Wednesday, August 28, 2013

MEETING, PERCHE' ?


Perché?
Giacomo Poretti, intervistato tra i padiglioni della fiera prima della presentazione del suo libro - Alto come un vaso di gerani - non riesce a non strappare sempre un sorriso a chi gli sta di fronte. "Puoi fare tutte le cose strampalate del mondo e nessuno te ne chiede conto: dall’albergo a 12 mila euro a Dubai, all’affittare un utero in India a 3.500 dollari, anzi, in alcuni casi non devi dire niente sennò la libertà è messa in discussione. Ci sono tante cose strampalate, ma se vai al Meeting, tutti ti chiedono “perché”? Ecco, partecipare ad un evento giunto ormai alla 34^ edizione e definito in tutti i modi, anche i più spregevoli possibili - specie da chi non ha mai provato a metterci piede - ha bisogno di una spiegazione. "Significa che c'è un pregiudizio", suggerisce Giacomo.
Eppure chiedere non é mai esercizio inutile. Soprattutto su se stessi. Aiuta a tenere vivo lo sguardo. E allora, perché? Perché, come da molti anni a questa parte, anch'io torno al meeting, accompagnato dalla mia famiglia? Perché siamo tutti felici di prendervi parte anche stavolta, da mia moglie ai miei figli, dai dieci ai cinquant'anni, infanzia, adolescenza, gioventù ed età adulta, tutti accomunati dallo stesso desiderio? C'è bisogno di chiederselo, ogni volta, certamente. E' necessario come é necessario tenere sempre desta la domanda dentro al proprio cuore. Quella domanda di felicità e di bellezza che ti consente di mettere giù i piedi dal letto al mattino. Ogni giorno come se fosse la prima volta.

Benvenuti, buongiorno!
Benvenuti. E' la prima parola che mi accoglie a Rimini, appena un istante dopo aver lasciato la macchina al parcheggio. Buongiorno é la seconda. Un augurio di buongiorno come quello a cui ci ha abituato papa Francesco, fin dal giorno della sua elezione, affacciato dal balcone di San Pietro. 
Il buongiorno di oggi ha il volto di un volontario del meeting, sorridente. Uno tra le centinaia di volontari che servono agli stands od al fast-food; che fanno servizio d'accoglienza e che ti vendono i biglietti della lotteria. O che lavorano al parcheggio. Tutto il giorno sotto il sole, senza poter vedere una mostra od assistere ad un incontro. E che tornano a casa dicendoti, felici, d'aver fatto un'esperienza. Di bellezza e di fraternità. E' già una buona ragione per essere qui. Un augurio di benvenuto e di buongiorno con una faccia così.

Claire Ly.
Bangkok, novembre 1990. Entro per caso in Asia Books, enorme libreria della capitale tailandese. Internet non l'hanno ancora inventato. Lo shock culturale dell'occidentale che sbarca in oriente é qualcosa che accade veramente, in un mondo dove la globalizzazione non esiste ancora e le informazioni non circolano così velocemente. Le notizie le leggi ancora sui giornali, le informazioni le apprendi dalla tv. M'imbatto casualmente nel libro di Molyda Szimusiak, bambina ai tempi del genocidio cambogiano operato dal regime di Pol Pot. Non so nulla di quel paese, quella Cambogia più sfortunata di altri paesi sfortunati, un terzo della popolazione sterminato in poco più di cinque anni da una folle ideologia. Negli anni leggerò ed imparerò qualcosa su ciò che avvenne tra il 1975 ed il 1979 in quella terra del sud-est asiatico. E tra i tanti libri, troverò anche quelli di Claire Ly.
Oggi é qui al metting anche lei, finalmente la posso vedere di persona. Claire, marito, padre e fratello sterminati dal regime, scampata per miracolo alla morte con la figlia piccolina, finita nei campi profughi di Tailandia, prima di sbarcare in Francia, dove provare a ricostruire un'esistenza possibile. Claire é una dei tanti testimoni incontrati qui a Rimini. Racconta della sua conversione dal buddismo al cristianesimo, delle tappe del suo cammino incontro al Dio degli occidentali. Quel Dio inizialmente maledetto, associato all'ideologia marxista venuta da lontano, che si é portata via tutto quello che c'era di vivo in Cambogia. Ma poi reincontrato nel campo profughi, ed improvvisamente fattosi presenza: "questo silenzio é così strano! Non lo sento solo come un'assenza di rumore, ma come un'assenza abitata". Dio che diventa Vangelo - la presenza si fa parola - e infine persona, da incontrare dentro un'esperienza. Oggi Claire Ly, "discepola di Gesù Cristo" é una donna che non porta più alcun rancore, ma crede nel dialogo e nella fraternità, nel sogno di un'umanità riconciliata. Il deserto del cuore, che grida in un campo di sterminio, é stato abitato a poco a poco da un Altro. E quando la folla del meeting applaude il suo percorso, Claire, mentre saluta tutti, le mani giunte ed il capo un poco chino, chiede che quell'applauso non vada a lei, ma salga direttamente a Dio.

