Friday, February 26, 2010

HAPPY HOUR


Se ti piace la buona musica ed il buon vino, allora questo sembra essere il posto giusto, perché, appena entrati nel locale, in mezzo a citazioni sparse, appese ai muri tra una fotografia e l'altra in bianco e nero di vecchi film, spicca una frase di Luigi Giussani che mai ti aspetteresti da uno che di mestiere ha fatto per tutta la vita il prete: "dopo la poesia e la musica, il gusto per la bellezza si esercita negli uomini sul cibo e sul vino".
Ieri sera, però, al Mama Café di Milano, di musica non ce n'era proprio e di buon vino, per la verità, davvero poco, perché il motivo per cui essere lì é un altro ed é gesto di solidarietà per chi, in questo momento, ha ben altro a cui pensare, visto che sta lottando quotidianamente per la mera e semplice sopravvivenza. La serata é organizzata da AVSI e serve per raccogliere fondi per Haiti, di cui già i giornali e le televisioni non parlano più. Non ne parlano non solo perché non fa più notizia, ma perché di fronte ai drammi la prima cosa che si perde é la speranza. Ce lo spiega bene Pippo Ciantia, nel bel mezzo dell'Happy Hour, raccontando a tutti non solo la propria esperienza personale - trent'anni in Uganda come medico e coordinatore ed una vita intera spesa a organizzare progetti internazionali per AVSI - ma anche l'anima di ciò che si vuol fare questa sera, una quarantina di amici radunati insieme per uno scopo. La speranza - dice Pippo - é la prima cosa che rischia di crollare quando tutto sembra insostenibile come in tragedie come questa. E invece rimanere là, non fuggire, significa testimoniare l'opposto, perché la vita dell'uomo é drammatica, ma non tragica, se riconosci che é un bene che appartiene a un Altro. Ci racconta di Fiammetta Cappellini, che molti hanno visto anche in tv, perché lei ad Haiti c'era già prima e da Haiti non é scappata adesso. Ti aspetteresti un'eroina e invece lui, che la conosce, ci racconta di una giovane donna caratterialmente fragile, come a dire - e ce lo sottolinea bene, con un sorriso e un'espressione disarmanti - che nella vita di ciascuno c'é il momento in cui puoi dare il meglio, anche la vita tutta intera, se l'ideale per il quale vale la pena d'essere vissuta é qualcosa di davvero grande.
Ci racconta anche, Pippo, che la prima cosa che ha sempre visto chiedere dalle popolazioni in guerra, in crisi, dentro tragedie come queste, é la disponibilità di scuole dove mandare sin da subito i propri bambini. Come a dire che ci si sforza per il cibo, gli ospedali, le case ed é profondamente giusto, ma se non pensi anche ad educare il cuore, tutto quanto é opera vana perché l'uomo possa sopravvivere sul serio.
E' un happy hour, lo chiamano così, ma dura molto più di un'ora perché la gente ha gioia nello stare insieme e la questione non é un'offerta e via e mettersi a posto la coscienza. La questione é trovare un luogo dove questa coscienza possa essere risvegliata, dentro il senso che puoi dare alla tua esistenza di ogni giorno. Anche senza che ci sia bisogno di andare ad Haiti, perché non é questo a cui sei chiamato oggi. Ma un significato grande da dare alla tua quotidianità, fare bene ciò che ti viene chiesto oggi, lì dove sei - la tua famiglia, i tuoi amici, il tuo lavoro, il prossimo che incontri ad ogni istante - quello sì, é l'eroismo che viene domandato oggi a te.

Prima di entrare nella saletta del locale, all'inizio della serata, scambio due parole con Pippo, ci si presenta, ci si dice che si fa nella vita di ogni giorno. Parlando del più e del meno mi cita una persona, coinvolta anche lei in un progetto e mi dice una sua frase che suona più o meno così: "sai, io non ho la soluzione per questo problema, ma ci metto tutto il cuore". E' quella che mi porto via e chi mi ritorna in mente un attimo prima di dormire, perché questa é davvero l'anima di tutte le questioni, metterci il cuore, ciò che non facciamo mai abbastanza, pensando sterilmente solo alle soluzioni, che, da sole, inesorabilmente, finiscono per non arrivare mai.

