Saturday, January 30, 2010

GEOMETRIE DI VOLO




Lo diceva Van De Sfroos che la vita s'incastra ed é disegnata a lisca di pesce e scivola verso quel luogo dove hai voglia di essere.
Essere é un amicizia e deve essere coniugata con i verbi del cuore. E' per quello che tutto fila liscio anche se il lago é troppo scuro per rivelare il suo splendore. Ma basta il calore di una famiglia e della buona musica di dottor vinile. Se poi a quella unisci il buon vino, rigorosamente naturale e biodinamico, offerto da Mr. Armadillo Man, la compagnia di dottor canzoni e del grande Repiz, l'unico capace di ritrovare la strada che porta verso casa, allora il gioco é fatto.
Una serata in cui lo champagne di André Beaufort si alterna ai Wilco di Via Chicago e la magia dei Swell Season fa da compagna ad un Massa Vecchia Rosso del 2004.
Ma la cosa più importante é che la musica, la buona tavola ed il buon vino siano il sottofondo di una cosa più importante che fa rima con il cuore. Che uno sguardo o un abbraccio, passati attraverso buone note o tintinnii di bicchieri siano il riflesso di un'anima che ha dentro sé il desiderio del bene di chi ha di fronte più che di quello di se stesso.
Questo é quello che mi porto a casa, mentre l'auto scorre veloce sulle magiche note di Megafaun o di The Snake The Cross The Crown, mentre riporta ognuno sulla propria strada.

Il luogo dove ho voglia di essere é un luogo di amicizia che abbia nell'anima questo cuore.
Allora una serata così può rimanere a lungo, forse anche per sempre fino in fondo a quel cuore, anche quando il sapore e l'aroma del buon vino se ne é andato via. Basta che tenga dentro sé quel desiderio di bene per non lasciarlo mai scappare via, perché la tristezza non abbia il sopravvento.
Disse Don Giussani un giorno che non é possibile accettare sé e gli altri in nome di un discorso. C'é bisogno di qualcosa di più, di gesti e sguardi che guardano all'altro come qualcosa di più grande di se stessi, dei nostri problemi, delle stesse nostre gioie o delle tristezze. Solo questo sguardo sostiene l'esistenza e si fa capace di guardare all'infinito, alle onde di un lago che porta la tua barca a scivolare verso il luogo dove vuole essere. Ieri sera una serata tra bloggers, amanti della buona musica e del buon vino, ha provato anche a caricarsi di qualcosa che avesse una portata così ed ha volato per un po', dentro geometrie di volo nuove.
Ed é per quello che é stata cosa bella, buona e giusta.
Alla prossima, amici, magari con qualche armadillo in più!


here are the bloggers!

(pictures courtesy of 'doctor Vinile' Maurizio Pratelli)

Saturday, January 23, 2010

BORN TO FIGHT

"Is there anything else you would like to add?"

"No, thanks for coming and being here. Do you fancy a beer?"
(Dan Stuart, Anthony Strutt interview, 18-5-2007)



BORN TO FIGHT
appunti di viaggio e di pensiero
su un disco amato senza riserve
Un tramonto rosso fuoco, intravisto dal finestrino della macchina, mentre davanti c'é già il blu; incertezza, forse anche tristezza - the blue - della notte che si fa strada, di una notte che ti attende on the road. Quando la gente comprava i dischi, invece di scaricare mp3, il fascino cominciava anche da qui, da una copertina, prima ancora di ascoltare la musica. Fantasia della tua mente che precedeva le note, pronta poi a farsi strada con loro, a viaggiare con esse senza limiti e senza freni. Copertina di un vinile come la copertina di un bel libro. Proprio così. La mia avventura col secondo disco acquistato dei Green On Red era cominciata in questo modo. Passione per il lavoro di una band, rimasta tra le mie preferite anche ad anni di distanza, per quel piccolo fenomeno, sconosciuto ai più, che fu il Paisley Underground, modo tutto americano di coniugare tradizioni e radici della musica stelle & strisce con novità, psichedelia, ribellione di pensiero di stampo punk.
Nebulosa attraversata lungo gli anni ottanta, prima che gli Uncle Tupelo fossero, albori di un' alternative country, o "americana" o chiamatela come volete, comunque un'affascinante melting pot, proteso verso qualcosa di nuovo ed inatteso senza però dimenticarsi da dove si é partiti, delle radici che ci fanno essere quel che siamo.