Johnny Cash. La musica. E la festa.
Stasera c'è un gruppo di giovani abruzzesi, che suona le canzoni di Johnny Cash. Il cantante solista, ha una voce baritonale impressionante: sembra davvero the man in black, il monumento della musica country americana. Tra una canzone e l'altra un narratore racconta la sua vita, mentre i testi delle canzoni scorrono alternati alle immagini, sullo schermo alle spalle della band. C'è dentro tutto, in quella musica, riprodotta con una resa quasi eccezionale. Gioia e tristezza, morte e resurrezione che accompagnano il pubblico che affolla lo spazio meeting delle piscine. Puoi piangere, ridere e ballare, insieme a quelle canzoni. Lasciare che i brividi scorrano sotto la tua pelle, farti interrogare dall'ultima canzone, Hurt, mentre le immagini di un Cash appena settantenne, ma dal volto scavato dalle rughe di cent'anni di strada, scorrono sul video. Immagini tra le quali, ogni tanto, passa anche una croce. E' lancinante la voce di Cash, come scrive l'amico Riro Maniscalco: "rotta dagli anni, ma anche da una commozione vera, da un indomabile bisogno di bene. E' la verità della condizione umana senza redenzione che però grida che vuole essere redenta" (1).
La sera dopo é quella della festa. L'ultima sera al meeting, condotta magistralmente da Walter Muto, che tiene in pugno una folla di ragazzi di almeno trent'anni più giovani di lui. E di Carlo Pastori, di Paolo Jannacci, della musica irlandese. Per continuare a sorridere, ballare ed inebriarsi. Non di ciò che ottunde o cancella la coscienza dell'uomo. Ma di ciò che la sostiene. Musica come qualcosa che "ha in sé la vita che costruisce, la risata degli angeli, il pungolo del diavolo, lo zampillo del Fionn Glas, la voce della dea Eco, un piccolo mistero, un leggero fastidio, e la pià assoluta promessa di futuro" (2)

Benvenuti a casa Chesterton!
Vai a vedere le mostre del meeting e ti accorgi che - anche qui - ogni volta é un'esperienza. E capisci perché ognuna di esse debba essere guidata. I volontari che accompagnano i sempre numerosissimi visitatori non sono persone di buona volontà che hanno mandato a memoria un gruppo di nozioni. E' gente che ha fatta sua una storia, lasciando che entrasse a poco a poco nella sua esistenza per interrogarla, farle scoprire qualcosa di nuovo e appassionante. Per poi trasmettere tutto questo agli altri. Quella di Chesterton é una storia che ti riporta sulla strada verso casa dopo essere uscito dalla porta, aver girato il mondo, ed essere rientrato dalla finestra. E' una storia che ti fa capire che l'Infinito passa per forza attraverso il limite dell'umano perché é questa la strada che Egli ha scelto per rendersi visibile. E allora é affascinante percorrere una mostra che si svolge dentro la ricostruzione dei locali della casa dell'autore inglese, nella quale la nostra guida c'invita ad entrare come ladri, quasi a voler trovare il modo di carpire qualcosa del suo genio, con passaggi da una stanza all'altra che si compiono entrando da un armadio o passando attraverso il camino della cucina. Il cielo in una stanza é aver percepito l'eroicità ed il "per sempre", scritto in ogni istante di quotidiano, anche quello che appare più futile e noioso.
Accadranno altri miracoli di stupore, andando dietro alle guide che raccontano della testimonianza della chiesa russa ortodossa durante il regime sovietico, o di quello sguardo incantato di Benedetto XVI, piantato fisso sul velo di Manoppello. La luce che risplende nelle tenebre é quella che, inaspettatamente, risplende ogni istante nel tuo cuore. A volte basta davvero poco per riaccendere la luce.