E' un happy hour, lo chiamano così, ma ieri sera é durato molto più di un'ora. Felice, però, lo é stato veramente, perché la gioia nel cuore é l'altra cosa che mi ricordo di ieri sera, prima di addormentarmi.
Pare che lo chiamino centuplo: é ciò che ti ritorna indietro inaspettatamente, quando gratuitamente metti in moto anima, muscoli e cuore per qualcosa di più grande di te.



Donazioni online per Haiti e gli altri progetti internazionali AVSI:

Monday, February 22, 2010

AQUILONI


C'é un film, un po' concerto e un po' documentario, insomma quelle cose che piacciono a noi, fatte di tanta musica, immagini e pensieri, che negli ultimi tempi mi capita di rimettere spesso e volentieri nel lettore dvd di casa. Capita soprattutto in certi momenti, quelli che si coniugano con la malinconia, perché di questa é intriso questo film fino al midollo, dentro i suoni ed i paesaggi di cui é composto. Malinconia, però, capace di condurre altrettanto bene verso la bellezza, attraverso quegli stessi paesaggi ed i tempi straordinariamente morbidi di narrazione.
La band é quella degli islandesi Sigur Ros ed il film, Heima, narra la storia della loro strada verso casa, quella fatta di una serie di concerti svoltisi nella loro terra d'origine, alla fine di un tour mondiale che li aveva portati un po' dappertutto. E' un racconto affascinante, che viene mostrato attraverso splendide riprese, che mostrano i luoghi dove il gruppo si é trovato a suonare; gruppo talvolta solo, dentro le rovine di una fabbrica o fuori sotto un freddo cielo grigio-azzurro del nord, magari vicino ad una casa abbandonata; altre volte in mezzo a pochi spettatori, quasi fosse un tranquillo cantare tra amici intorno al fuoco alla sera, mentre ci si passa la bottiglia del vino e si mangia assieme qualcosa che sia capace di scaldare l'anima oltre ai muscoli ed al cuore. Altre volte ancora il concerto raccoglie molte più persone, ma sempre c'é una natura a fare da sfondo a questi suoni, che li avvolge, ma allo stesso tempo li fa nascere, perché é solo guardando questo film che, forse, si capisce sino in fondo una proposta musicale troppo spesso spacciata frettolosamente per triste e faticosa e quindi altrettanto facilmente allontanata da sé senza provare ad entrarvi sino al profondo.


C'é un passaggio del film in cui anche lo spettatore giunge al concerto a poco a poco, accompagnando a piedi tutti coloro che vede nello schermo e camminando lentamente lungo lo spettacolare altopiano che sovrasta i canyons di Asbyrgi; spettatore che, arrivato infine sul luogo del concerto, si trova assieme a famiglie e bambini, quasi fosse una festa di paese; bambini, tanti, di cui tutto il film é costellato, presenza gioiosamente disposta tra una canzone e l'altra, momenti di gioco spensierati, talora persino in mezzo all'acqua che, a prima vista, sembrerebbe troppo fredda persino per loro, inossidabile gente del nord. Bimbi che, spesso e volentieri, arrivano anche vicino ai musicisti, toccano le loro gambe e gli strumenti, giocano letteralmente con essi. Bambini e ragazzi che, prima del concerto, giocano con decine e decine di aquiloni, magari dopo aver cenato liberi sul prato; aquiloni liberi di volare su nel cielo, sostenuti da fragili ma felici mani.