Già il Paisley Underground. Che in fondo non é mai esistito, perché, anche a quei tempi, provare ad etichettare in questo modo qualcuna di quelle band emergenti - Green on Red, Long Ryders, Dream Syndicate, le Bangles, i Rain Parade - suscitava nei membri di quei gruppi fastidio e ribellione, apparendo più esercizio artificioso di critici musicali che non sguardo corrispondente sul serio a realtà ed esperienza, quella di musicisti che cercavano solo una via d'uscita esistenziale, sorta di viaggio verso una libertà interiore sotto forma di voce e di chitarre.
Per loro, poi, i Green On Red, col tempo fu coniato pure un gran bel termine: "desert rock"; ed in effetti la loro musica pareva davvero spesso tragica e desertica, intrisa di drammacità e desolazione, a partire dalla voce youngiana e disperata di Dan Stuart, il sogno americano sbattuto chissà dove, su una strada senza uscita, finita nel bel mezzo del nulla dopo una corsa rettilinea all'impazzata. E d'altra parte quella del deserto era l'aria delle loro parti, quella che fuori dalla periferia di Los Angeles portava fino a Tucson, in Arizona ed é proprio Stuart che ti descrive cosa possa accadere guidando lungo certe strade sperdute, laggiù nel west: "Quando vedi un cartello stradale con su scritto "prossima stazione di servizio 200 miglia", se vieni da New York ti domandi: come cazzo si fa a vivere in un posto così? Ma se sei di queste parti finalmente ti rilassi e ti senti a casa".




The Killer Inside Me é il disco dei GoR che ho amato di più in assoluto e quello che reputo migliore nella breve ma luminosa storia di questa band. L'apice di una parabola, partita da un garage rock mescolato alla psichedelia (Gravity Talks, lo stesso Gas Food Lodging) e passata attraverso un country rock rivisitato (No Free Luch), fino a giungere a quella strana terra di nessuno, una No Man's Land che é miscela di suoni e percorsi musicali, dove gli accenti gospel ed il virtuosismo tastieristico di Chris Cacavas donano una drammaticità tutta particolare e nello stesso tempo fanno intravedere quasi una via di speranza e redenzione a quella che sembra la perfetta rappresentazione del fallimento del sogno americano. La voce youngiana di Dan Stuart, talora deliziosamente sgraziata, appare l'interprete ideale dei personaggi di queste canzoni, socialmente e umanamente sconfitti, intrisi di deserto nei suoni e nella mente. La stessa chitarra di Chuck Prophet pur lontana com'é da graziose ed addolcite melodie, ma pur sempre tecnicamente sopraffina anche quando ammicca a sonorità che risentono della vicinanza temporale di Replacements ed Husker Du, dipinge straordinari scenari musicali - come ad esempio nei riff della parte finale della title track - capaci di armonizzarsi perfettamente con le derive alcooliche e caratteriali di Stuart.
Il disco successivo - Here Come The Snakes - esplorerà ancor più la direzione del deserto, in musicalità e stato d'animo di liriche e suoni, prima che il gruppo si abbandoni ad un manierismo country rock poco esaltante ed ormai inesorabilmente privo di vena creativa, portando all'inevitabile risultato dello scioglimento della band.
"I live in Clarkesville" grida, incalzato dal basso pulsante, il protagonista della prima canzone, ed é solo uno dei tanti poveracci, destinati ad infilarsi in strade desolate e senza uscita. Puoi anche imbracciare il fucile o la pistola, ma non sarai liberato dalla rabbia, lo sfogo é un'illusione e l'armonica intrecciata alla chitarra - come in Mighty Gun - é uno spazio troppo breve, la disperazione é pronta a riassalirti in un istante. Ci sono amori perduti, vite sospese, percorse su confini e terre inospitali, come laggiù in Old Mexico oppure El Salvador. Ma vite, nonostante tutto, che non si arrenderanno, perché - yes, indeed and Lord forgive us - me and you, brother, we were born to fight" (Born To Fight).
E allora lo devi sparare a tutto volume, questo disco, solo così lo puoi apprezzare davvero. Devi lasciare che un vento di speranza investa il tuo volto lungo il viaggio, quando speranza sembrava tu non ne avessi più ("You'll take the high road and I'll take the low" - We ain't free) e sussurri al tuo cuore che qualcosa o qualcuno si può fare ancora strada tra le note distorte della tua esistenza, come in quel magnifico coro gospel - un Glory, Glory, Halleluiah così trionfante - sulle note finali di quella canzone da brivido che é Whispering Wind.
E' impressionante, ma non c'é un punto debole in tutto il disco, un crescendo di pathos e perfezione di suoni cristallini, il gospel alternato al country rock, la voce di Dan Stuart a duellare con le tastiere di Cacavas e la chitarra di Chuck Prophet, fino a quel riff finale di The Killer Inside Me, che si chiude drammaticamente con un coro d'archi, quasi a sottolineare che é fino a questo punto che la redenzione ha bisogno d'arrivare, perché o si salva anche l'aspetto più oscuro dentro te - darkness in my mind - oppure non c'é speranza di salvezza per nessuno.

