono vederlo. E tu cosa gli fai vedere a casa? Quando l’hai abbracciato l’ultima volta?”. Pietro non sa rispondere, ma, arrivato a casa, compie quel gesto: abbraccia il figlio e vede finalmente le lacrime solcare due bellissimi occhi verdi. E’ l’inizio di una nuova storia: “Da questo figlio ritrovato – racconta – ho cominciato a fare un cammino. Volevo rimanere aggrappato a quelle persone, imparare il segreto della felicità e non volevo sbagliare. La mia domanda grande era: ma come è possibile che dentro lo sguardo di un uomo ci sia Cristo? E un giorno quel sacerdote mi butta sulle gambe un libretto. Sopra c’era scritto “Deus Caritas Est”. Non so di cosa si tratti, ma mentre sto sul treno per tornare a casa leggo una frase a caso, la prima che mi capita: “Il Signore, sempre, di nuovo, ci viene incontro attraverso lo sguardo di uomini in cui egli traspare”. C’era dentro la risposta alla mia domanda più dolorosa, scritta dal Papa”. “Ci si può abituare ad uno sguardo?”, viene chiesto a Sarubbi alla fine dell’incontro. Non ci si abitua – risponde - ma lo si cerca disperatamente. E poi aggiunge: “Se voi siete qua è perché siete stati toccati da uno sguardo. Se ognuno di voi non fosse stato toccato da un amico, un parente, un sacerdote, un educatore, cent’anni fa o ieri, non sareste qui. Tante volte, di fronte ad rumore in fondo alla chiesa, la gente si gira; ma se sull’altare c’è Cristo, chi ci si aspetta che entri di più importante da quella porta?”. 

Tante altre cose racconta Pietro Sarubbi, trasmettendo tutto con la sua straordinaria allegria, ma facendo anche cadere più di una lacrima sul volto dei presenti. Perché l’abbraccio della conversione – lo dice lui – è commovente come quello del padre al figliol prodigo. Ed accade così che la sua testimonianza riesca a fare breccia nel cuore di chi ascolta, perché egli stesso ha preso il suo, di cuore, e l’ha messo nudo sul palco, a raccontare di un desiderio di bellezza finalmente realizzato. Un cuore trafitto da uno sguardo, quello di un Altro che è passato come passa la luce attraverso le crepe. E’ per questo che, una volta tornato a casa, il mio cellulare impazzisce e continua a ricevere i messaggi entusiasti degli amici, segno di una gioia che si manifesta senza freni. E mentre ripenso a tutto questo, al film di Mel Gibson ed a questi giochi di sguardi, capisco quale sia il modo migliore di vivere la quaresima che sta per iniziare. Percorrere una strada, accanto all’Uomo dei dolori, per giungere ad un incontro, quello col Risorto, capace di cambiare un’esistenza intera. Nient’altro che quel scrive Sarubbi, nel libro che racconta della sua conversione: “solo io, con la mia valigetta, con dentro il mio povero costume di scena, solo io di fronte alla grandezza della vita che affronto, un po’ come si sarà trovato il povero Simone, con la sua povera sacca da pescatore, i suoi sdruciti calzari e la barba incolta davanti al Messia che gli cambiava nome, lo faceva rinascere uomo nuovo pur lasciandolo com’era, ne cambiava il cuore e attraverso quello lo cambiava tutto”.

Thursday, February 13, 2014

CREDERE PER VEDERE


Domenica, nove del mattino. Ti alzi stanco, come se fosse già sera. Nuvole grigie, cielo basso e non c’è linea all’orizzonte; i tuoi pensieri non riescono a sfumare fino all’infinito. Piove da giorni. Piove sulla cattedrale e sui quartieri di periferia della città. Hanno detto i telegiornali che c’è gente che ha perso la casa o quel poco che possedeva e tu non sei certamente tra costoro, eppure questo pensiero non riesce a consolarti. C’è troppa pioggia anche nel tuo cuore per permetterti di vedere chiaro. E nelle incertezze del giorno che si fa strada, non sembra esserci cavallo sicuro su cui puntare.
C’è un prete sull’altare, ma oggi non basta che sia tuo amico e compagno di cammino. Non serve neppure questo a far smettere di piovere. Legge un libro, dove si narra di un funzionario del re, che sta camminando per andare ad incontrare un uomo di nome Gesù. C’è un sacco di strada, da Cafarnao a Cana e, come se non bastasse, piove che Dio la manda. Si sta inzuppando tutto,  è proprio stanco e sta pensando a quel figlio che muore. Ed a tutti i suoi soldi, che, per la prima volta nella vita, non sono serviti a cambiare la ruota del destino. Non vede l’ora di vederlo, il figlio di Giuseppe, quell’uomo venuto da Nazareth, paese di diseredati che non se li fila mai nessuno. Eppure, lassù a Cana, narrano di meraviglie accadute a un matrimonio. Acqua mutata in vino e vino buono, per giunta, che sono ancora in giro tutti a raccontarne, anche giù a Cafarnao. E intanto continua a piovere, pioggia sottile, che s’infila tra le pieghe dei vestiti, passa sotto la pelle e non riesce ad ammorbidire un cuore che s’indurisce sempre di più, ogni giorno che passa.