Ho sognato d'essere libero come un'aquilone anch'io, di staccarmi dalla mia tristezza e dalla malinconia, quando mi assalgono in maniera troppo forte perché io riesca a sopportarla.
Ho pensato al grido di bisogno tutto intorno, quando é troppo forte per essere sufficientemente sostenuto dall'umano dentro me. Grido come bisogno di tornare sulla strada che porta verso casa, un sentiero di certezze e sicurezze che sia più grande del mio stesso camminare, fattosi semplice incedere barcollante, paurosamente incerto sulla consistenza della meta, troppo lontana per essere intravista durante il viaggio.



Un giorno di qualche anno fa uno dei miei figli tornò a casa dalla scuola materna con una richiesta un po' strana: quella di posare il palmo della mia mano su una bacinella piena di colore, per farne poi un'impronta su un foglio tutto bianco. Dopo un po' di tempo, il giorno di San Giuseppe, ritornò a casa col risultato finale, la mia mano intrecciata con la sua e sotto una scritta: "cammino sicuro nel mondo tenendo la mano del mio papà".
Capii quel giorno che un bambino non mette mai in discussione il fatto che il proprio papà o la propria mamma siano capaci di volergli sempre bene, qualunque cosa accada. E' per questo che un bimbo cammina sicuro per il mondo, anche quando sembra che compia gesti inadeguati; il fatto é che lui non mette mai in discussione un amore più grande che lo sostiene in ogni circostanza. Come un aquilone che vola libero nel vento, il bimbo é sicuro di una mano più grande di lui, che lo lascia libero ma sempre lo guida e lo sostiene e, per nessuna ragione, lo abbandonerebbe mai.
E' per questo che il cuore di noi adulti, divenuti troppo grandi e troppo insani, troppe volte vacilla e s'incupisce nella malinconia e nella tristezza più profonda: ha semplicemente smesso di guardare alla mano di un Padre più grande, Uno che non smette mai di camminare insieme a lui, anche nelle circostanze più avverse e misteriose.
Basterebbe ricordarsi di questo, in fondo, per tornare a volare liberi nel cielo.
Come quel gruppo di aquiloni spensierati, sopra un cielo azzurro d'Islanda.

Sunday, February 14, 2010

STAR STAR

Il giorno mi ha sorpreso, mentre scivolavo nel traffico lentamente. L'esercizio di stamani é ripassare inglese con mia figlia, mentre dal lettore cd dell'auto escono le magiche note di una canzone che parla di stelle, buttata in mezzo ad una setlist di fuoco, un concerto a Dublino di Glen Hansard coi suoi Frames. C'é un'armonia che avvolge entrambi, come se quelle stelle fossero comparse all'improvviso, insieme al sole del mattino. La saluto dolcemente, mentre scende dall'auto e s'incammina a scuola: é il secondo volto femminile che avvolge ed abbraccia la mia giornata, dopo quello di mia moglie sull'uscio di casa.
Quante ragazze, lungo la strada che scorre avanti a poco a poco. Mi sembra di vederle, mille storie, dentro gli occhi di tutti quei volti fermi ad aspettare. In attesa di un autobus che arrivi, o ferme davanti alle strisce pedonali, pronte per passare. Fianchi curvi, dolcemente appoggiati alle pensiline, o facce assorte che camminano lentamente, dentro la fantasia della mente o allegre e più vivaci, sotto le cuffiette di un'iPod. Le guardo ad una ad una, le donne che hanno sempre il mondo in mano. Capaci di soffrire come noi uomini non sappiamo fare, di tener duro, di lottare per conquistare un amore spesso non abbastanza degno di loro, cuori arrotondati da troppi spigoli. Donne che cercano sempre l'amore che sia lo scopo ed il guadagno di una vita, spesa tutta intera senza risparmiarsi mai. Donne tenaci, intelligenti, briose nella gioia e fiere e sorridenti nel dolore.