Dopo lo scioglimento del gruppo, per anni nessuno saprà più nulla dei Green On Red; solo Chuck Prophet proseguirà con una più o meno dignitosa carriera solista, di cui l'ultimo capitolo - il recente Let Freedom Ring! - rappresenta uno dei punti più luminosi. Nulla fino ad un'inattesa reunion a Tucson, autunno del 2005, per ricordare assieme lo scomparso ex batterista Alex F. MacNichol e poi all'Astoria di Londra, il 10 gennaio dell'anno successivo, per rifare quel concerto che il gruppo aveva disatteso quasi vent'anni prima, un lontano maggio 1987 in cui il tour veniva bruscamente interrotto ed il leader del gruppo dichiarato senza troppi fronzoli inaffidabile e poco sano di mente. Qualche show in giro per l'Europa, poi il silenzio, sia compositivo che sul palco. Ma in fondo é molto meglio così e le reunions non hanno mai portato poi così lontano, troppo spesso insipide nella loro sostanza di minestre riscaldate. Ma quello che i Green On Red hanno lasciato, per quel che mi riguarda é già abbastanza, non fosse altro la presenza di uno sguardo che, pur disperato, non si stanca di ascoltare il desiderio più profondo che alberga nel cuore e nella mente.
Tempo é passato, quindi, ma tempo che nulla può di fronte a tanto desiderio.
E il sole non smette di brillare di fronte a cuori che continuano a battere ad ogni costo.
Time ain't nothing, when you're young in heart

And your soul still burns.
I'll see rainy days, sunshine in every face
all through the night

(Time Ain't Nothing, Green on Red - No Free Lunch)


Friday, January 15, 2010

SADNESS




Nebbia fitta lungo la strada, così densa che i fari non riescono a sfondarla.
Nebbia fitta e cielo nero, oscurità nella mente. Dall'iPod, acceso in modalità random, escono solo canzoni tristi. Una in fila all'altra, uno dopo l'altro Chris Knight, Lucinda Williams, Neal Casal; e poi Mark Knopfler, i Felice Brothers e pure loro, gli Handsome Family, i diseredati e i maledetti, i crepuscolari e decadentisti per eccellenza dell'alternative country. Non le ho scelte io queste canzoni ma oggi va bene così, oggi in questo giorno di morte e di dolore.
Mentre le ascolto la mia mente é un misto di preghiera e di pensieri. E le canzoni tristi non accentuano oggi il mio dolore, ma lo costringono ad avere senso e consistenza. Era proprio Ronnie Sparks, che giunse a dire un giorno: "le canzoni tristi sono differenti dalla vera tristezza. Le canzoni tristi ci ricordano perché dobbiamo apprezzare tutte le cose buone della vita. L'oscurità nella pittura é un modo per far emergere la luce". (1)

Ho cercato di far emergere quella luce ed ho provato ad abbracciare il dolore tutto il giorno.
Tutto ciò che sa di strano, scomodo e inatteso. Il dolore incontrato negli ammalati in ospedale, le difficoltà e le contraddizioni, il desiderio non solo di curarli, ma di prendermene cura veramente. Ho accolto il loro bisogno ed il mio. Ed ho accolto anche il male dentro me nel constatare la mia incapacità, braccia e pensieri incapaci di rispondere al desiderio del cuore più profondo. Ho abbracciato tutto questo, tutto ciò che sa di strano, scomodo e inatteso dentro me, il desiderio d'essere diverso e la schizofrenia tra pensieri, parole, opere e omissioni.
Allora e solo allora, ho incontrato finalmente Lui.
Il Dio che prego e a cui ricorro, é l'Uomo dei dolori. che ha gridato il suo gigantesco perché un giorno sulla croce. Solo un Dio che ha provato l'abbandono (2) può fare compagnia a chi oggi ha perso tutto, compresa la fiducia in Lui. Non conosco altro che Cristo e Cristo crocifisso (3), disse San Paolo un giorno. Quello é il Dio che conosco anch'io e per il quale posso dare la vita, Colui che può portare il peso del mio fallimento quotidiano, Colui che può abbracciare una tragedia come quella che oggi é sotto gli occhi di tutti.

