Friday, December 27, 2013

THE BAND IN A CIRCLE

Quando Mike Scott chiama con un pretesto Steve Wickham ed Anto Thistlethwaite nella migliore sala d'incisione di Dublino, la loro band - The Waterboys - sta cavalcando da poco l'onda di un successo inatteso, generata dall'uscita dell'album "This Is The Sea". Entrando in una delle stanze dello studio, i musicisti vedono all'improvviso  i loro strumenti posti in bella mostra e pronti all'uso, rimanendo sulle prime piuttosto sorpresi.  Ma lo stupore lascia presto spazio al divertimento ed al gioioso desiderio di mettersi ancora una volta a suonare insieme: "nel miglior spirito che potessimo immaginare d'avere, mettemmo le sedie in cerchio, e cominciammo a suonare". Sarà solo la prima delle numerose sessions che porteranno, alla fine, all'incisione di quel capolavoro che ancora oggi é "Fisherman's blues", il disco che il gruppo fece uscire due anni più tardi, nel 1988. 
Waterboys, ovvero la bella voce di Mike Scott, sottesa dalla chitarra o dal suo pianoforte "Old England style", originalmente colorata dall'incredibile violino di Steve e dai riff di mandolino o dalle sottolineature del sax di Anto. Waterboys, acronimo di Yeats, come già intelligentemente intuito da qualcuno, ma anche nome di un gruppo di musicisti in grado di portare tutta la poesia delle proprie radici letterarie e culturali in un affascinante miscellanea di suoni; gente capace di mescolare, come nessun'altro era stato forse in grado di fare sino ad allora, la musica celtica con il country di Hank Williams e le canzoni gospel della più autentica anima d'America.
Le sessions di Dublino sarebbero già state in grado di riempire, in quel lontano 23 gennaio del 1986, lo spazio di un intero disco, che molti gruppi musicali d'allora avrebbero volentieri comperato a scatola chiusa pur di costruirvi sopra la propria carriera. Ma la strada da percorrere sembra ancora lunga, in quel momento, per i ragazzi d'acqua, ricca di crocevia e percorsi affascinanti pronti ad aprirsi all'improvviso, viaggiando per altre sedute in studio da una sponda all'altra del mare - Dublino e Berkeley non sono poi così lontani tra loro quando la musica è sincera - ascoltando consigli da chi sa cosa voglia dire produrre musica davvero (quel Bob Johnston che ebbe incontri ravvicinati con Dylan e Leonard Cohen), per tirare le somme, infine, sulle colline della contea di Galway, nella tranquillità e bellezza di un cottage, adagiato sopra alle onde ed al vento di quel Mighty Atlantic che nello stesso periodo sta così bene ispirando anche i Runrig, fratelli di sangue delle Highlands scozzesi.

Ripercorrere oggi il cofanetto di sei cd, "Fisherman's Box", che racchiude tutte le 121 canzoni che portarono al vinile dell'88  e che a tutt'oggi rimane vetta mai più raggiunta dalla band, é operazione che porta a struggente e pericolosa nostalgia dei tempi andati. Già, perché troppo bella fu la favola dei Waterboys perché potesse durare a lungo. Troppo lunatico Mike Scott, sempre esigente col desiderio di bellezza e spiritualità scritto nel fondo del suo cuore e troppo incapace, ahimé, di tenere assieme un gruppo di musicisti così vitali e che sarebbero stati sicuramente capaci di produrre qualche altra gemma negli anni a venire. Ci misero poco, i Waterboys, a sciogliersi dopo Fisherman's Blues. Ci mise poco, lo stesso Mike Scott, a perdersi in una carriera solista che lo avrebbe portato in rivoli secondari, troppo lontani dall'alveo di quel meraviglioso fiume in piena navigato a  fine anni ottanta. E troppo anacronistica appare, tutto sommato, la recente reunion della band, seppure passata non indifferente a molti, in più di un concerto, anche dalle nostre parti.
Ma sebbene questa sia la storia, non fa comunque male rivisitare oggi - e nella sua fase più ispirata - quella che fu la strada di un gruppo capace di lasciare nella musica il proprio segno, piccolo o grande che sia, ma indiscutibilmente unico e affascinante.