E le ruote scorrono via ancora, sempre più veloci, dedali di strade che lasciano il posto ad una sola via, sempre più diritta, finché le case ed i palazzi se ne vanno e la città lascia il posto ad alberi e cascine, il grigio dell'asfalto che si dissolve all'arrivo della brina che ricopre la campagna.
Ritorno indietro, su quella canzone: é la stella del mattino che mi fa ancora compagnia. Chiudo gli occhi, penso a lei, esprimo un desiderio. E una chitarra dagli accordi aperti torna a farmeli riaprire, mentre il sogno si fa realtà, la gioia di un amore trovato sempre momento per momento, che ha riempito la mia vita e la mia casa, dato alla luce i miei figli, il porto sicuro dove i miei desideri possano finalmente riposare. E poi di più: la gioia di un Amore ancora più grande, più alto, più infinito di tutti i miei pensieri, quello che move il sole e l'altre stelle.

Quando arrivo in fondo a quella strada é finita la canzone, ma mentre l'auto si spegne e la portiera si chiude, so che si é avviato il motore della mia giornata. "L'amore spiazza" recita il volantino di uno spettacolo, appeso in bacheca proprio accanto a dove timbro il cartellino.
Ripongo i dischi nella borsa, riapro di nuovo i miei pensieri, lo sguardo in alto, ora, é diventato una preghiera.
Ne sono sicuro, non ho dubbio alcuno.
Sarà una splendida giornata.



Star star teach me how to shine shine
Teach me so I know what's going on in your mind
'Cause I don't understand these people
Who say the hill's to steep
Well they talk and talk forever
But they just never climb

Falling down into situations
Bringing out the best in you
You're flat on your back again
And star you're ever word I'm heeding
Can you help me to see
I'm lost in the marsh

Star star teach me how to shine shine
Teach me so I know whats going on in your mind
'Cause I don't understand these people
Who say we're all asleep
They'll toss and turn forever
But no rest will they find...


Thursday, February 11, 2010

I FEEL A CHANGE COMIN' ON


Di questioni sociali e politiche, qualcosa doveva pure importare a quel ragazzo, sbarcato a New York City dal freddo Minnesota. Se non altro perché al Village, alla sera, o il sabato pomeriggio a casa Gleason, seduti intorno ad un vecchio e malandato Woddy Guthrie, di quelle questioni erano permeati i discorsi e le canzoni.
Non era difficile, perciò, che emozioni e sentimenti si coagulassero in un senso di speranza, desiderio e percezione di tempi che stessero cambiando, sorta di antesignano "Yes We Can", bandiera di una generazione con tanta voglia di percorrere un sogno d'amore e di giustizia.
Di quel sogno aveva parlato con accenti e tinte forti Martin Luther King, quel giorno a Washington, davanti a migliaia e migliaia di persone in marcia. Ed il ragazzo era lì anche quella volta, tramutando in note le stesse aspirazioni, che non potevano non far parte anche del paesaggio della sua strada. Eppure era la strada stessa ad interessarlo di più, quella alla ricerca di un destino, sorta di percorso di resistenza esistenziale, sotto forma di poesie ricamate sulle corde di una chitarra e di un'armonica a tratti anche sgraziata. Bob Dylan che, nel corso di una vita, di strade ne percorse poi mille ancora, cantando negli stadi e nei teatri, da solo e con altri, davanti a gente comune e presidenti, persino davanti al papa. Dylan che ora canta pure alla casa bianca, di fronte a Obama, a dire che sì, i tempi stanno cambiando anche adesso; ma quel Dylan é anche lo stesso che ammonisce sul political world in cui viviamo, un mondo di saggezza sbattuta in galera, tradita, ingannata, a marcire in una cella, senza nessuno che ne raccolga una traccia (1)
E allora, forse, sono le facce di una stessa persona, Dylan che parla e guarda in faccia al suo destino, e che dice a se stesso (ed a chi voglia ascoltarlo per davvero), che sono i tempi dell'anima che possono non smettere di cambiare, giorno dopo giorno, i cancelli aperti sulla soglia della speranza, so honey, just allow me one more chance.