In un bell'editoriale su Avvenire, Davide Rondoni dice che, di fronte a circostanze come la catastrofe di Haiti ci sono solo due possibilità: "o si prega o si maledice Dio. O si é credenti o si diventa contro Dio. Una delle due. E se il cristiano dice di essere quello che prega, invece di esser l'uomo che maledice, non lo fa per sentimentalismo. Non lo fa per comodità. Anzi é più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero" (4).
Allora, se c'é da scegliere, scelgo di stare dalla Sua parte. Dalla parte di Uno che ha abbracciato il destino di quest'umanità, facendosi uomo e provando sulla croce lo strazio dell'abbandono del Padre. Se l'Uomo dei dolori é in grado di abbracciare il mio dolore e la mia contraddizione, allora posso provare ad abbracciare anch'io il niente che sono e che sento dentro me.
E se riesco a fare questo, posso provare a guardare in faccia anche alla tragedia di Haiti.
Senza maledire il cielo.





Note:
(1) tratto da: Fabio Cerbone - Levelland. Nella periferia del rock americano - Pacini editore
(2) "Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (vangelo di Marco, 15 ,33-34)
(3) San Paolo, I lettera ai Corinzi, 2,2
(4) Davide Rondoni, "E noi apriamo le nostre palme vuote" , editoriale di Avvenire, 14-1-2010.
il testo a questo link.


Suggerimenti per un aiuto economico:

AFN Azione per Famiglie Nuove – Onlus
Sostegno a distanza
via Isonzo,42
00046 Grottaferrata (Roma)
- Conto corrente postale n. 48075873
- Conto corrente bancario presso: BANCA PROSSIMA
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Causale: Solidarietà per Haiti
(I contributi versati sono deducibili dal reddito)

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(leggi la cronaca e scarica il progetto da sostenere).