Signore, scendi, prima che il mio bambino muoia”. Che buffo. Si era preparato un sacco di bei discorsi, eppure una volta arrivato lì davanti, non era riuscito a dire nulla di più. E sì che un funzionario del re trova sempre le parole giuste per ogni occasione. Invece questa volta niente. Solo quattro striminzite parole ed il terrore che anche la grandezza di quell’uomo non potesse nulla contro la vita di un figlio che scivola via sempre di più. “Và, tuo figlio vive”: non gli aveva detto nient’altro Gesù. Solo che aveva accompagnato quelle parole con uno sguardo, uno di quelli di cui era capace lui. Quelli che non riesci più a toglierti di dosso, qualunque cosa succeda. E lui quello sguardo se l’era portato con sé, giù di nuovo, di corsa fino a Cafarnao, lungo quella strada faticosamente salita il giorno prima, con la pioggia che, anche lungo la strada del ritorno, non aveva smesso di scendere incessantemente. “Ieri, dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato”. Dopo mezzogiorno! Non un istante prima di quello sguardo. E appena un attimo dopo quell’incontro.

Ti ridesti, come da un sogno e c’è di nuovo il tuo amico, sull’altare, che sta provando a spiegare quella storia. Parla di proverbi, dice che la saggezza popolare non è mica tutto oro che luccica, in fin dei conti. Anzi, che spesso e volentieri certe frasi e luoghi comuni andrebbero proprio ribaltati. Come quello che dice che bisogna vedere per credere, quando, invece, è vero che bisogna credere per saper vedere. Credere per vedere, questa è davvero bella. Ma come ha fatto a venirti in mente, genio di un amico? Se le cose stanno così, allora sì che cambia tutto. Ripensi a quell’uomo, dopo le parole di Gesù. Mica aveva chiesto altre spiegazioni: gli era bastato uno sguardo. E si era rimesso in cammino verso Cafarnao. Chissà quante cose nuove aveva visto, lungo la strada del ritorno. Sempre sotto la pioggia, eppure la luce intorno alle cose era mutata. Scorgeva colori che non aveva mai visto, udiva suoni che non aveva mai sentito. Poi era arrivato da suo figlio, guarito. Poiché aveva creduto in Lui, la realtà gli si era finalmente mostrata. E tutta la sua famiglia avrebbe continuato a credere, d’ora in poi. Per continuare a vedere.

Alzi gli occhi di nuovo, guardi le vetrate al di sopra dell’altare. Da dove arriva la luce che adesso filtra da esse e riempie la chiesa di colori nuovi? C’è di nuovo il sole, là fuori, e sembra voler fare di tutto per entrare. E’ una piccola crepa, quella dalla quale riesce ad entrare anche nel tuo cuore. Già, una piccola crepa, come c’è in tutte le cose e già lo sapevi, in fondo, che è solo dalle crepe che la luce riesce a passare. Leggi le parole del salmo: “Fa splendere il tuo volto sul tuo servo e salvami, per la tua misericordia. Che io non resti confuso, Signore, perché ti ho invocato”. No, non sei confuso, ora, dopo che il Suo sguardo si è posato un’altra volta su di te. Chissà dove lo incontrerai di nuovo, una volta uscito da qui. Magari impresso sul volto degli amici, pochi passi più in là. Perfino davanti ad un caffè al bar dell’oratorio. Un banale e semplice caffè. Ma in compagnia di Gesù.


Thursday, January 02, 2014

NOCC DE CAPUDANN

"Non sto da una parte o dall'altra. Il mio cuore é con le vittime"
(Johnny Cash)

Hello, Hank. Te ne sei andato solo da poche ore, eppure sono più di sessant'anni, ormai. Doveva essere proprio così, quella notte che ti ha portato via a capodanno. Un'auto che corre, strade buie, freddo nelle ossa, ogni tanto una stazione di servizio, chiusa o abbandonata. Ed un cuore che all'improvviso cede, ferito dal troppo dolore urlato dentro alle tue canzoni. Percorro la mia highway 61, svogliato e stanco. Solo. Non c'è più nessuno ormai, il veglione é passato da un pezzo e non c'è più traccia di vita e di baldoria. Eppure ci dev'essere ancora un sacco di gente che soffre laggiù, nascosta nel silenzio. There's a whole lot of people suffering tonight. From the disease of conceit.
Continuo a guidare. Mi aspettano quelle vie di rock'n'roll, laggiù in fondo alla strada, che sono sempre queste strane corsie d'ospedale. Non conosco ancora il dolore e il desiderio disatteso che attende d'incontrarmi senza pietà. Sofferenza, dubbio e angoscia, misti a condivisione e tenerezza, impegno e sacrificio. Ma anche cattiveria, ipocrisia ed errore. E mille aggettivi per descrivere la stessa cosa. Un'umanità angosciata, tradita, abbandonata. Proprio come l'Uomo dei dolori, in quel suo grido assurdo. Lassù sulla croce: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".

Ascolto musica stanotte, quella di Hank Williams o di Townes Van Zandt. Ascolto storie. Quelle di chi se ne é andato come un'umbria, la nocc de capudann ed ha bussato alle porte del paradiso. E di tutti gli altri, quelli che hanno cantato e suonato come fuorilegge, e che per essere tali hanno dovuto saper essere onesti. Ho voglia di stare con loro questa sera. Con gli ultimi, coi derelitti e coi diseredati. E provare a scaldare il loro cuore, solo per sentirlo così simile al mio, ferito in tutte le sue contraddizioni. Sai, Hank, non é mica vero che non usciremo mai vivi da questo mondo, come hai cantato nella tua ultima canzone. Ti sei sbagliato, questa volta, amico, anche se spero che le tue ferite siano state finalmente lenite. E' vero, invece, che c'è un Amore che non ci farà mai morire perché ci precede: "Noi amiamo perché egli ci ha amato per primo" (1 Gv 4,19).
E' questa la buona notizia, grazie a Dio.
Quella che rende nuovo anche quest'anno vecchio già iniziato.