Ho pensato a quel vecchietto, ancora in giro con la sua chitarra, che ha riempito di dischi la mia casa e coperto di note le canzoni che percorrono i miei pensieri.
Ho pensato ai presidenti, ai sogni e alle speranze della gente comune come me.
Ed ho ripreso in mano l'ultima lettera di padre Aldo Trento, in mezzo ai suoi malati terminali, agli orfani ed ai derelitti del Paraguay. E ad un vicepresidente, quello di quel paese, che tutte le mattine va a trovarlo alle cinque e mezza, per recitar le lodi assieme a lui, perché "pregare è riconoscere che non sono solo, ma c’è un Altro che mi fa le cose" e poi, se no, come si fa "a sopportare la faccia del presidente e dei ministri" ? (2)
Ho pensato a tutto questo ed ho ritrovato la speranza, anche dentro le mie miserie di ogni giorno. E' una strana forza quella che si fa strada e mi fa dire che ce la posso fare anch'io, un'altra volta anche domattina, perché the times they are a-changin' e sì, I feel a change is comin' on. E' una forza che si manifesta sempre nella debolezza, perché si affida alla mano di un Altro, a poco a poco sempre più visibile dentro quella strada.
Quella é la battaglia che infuria là fuori, che scuoterà le finestre e farà tremare i muri. (3)
Ma non mi fa paura: é qualcosa che fa rima con speranza.




Note:
(1) We live in a political world / Wisdom is thrown into jail / It rots in a cell, is misguided as hell / Leaving no one to pick up a trail (Political World, Bob Dylan, 1989)
(2) UN UOMO VERO - lettera di padre Aldo Trento, 9/2/2010
Cari amici,
Dio ci dona sempre qualcuno a cui guardare. A volte è un mendicante che ti chiede e tu lo guardi vedendo in lui la faccia di Cristo, o un bambino abbandonato che si affeziona e a chi gli domanda il suo nome e cognome risponde: Trento Gabriele. A volte è il vicepresidente della Repubblica che era in vacanza in Brasile quando l’ex vescovo presidente lo chiama di urgenza perché deve andare ad incontrare i suoi amici Chavez, Morales e Correa e ovviamente il vice deve assumere la presidenza ad interim. Così Federico, il vice, parte e con la macchina, guidando lui, torna a casa ieri, domenica. Erano le 21 ed era appena entrato in territorio Paraguayo quando mi chiamò: “ Padre Aldo, domani mattina sono lì alle 5 e 30 per recitare Lodi, aspettami.” Rimasi commosso, un uomo, un politico che si preoccupa di avvisarmi che sarà qui alle 5 e 30 per recitare Lodi. Amici, capite? Chi di noi e dei nostri politici si preoccupa di vivere un gesto come questo delle Lodi? Lunedì mattina alle 5 mi alzo, per preparare la colazione, come ogni lunedì per il Presidente in esercizio, perché alle 5 e 30 puntuale arriva. Però questa volta alle 5 e 30 arriva il suo segretario e mi dice: “Padre, Federico ti ha chiamato ieri sera alle 22 per dirti che sarebbe arrivato a casa all’1 della mattina e per chiederti se era possibile dire Lodi alle 7.” Che attenzione, ma che coscienza del Mistero! Alle 7 arriva e dico: “Presidente a quest’ora c’è la processione con il Santissimo nella clinica e l’adorazione”. “Padre, vamos (andiamo)”. E così in compagnia di Gesù abbiamo visitato infermo per infermo, ha fatto anche lui la comunione in ginocchio sul pavimento, ha ascoltato il vangelo del giorno con il commento e poi abbiamo fatto colazione assieme. “Padre, non posso incominciare la settimana senza questo gesto con voi, padri, perché come potrei affrontare gli impegni, le incomprensioni quotidiane? Per me pregare è riconoscere che non sono solo, ma c’è un Altro che mi fa le cose.” Normalmente viene sempre alle 5 e 30 del mattino perché alle 6 questo presidente convoca il consiglio dei ministri, che, essendo un problema, se non guarda prima in faccia Gesù, gli sarebbe impossibile sopportare la faccia del presidente e di certi ministri. C’è davvero tanto da imparare. Ciao, P. Aldo
(3) There's a battle outside and it's ragin' / It'll soon shake your windows and rattle your walls (The Times They Are A-Changin', Bob Dylan, 1964)


