Saturday, January 21, 2012

KING OF THE VILLAGE


"gli occhi chiusi di Jamie e quel suo viso con una smorfia di sorriso, raccontano qualcosa in più di quel che sentiamo o vediamo. C'è così tanta vita dentro la sua musica, che quando la incontri non puoi rimanerne indifferente. Ti mette ai suoi piedi con quelle onde che vibrano passione e sincerità. E quando ti rialzi, è bello sapere che il cerchio non si è ancora spezzato."


"This is my voice / I have no choice": canticchia, scherzando, Keith Rose, il bassista di Bocephus King, mentre prova il microfono, arpeggiando, nel frattempo, sulle corde del suo strumento. E' anche questo - penso tra me e me, mentre sorseggio il mio drink - il bello del rock'n'roll e della sua lingua madre, l'inglese: bastano pochi accordi, quattro parole in rima, e sei già dentro qualcosa che ha in sé tutte le possibilità di farti vibrare il cuore. Bocephus King lo avevo incrociato poco prima, fuori dal locale, attanagliato da un gelo che sembrava essere arrivato direttamente da Vancouver assieme a lui, mentre cercava di azzeccare la porta giusta per entrare; adesso é lì anche lui a provare, davanti a quei quattro gatti che, molto più tardi, all'inizio dello show, saluterà con un "welcome Nidaba People!", che neanche fossimo al Madison Square Garden di New York.
Che poi, stasera, il Nidaba, minuscolo ma affascinante locale milanese, assomiglia un po', in fondo, ad uno di quei posti dove un bel po' di tempo fa potevi imbatterti per caso, se ti trovavi a passeggiare su e giù per MacDougal Street. Ed é vero che la Milano della recessione del 2012 non assomiglia neanche lontanamente al Greenwich Village dei '60, ma é altrettanto vero che alla buona musica, per fortuna, non le riesce mai di morire, anche in tempi di crisi del rock e non solo di quello.


Il concerto vero e proprio, Jamie Perry, in arte Bocephus King, lo inizia quando l'orologio sta scoccando allegramente le undici di sera: prima di allora, dopo quella mezz'oretta di prove in cui é riescito a far entrare un po' di tutto, ha preferito trascorrere il tempo chiacchierando con vecchi e nuovi amici, seduti ai tavoli qua e là. E' forse per questo, la mente del musicista lasciata insieme all'ultimo boccale di birra abbandonato sul bancone del bar, che la prima parte del concerto scorre via piatta e senza troppi acuti, risvegliata solo alla fine da una bella versione di Willie Dixon God Damn!, calda e vibrante al punto giusto ed in grado di traghettarci verso una seconda parte dello show, a mezzanotte inoltrata, che sarà tutta un'altra cosa. Un po' perché sul palco cominciano a salire Marco Python Fecchio con la sua chitarra ed una violinista davvero brava, ad aggiungere energia e poesia nelle giuste dosi, e un po' perché Bocephus tira finalmente fuori la voce, le canzoni e pure il cuore. Canzoni, le sue, che in realtà non conosco, perché questo artista canadese, non l'ho mai sentito cantare prima d'ora: "devi andare al Nidaba a sentirlo", mi aveva scritto l'amico Maurizio Pratelli e non c'é niente di meglio che fidarsi dei consigli degli amici. Quelle che riconosco, però, sono una manciata di cover che Bocephus sembra d'essere in grado di fare meglio di chiunque altro. Come quando, ad esempio, canta Isn't It A Pity di George Harrison o una Will The Circle Be Unbroken che non riesci a non saltar su dalla sedia ed andresti di corsa sul palco a cantarla insieme a lui, tanto é bella. O come quando tira fuori dal cappello a cilindro una Papa Was A Rolling Stone, così bella e intensa che un tizio davanti a me si mette a piangere quando finisce la canzone, tanto era il tempo - dice - che non la sentiva suonare così.
E' quasi l'una e mezza e Bocephus suona ancora, come e meglio di prima; lo guardi e pensi che potrebbe tirare tranquillamente mattina, lui e noi insieme a lui e senza neanche troppe birre a farci compagnia. Mi tocca andar via, invece, e son sicuro che mi perderò una di quelle Racing In The Street che solo lui é in grado di fare. Ma io, tra poche ore, devo passare dalle note di una chitarra ad una manciata di volti sdraiati su letti d'ospedale ed é giusto che sia così, ad ognuno il suo, basta non smettere di mettere il cuore con passione, lì dove si é chiamati a stare.

Mentre torno a casa ripenso a quel tizio e al fatto che si può arrivare a piangere per una canzone. Forse é un po' eccessivo per un classico dei Temptations, seppur suonato bene. Ma dove ci sono lacrime ed emozioni puoi trovare anche cuori desiderosi d'incontrare ciò che sa d'amore vero e sono segni di speranza attaccato ai quali mi piace poter sempre stare.
Io, intanto, da domani voglio procurarmi tutti i dischi di Bocephus che, per una notte, é stato il re del Greenwich Village del mio cuore. Che la prossima volta che vengo a sentirlo, voglio riconoscerle, le sue canzoni. Chissà che non scappi una lacrima anche per quelle.