Saturday, January 09, 2010

WINTER STAR


In the middle of nowhere, nel bel mezzo del nulla, era esattamente così che si sentiva.
Ed era lì che si finiva per ritrovarci tutti, prima o poi, non è vero Jeff (1) ? Chi più, chi meno, ma spesso le autostrade della mente portavano a quello strano crocevia.
Non riusciva a scrivere, ma neppure a focalizzare in qualche modo i suoi pensieri. Faceva fatica a concentrarsi su tutto e per di più mille paure ed ansie lo assalivano senza preavviso, quando meno se l’aspettava, specie quando si faceva buio.
Nessuna buona ragione, eppure un disagio crescente dentro sé, l’incapacità ad alzare lo sguardo, a concentrarsi su qualcosa, a leggere o meditare su alcunché.
Non che gli dispiacesse così tanto, in fondo, questa strana sensazione d’inconcludenza e d’improduttività. Ci poteva stare, poteva fargli compagnia senza provare troppo scandalo. Non era accidia, non lo faceva apposta a sentirsi in questo modo e poi poteva essere anche una buona scusa: per provare ad osservare un po’ di più tutto ciò che stava intorno, lasciarsi travolgere da suoni, immagini e pensieri, senza opporre troppa resistenza.
Così prese a passeggiare, senza pretese e senza meta, incuriosito da ogni cosa: sassi e persone, alberi e case, luci e sbuffi di vento che investivano il suo volto all’improvviso; finché scorse anche quell’edificio, così bello già sin da lontano. Pietre disposte in armonia, una luce fioca a illuminarle, pietre antiche e una montagna sullo sfondo, fredda come gelida era l’aria che lo avvolgeva da ogni parte. Si stava facendo buio di nuovo, ma le luci erano ancora quelle del crepuscolo, capaci di mettergli in animo un po’ di quella magia che da troppo tempo gli mancava.
Continuò a camminare, finché giunse lì davanti. Viste da vicino, le pietre sembravano ancora più antiche di quanto fossero apparse da lontano; una chiesa dell’anno mille, pensò, mentre la bellezza di quelle forme rapiva sempre più il suo sguardo; poco a poco il disagio della sua mente confusa sembrò svanire, lungo il percorso di quegli sguardi prolungati; immaginò cosa dovessero provare viandanti e antichi cavalieri, stanchi lungo il difficile cammino, quando lo scorgere una croce, posta lassù in alto, diventava punto di riferimento improvviso, per sguardi che puntassero lontano, bisognosi di non perdere la strada lungo un sentiero impervio e poco illuminato.
Ormai aveva deciso di entrare, ma si fermò ancora un poco lungo quelle mura, in compagnia dei dubbi e delle sue paure, quasi indeciso nel volerle lasciar fuori, sole ed al freddo, abbandonate dalla mente. Si fece forza e si scrollò di dosso tutto in un momento: non era la debolezza di se stesso ciò che voleva avesse ora il sopravvento. E, mentre si accingeva ad entrare, pensava a un suono, musica di chitarre d’umana resistenza, quelle che accompagnavano sempre i suoi momenti migliori ed i peggiori. Adesso era suono di una liquida e sinuosa pedal steel guitar, aggrappata alle radici di una tradizione, capace di scacciare i fantasmi dagli infiniti deserti della mente e le armonie che disegnava fecero comparire un sorriso sul suo volto mentre spingeva il portone, così pesante, proprio laggiù, in fondo alla chiesa.
Entrò piano piano, senza far rumore e si sedette in fondo, perché fino al profondo dell’anima e dei suoi pensieri oggi era necessario che scendesse qualcosa di nuovo. L’uomo sul pulpito parlava forte e sicuro e di primo acchito gli mise pure un po’ di timore. Poi il suo volto, d’un tratto, si fece sereno e sorridente e fu solo allora ch’egli riuscì a fare più attenzione a ciò che diceva. “La scienza misura il tempo, la fede misura l’eternità”, disse ad un certo punto e quella frase gli trapassò il cuore dolcemente. Era un uomo di scienza e non aveva fatto altro, fino a quel momento, che misurare il tempo. Eppure spesso, troppo spesso, si trovava incerto ed indifeso, specie in quegli attimi in cui l’oscurità calava intorno a sé. Dopo tutto era una questione di metodo e da bravo scienziato provò ad analizzare quelle strane sensazioni. In fondo non aveva fatto altro che sbagliare l’unità di misura. Cercava la bellezza e la misura era l’eternità. Voleva far da solo ed il metodo era invece chiedere un aiuto. Fidarsi di qualcuno o di qualcosa, ci aveva mai pensato prima d’allora? No, aveva sempre creduto di fare e farsi da sé. Ecco perché i successi e le sconfitte si erano sempre comportati da impostori. Ecco perché ansie e insicurezze crescevano così insostenibili al primo calar della sera.
Ma oggi gli sembrava d’aver compreso qualcosa di nuovo ed inatteso, questa sera che la bellezza gli si era fatta infine incontro sorprendente. Tirò su il volto impolverato dalla strada e la sua voce si unì al coro delle anime che all’improvviso scorse intorno a sé.

Quando uscì da lì trovò di nuovo i dubbi e le incertezze che aveva lasciato fuori al gelo. Li riconobbe subito, anche se li vide in qualche modo stranamente trasfigurati. Non ebbe paura, comunque, di prenderli di nuovo su con sé. Se li mise in tasca come qualcosa di prezioso, qualcosa che l’aveva condotto sino a lì. Tasche di un abito nuovo, quello cucito addosso dalla fede. Riprese il cammino, per tornare lentamente da dove era venuto, ma il passo questa volta era deciso e sicuro.
Ora sapeva dove andare. Aveva molta gente intorno che gli voleva bene. Gente da amare, lungo la strada, ne avrebbe incontrata ancor di più.
Volse lo sguardo verso il cielo, chissà com’erano le stelle della California, quelle che avava cantato Woody tante volte. Anche il cielo di quella sera era pieno di stelle e illuminato dalla luna. In mezzo doveva esserci pure la più bella, quella che aveva guidato i tre re fino a quel bambino. Tante, troppe volte, il cielo gli era parso nero e vuoto, ma stanotte poteva scorgere tutto anche lui.
Sorrise e riprese il suo cammino, sereno ed un poco compiaciuto; la liquida e sinuosa steel guitar aveva ripreso a suonare, mentre lui l’accompagnava allegramente con la mente. Si era rimesso a misurare i pezzi del suo cammino, ma il suono era quello di una canzone senza fine, note di una bellezza che faceva rima con eternità.




Note:
(1) "Noi ci troviamo nel bel mezzo del nulla" (Jeff Tweedy, 1991)