(padre Aldo con il vicepresidente del Paraguay)

Monday, February 08, 2010

I'LL KEEP IT WITH MINE

Take this sinking boat and point it home
We've still got time
Raise your hopeful voice you had a choice
You've made it now
Falling slowly sing your melody
I'll sing along
(Falling Slowly - The Swell Season)


C'é una scena, alla fine del film Once, che vale più di tutta la buona musica (ed é davvero tanta) che c'é dentro, fatta di poche parole e sguardi veri. Scena tra Marketa e Glen, scena di un amore possibile ma ingiusto. Un amore appassionato, travolgente, dal sapore affascinante, ma non giusto perché tradisce quello vero, che appartiene alla storia che per entrambi é iniziata già altrove. Quella strada, quella che alla fine ti porta davvero fino a casa, é sentiero faticoso, ripido ed esposto al vento, ma ciascuno prova ad intraprenderlo di nuovo, dopo un sospiro profondo dentro sé, di quelli che vanno ferocemente giù nell'anima, sino a scavarla nel profondo.

Non sono canzoni tristi, quelle di Glen e Marketa, perché sono canzoni d'amore.
Non sono tristi perché l'amore non é triste, anche quando é una barca che non saprà come sarà il mare, onde che gli riserveranno giorni di tempesta ed altri di bonaccia. Oceano che non ti consente d'intravedere il porto, ma che comunque non tradisce il marinaio che ama il mare.
Ieri sera, al conservatorio di Milano, in una sala troppo piccola per la dimensione dei cuori che vi si trovavano dentro, i Swell Season hanno provato a coniugare tutte le declinazioni dell'anima. Un viaggio, attraverso le canzoni ed i lunghi dialoghi di Glen Hansard con il pubblico, che ha percorso tutte le strade dell'amore, ora ferito, ora reso sano dalle cure, talvolta dolcemente struggente, talaltra invece descritto in modo appassionato e furioso, lungo scorribande piene di rock e di passione. Come un navigatore esperto, capace di guidare la sua barca ovunque e di mostrarti davvero come é profondo il mare, a tratti Glen si é fermato, per lasciar spazio ad una Marketa Irglova solo apparentemente timida e discreta, in realtà capace di portare, in quell'appassionante follia targata Irlanda, accenti di malinconia che solo le ragazze dell'est sono capaci di donare con colori pastello così accesi.



Anche lo sguardo di Josh Ritter, che ha aperto il concerto e partecipato in una canzone ai bis finali coi Swell Season, é apparso sempre straordinariamente bello e sorridente, pure fuori dalla sala alla fine dello show. E non fa eccezione a tutto il resto l'abbraccio che mi riserva dopo le due brevi parole scambiate assieme. Pure il sorriso che riserva a mia moglie - mentre la prende alla sprovvista con un "Are you Dany?", dandole il cd con la dedica per lei che le ho fatto fare un minuto prima - fa da corollario a tutto il resto.
Ed é tutto questo, ciò che alla fine ti porti via con gusto sino a casa, anche più di tutta la buona musica ascoltata, forse perchè quella musica é figlia di uno sguardo sulla vita che ha proporzioni grandi. Ciò che ti porti via sono sguardi sorridenti sulla vita. Sguardi profondi, usciti da ferite curate con dolore e con fatica, ma ricchi anche dalla gioia di momenti veri che quella vita stessa ti ha riservato. Sguardi dentro volti, come quelli degli amici che ho incontrato là; quelli di mia moglie e di mia figlia; quelli di Josh e dei Swell Season, felici alla fine di un concerto che Glen prolunga all'impossibile, come non volesse mai più andare via.
Occhi di gente che ha a cuore la sua storia come la tua e con i quali ti puoi addormentare in pace alla sera. Sono questi occhi e questi volti che, stretti stretti, porto via con me, nella notte di una gelida Milano, che sembra sonnecchiare impassibile pochi passi fuori dalla festa.
Roba che tengo stretta stretta dentro me, per poter dire, una volta ancora, dentro la mia vita e quella di ogni faccia che ho incontrato: "E noi abbiamo creduto all'amore".