Il mio nome é Pietro.
Quando Pietro Sarubbi riceve da Mel Gibson il compito d'impersonare Barabba nel film "The Passion", non é che sprizzi gioia da tutti i pori. Si sente sottovalutato come attore, deve recitare un personaggio che nel film non dice neanche una battuta. Di fronte alle sue rimostranze, Gibson si spazientisce: "che differenza credi ci sia tra Barabba che non parla e Pilato che parla dieci minuti in aramaico?  Quello che il pubblico capirà é quello che passerà dagli occhi di Gesù ai vostri occhi". Così comincia a fidarsi, a seguire le indicazioni del regista, persino quella bizzarra di non incrociare mai lo sguardo dell'attore che impersona Gesù fino al momento in cui, nel film, Barabba guarderà davvero negli occhi di Gesù. E lì accade qualcosa di speciale: "Sono colpito dalla profondità del suo sguardo. Mi aspettavo dolore, rabbia, delusione, paura, amarezza, e invece nulla di tutto questo: in quello sguardo vedo quasi una dolce accettazione. Non é uno sguardo feroce, ma dolce e misericordioso, quasi di preoccupazione per me e per la mia condizione, ed accade una cosa unica nel suo genere e nella sua imprevedibilità: mi perdo in quello sguardo, nello sguardo di Gesù, rimango forse un minuto con gli occhi dentro quello sguardo, immobile, a bocca aperta" (3). Quella che segue, nella vita di Sarubbi, é una corsa incontro a una fede ritrovata nel Signore, finché un giorno un altro regista, Giampiero Pizzol, alla sua richiesta di scrivere per lui una pièce teatrale su Barabba, decide di affidargliene invece una su San Pietro, il personaggio che Gibson non gli aveva voluto far fare allora. Pietro Sarubbi, che ora, invece di san Pietro, vorrebbe recitare solo Barabba, si ritrova nei panni del pescatore scelto da Gesù e lo porta in scena, anche qui al meeting ed é un successo da tutto esaurito. "Solo io, con la mia valigetta, con dentro il mio povero costume di scena, solo io di fronte alla grandezza della vita che affronto, un po' come si sarà trovato il povero Simone, con la sua povera sacca da pescatore, i suoi sdruciti calzari e la barba incolta davanti al Messia che gli cambiava il nome, lo faceva rinascere uomo nuovo pur lasciandolo com'era, ne cambiava il cuore e attraverso quello lo cambiava tutto". (4)

Siria. Testimoni. E le risposte ad un perché.
L'ultimo incontro al meeting passa attraverso il racconto dei fatti recenti di Siria. Antranig Ayvazian e Nawras Sammour sono testimoni oculari di una strage che non ha risparmiato tutti i cristiani e le loro chiese. Processi in piazza fatti persino a croci di legno e statue della Madonna, decapitate perché considerate segno d'idolatria. E quando, a conclusione dell'incontro, Massimo Ilardo, direttore per l'Italia di "Aiuto alla Chiesa che Soffre", legge una preghiera per i siriani proiettata sullo schermo, ecco accadere qualcosa di speciale: il pubblico in platea, prima sommessamente, poi sempre più forte, si unisce spontaneamente con la propria voce, sino a diventare un coro appassionato che sembra far giungere le proprie lacrime al cielo. 
E' solo in quell'istante che affiora la risposta al mio perché, quello che non ho smesso di domandarmi tutto il tempo. Perché tornare al meeting ogni volta, perché tenere desta quella domanda di significato che ha sempre a che fare con l'attesa e la speranza. Attesa e speranza come sinonimo di vita, perché é quando non si attende e non si spera che non si domanda nulla, ed allora é come essere già morti. La risposta al tuo perché é l'aver incontrato, ancora una volta, dei testimoni.  In questo nostro tempo che non é più quello dei maestri - poco ascoltati ormai - ma di testimoni che riescano ad attirare il nostro sguardo. E' questa l' "emergenza uono" - titolo del meeting di quest'anno - che sentivi battere forte dentro al tuo cuore. "Che cos'é il meeting per te?", é stato chiesto a qualcuno. "Un luogo dove s'incontrano storie e persone straordinarie. E si esce col cuore pieno", é stato risposto.
Quel cuore pieno, fuori da qui, ora non ne vuole più sapere di star solo. Vuole andare incontro a tutte quelle periferie dell'esistenza che abitano ad un passo da sé. Al lavoro, a scuola, sul pianerottolo di casa. E fare esperienza di pienezza e di bellezza. Per poi magari ritornare a raccontarne. Con quattro amici al bar o un altr'anno, di nuovo qui, al meeting. Per non smettere di domandarsi un perché. Sempre pieno d'attesa e di speranza.




Note:
(1) Walter Gatti et al. - Amazing Grace - 2010, Itaca ed.
(2) Tre accordi e il desiderio di verità - a cura di John Waters - mostra XXXIII edizione del Meeting - 2012, Soc. Editrice Fiorentina
(3) Giampiero Pizzol, Pietro Sarubbi - Il mio nome é Pietro - ed. Mimep
(4) ibid.