Friday, February 05, 2010

E NOI ABBIAMO CREDUTO ALL'AMORE


Se mai scriverò un libro, mi piacerebbe intitolarlo così: "E noi abbiamo creduto all'amore".
E' una frase di Chiara Lubich tratta da un brano, che ho messo in fondo al blog.
In fondo al blog, cioé quel posto dove anche i lettori più fedeli difficilmente vanno a guardare, ma dove invece, magari, vai a mettere proprio le cose a cui tieni di più, quello zoccolo duro a cui vuoi rimanere attaccato ad ogni costo.
E' un brano di Chiara, che mi sostiene in questo periodo più di ogni altra cosa, che mi fa superare ogni difficoltà ed ogni tristezza, ogni dolore che vedo negli altri e dentro me. E che, allo stesso tempo, non mi permette di volare su facili entusiasmi, ma mi consente di consegnare la mia gioia - attimi presenti vissuti come frammenti di luce e di reciprocità - nelle mani di Colui che me l'ha donata.
E allora lo metto anche qui, in cima al blog.
Per potermelo rileggere e riascoltare, come quelle canzoni di cui senti di non poter mai fare a meno.
E per farlo leggere anche a chiunque passasse di qua e volesse fermarsi un poco qui con me.
Come si fa con quelle canzoni che si vorrrebbero ascoltare sempre insieme.

"Un fatto. Facevo ancora scuola. Un sacerdote di passaggio bussa alla porta della classe. Mi domanda di offrire un' ora della mia giornata per le sue intenzioni. Rispondo: "Perché non tutta la giornata?". Colpito da questa generositá giovanile, mi fa inginocchiare, mi benedice e mi dice: "Si ricordi che Dio la ama immensamente". È la folgore. "Dio mi ama immensamente". Lo dico, lo ripeto alle mie compagne: Dio ti ama immensamente. Dio ci ama immensamente. Da quel momento scorgo Dio presente dappertutto col suo amore: nelle mie giornate, nelle mie notti, nei miei slanci, nei miei propositi, negli avvenimenti gioiosi e confortanti, nelle situazioni tristi, scabrose, difficili. C’è sempre, c’è in ogni luogo e mi spiega. Che cosa mi spiega? Che tutto è amore: ciò che sono e ciò che mi succede; ciò che siamo e ciò che ci riguarda; che sono figlia sua e Lui mi è Padre; che nulla sfugge al suo amore, nemmeno gli sbagli che commetto perché Egli li permette; che il suo amore avvolge i cristiani come me, la Chiesa, il mondo, l’universo. La conversione è avvenuta. ‘La novità’ è balenata dinanzi alla mia mente: so chi è Dio. Dio è Amore. E’ questa la nostra grande, grandissima scoperta. Noi crediamo all’amore. Questa è la nostra nuova vita. Per questo manifestiamo il desiderio d’essere sepolte - qualora fossimo morte per la guerra - in una sola tomba con sopra scritto come nostro nome, perché quello era il nostro ‘essere’: ‘E noi abbiamo creduto all’amore’(cf 1 Gv 4,16)”

(Chiara Lubich)

Tuesday, February 02, 2010

CAOS E SANTITA'


The cripple on the corner cries out,
"Nickels for your pity".
And them downtown boys sure talk gritty.
It's so hard to be a saint in the city
(Bruce Springsteen)


Un pallido ma caldo sole prova a rompere lo strato di brina che ricopre un cuore ancora troppo addormentato ed infreddolito. Una volta tanto sei in anticipo, in auto alla mattina presto, su quelle strade della vita e della mente che, anche oggi, una volta ancora, ti portano laggiù dove devi essere. E allora c'é tempo, finalmente, per rallentare un po' la marcia e la corsa dei pensieri, trovare il modo di ricentrarti su ciò che conta veramente, su cosa stai andando a fare in quel posto, dove non fai altro che incontrare gente che, interrogandoti sul proprio dolore finisce - se ci stai - per interrogare te sul tuo.
Il post di un amico - "che cos'é un santo" - fa capolino nella testa, ti costringe tuo malgrado a far meditazione, fa sorgere nel cuore la domanda su cosa sia davvero questa santità, desiderio irraggiungibile o percorso alla portata di chiunque, possibilità che non sia negata neppure a te.

Quelle splendide parole - versi di un poeta, più che parole in successione - citate nel post di Paolo Vites, corrono su e giù, lungo i sentieri tortuosi della mente. Poeta chiama poeta, Leonard Cohen richiama Dylan e così caos richiama caos, perché era lui che un giorno aveva affermato: "io accetto il caos, non sono sicuro che il caos accetti me". (1)
Il caos fuori e dentro te é la più grande obiezione a domanda e desiderio che crescono poco a poco, anche nel freddo mattino di questo nuovo giorno. Eppure quel pallido sole risveglia a suo modo la speranza, scuote l'anima dal torpore e scaccia la tristezza che troppo facilmente e comodamente relega una possibilità in un confino dove giace ciò che sembra irrealizzabile, troppo difficile per essere vero.

La santità é possibile, anche dentro il limite, percepito sempre più presente come consistenza del tuo essere. E' una questione di tenacia e di fiducia nello stesso tempo. Costanza nel non tirarsi indietro giorno per giorno, momento per momento. Fiducia nella consapevolezza che non ti fai da solo, ma é un Altro che dispiega a poco a poco il Suo disegno, sotto la sola condizione di un fragile ed insicuro sì.
Allora, con fiducia e con caparbietà, quel sole del mattino può rompere la crosta dello sconforto e della tristezza, tutto il disimpegno e il non amore: "(...) c’é una crosta da rompere. Da rompere ogni giorno. La crosta dell’egoismo e dell’invidia, la crosta della banalità e della meschinità, la crosta della violenza e della solitudine, la crosta della malattia e della morte. Ma la crosta é mescolata in modo profondo e umiliante alle nostre ossa e togliercela di dosso non ne siamo capaci. Noi desideriamo, cerchiamo, ci disperiamo, ma solo una grazia può squarciare quel velo. Solo lo stupore di fronte al mistero di Dio che viene a immischiarsi con noi e rende possibile una terra nuova". (2)

L'auto ha percorso la sua strada, ed é bella la strada per chi cammina.
Anche oggi é giunta dove doveva portarti e c'é voglia di ripartire, di ricominciare da capo, con quel sole del mattino che si é fatto sempre più caldo e sempre più alto su nel cielo. Sarà difficile? Forse sì, magari no, ma che importa? Basta continuare a giocare.
Come San Luigi Gonzaga, che, proprio mentre stava giocando coi suoi compagni, si sentì domandare, all'improvviso, "Cosa faresti se sapessi che tra poco devi morire?":
"Continuerei a giocare!", rispose senza pensarci su, neppure per un attimo.
It's not so hard to be a saint in the city, after all.
Basta continuare a giocare.




Note:
(1) note di copertina di Bringing It All Back Home
(2) tratto da : Emilio Bonicelli, Ritorno alla vita. Il cammino di un uomo che lotta per vincere la leucemia, ed. Jaca Book