Thursday, August 01, 2013

CAHIERS DE FRANCE (14) - LE VEILLEUR ASSIS

Une entrée, un plat, fromage et dessert. Come dire: primo, secondo, formaggio e dolce, solo che qui, da queste parti, il primo non ce l'hanno mai e quindi devono sempre inventarsi un modo per cominciare a mangiare. L'entrée di oggi, ad Arles, é un'improbabile salade tomato et mozza, molto più lontana da una caprese di quanto disti il confine di stato da qui. E infatti neppure Alain ce la fa a mangiarla tutta, lascia il piatto a metà e passa direttamente al riso alla spagnola, una sorta di paella molto più riuscita della portata precedente e che dice tutto di quell’anima che i camarguéns sentono sempre divisa tra la voglia d’essere un po’ spagnoli e un po' francesi. Arrivato ai formaggi, allora sì che un francese potrebbe avere qualcosa da dire di suo, se è vero che Winston Churchill avrebbe salvato questo paese durante la seconda guerra mondiale anche solo per questo. Ma Alain non ce la fa, smette di mangiare e si volta, ha troppa voglia di parlare. “Italiens?”: sì, certo che lo siamo - italiani - lo capite subito anche dall’accento con cui tento ogni volta di parlare il più correttamente possibile la vostra lingua. E non importa se la mia conversazione non riesce a reggere la sua: ad Alain va bene così, che lo si stia anche semplicemente ad ascoltare. “Le cose vanno male qui da noi – ci dice – con il governo Hollande c’è sempre più immoralità e il paese va giù, sempre più giù”, aggiunge, accompagnando le parole con un’eloquente gesto della mano. Alain vive a Bordeaux e fa il commesso viaggiatore. Trent’anni da sottufficiale dell’aeronautica francese, poi, per qualche motivo che non ha voglia di spiegare, ecco arrivare il benservito e via ad inventarsi un nuovo mestiere, con moglie e tre figli grandi da mantenere. “Quando sono riuscito a riprendere il lavoro, il mio salario era più basso del 35%”, ci dice con un sorriso. E racconta di una vita dura: su e giù per il paese, dal lunedì al venerdì, a casa solo per il weekend, ogni giorno un albergo diverso. Lo sguardo, per un attimo si fa triste: non c'è niente da fare, chi viaggia per lavoro non è mai felice. Un senso di libertà e d'indipendenza che non valgono mai il prezzo degli affetti che abitano sulla strada che porta verso casa. “Domattina colazione alle sette e alle otto partenza, via verso Tolone, - aggiunge con una smorfia del viso - il y a toujours le bouchon à Toulon, c’è sempre coda per entrare in città”. “Ah, ma poi vado a prendere mia moglie e ce ne andiamo in vacanza pure noi, verso Gap e la Durance, conoscete la Durance? E' una bellissima regione ed io e mia moglie abbiamo bisogno di calma, lei ha un tumore, la radioterapia, la chemioterapia, vous savez...”. Sì lo sappiamo Alain, lo sappiamo bene. “Che mestiere fate?”, chiede a me ed a mia moglie. Io faccio il medico in ospedale - gli rispondo - e mia moglie l’infermiera, lavora in oncologia. “L’avevo capito…”, aggiunge lui. E come avevi fatto a capirlo, Alain? Noi avevamo provato soltanto ad ascoltarti, col nostro francese sgrammaticato e arrugginito, senza riuscire ad aggiungere parole adeguate, ma solo qualche sorriso abbozzato qua e là, di fronte a tutta la tua vita raccontata in un istante.
Andiamo a prendere il formaggio ed il dessert, adesso sì, forse possiamo pure riprendere a mangiare. Alain si alza, viene a servirsi con noi al buffet. Ripenso a quelle sue parole sull’immoralità del paese, che scivola sempre più giù. Nessuna supponenza, nessuna grandeur, francesi o italiani non fa nessuna differenza se ciò che ti accomuna è il desiderio di verità e bellezza. Quando lo vediamo in piedi, all’improvviso sembra uno di loro: les veilleurs debout che hanno riempito le piazze di Parigi con la loro speranza in un mondo migliore: “Reprends courage, l’espérance est un trésor / meme le plus noir nuage, à toujours se frange d’or”. Alain che, da seduto, ci ha raccontato del suo lavoro, tutti e giorni in auto sulle strade di Francia, dei suoi figli e di sua moglie ammalata di tumore. Alain che, in piedi, ci ha salutato col sorriso. Il sorriso della speranza, che non ha ancora smesso di far battere il suo cuore.