Un disco lungo sei cd, da ascoltare con calma, dunque, a piccole dosi, lasciandosi rapire non solo dalle note, ma dalla minuziosa descrizione che Scott fa di ogni circostanza che ha portato all'incisione di ogni singola canzone (un bellissimo libretto, tutto da leggere), sia che si tratti di piccoli divertissements quali l'esilarante I Miss The Road o di epici brani come la sinfonica versone di Higher In Time. C'è proprio di tutto nell'affascinante viaggio lungo queste incisioni. Le canzoni migliori di quel periodo sono presenti, in versioni diverse e spesso non inferiori rispetto a quelle scelte per la pubblicazione finale: Fisherman's Blues, And A Bang On The Year, You In The Sky, Strange Boat, Saints And Angels, When Will Be Married? e tante altre ancora. Ci sono Bob Dylan e Van Morrison  (quest'ultimo rivisitato in una Sweet Thing in versione più estesa rispetto a quella edita nel 1988, il primo in una Girl Of The North Country, ad esempio, da brivido), da sempre muse ispiratrici per Mike Scott. Ci sono canzoni country o gospel improvvisate, rapite dalla tradizione, fatte proprie e rimaneggiate, sino a rinascere in nuove canzoni, non meno belle di quelle tradizionali. Canzoni prese sul serio o per scherzo, da chi sa passare con disinvoltura da Will The Circle Be Unbroken a Sgt Pepper's o This Land Is Your Land, senza far rivoltare Woody Guthrie o qualche Beatle nella tomba, che, anzi, ti sembra quasi di vederli per un attimo sorridere nascosti, quasi a dire che beh, sì, ci sono eredità che per fortuna non vengono smarrite per sempre.
Si potrebbe andare avanti a lungo a parlare di un disco capace di farti passare dalla baldanza allo struggimento, di farti ballare o piangere di malinconia, ma é molto meglio trovare il proprio tempo ed ascoltarlo. E pazienza se si tratta di roba vecchia che, peraltro, non pare affatto consumata. Ed é bello, ascoltando l'ultima canzone - quella Buckets Of Rain di Bob Dylan sottotitolata da Mike Scott con "fai ciò che devi fare e fallo nel migliore dei modi" - lasciare che scorrano i titoli di coda; sono ringraziamenti ad amici, musicisti, tecnici, collaboratori e, alla fine, ad un Altro, riconosciuto come l'artefice di ciò che conta per davvero: "thank you God, for life, love and music". Essere capaci di questo, mettere al posto giusto ciò che vale, é sempre stato il marchio di fabbrica della musica che non muore. Il potere della musica vera, quella che si mette in cerchio ed é capace di donare a chiunque ali per volare.

Tuesday, December 24, 2013

YOU IN THE SKY

Nuvole basse, pioggia sottile. Guido piano, attraverso lentamente la mia città. Oggi l'hai persa, Milano, la tua maledetta, perenne, pazza frenesia. Ed oggi la stai facendo finalmente perdere anche al mio cuore, al mio io sempre indurito dai suoi pensieri. 
You In The Sky é la canzone perfetta per una vigilia di Natale. Pochi accordi e la voce di Mike Scott. S'infila aspra ed acuta tra le auto e le persone. Entra nelle case, trafigge i grattacieli, accarezza le torri del Monumentale. Canta di un desiderio di bellezza, grida la sua gioia e il suo dolore. You In The Sky. Voglio conoscere il perché di queste nuvole tra me e te. Lascia che ti conosca ed apri il mio cuore. Canta la tua canzone, dritta dentro me.
Cosa può mai venire di buono da Nazareth? Ma Nazareth oggi é questa mia città, la Tua città. La Tua canzone che canta dritta dentro il mio cuore. il Verbo di Dio si é fatto carne, tra i grattacieli e le gambe delle persone. Dio in noi é divenuto Dio in mezzo a noi. E questo solo mi basta ad andare avanti lungo la mia strada. You're so beautiful, now, You in the sky. Tu tra di noi.

Monday, November 25, 2013

WHAT GOOD AM I?


What Good am I then to others and me
If I've had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been?

What good am I if I say foolish tings
And I laugh in the face of what sorrow brings
And I just turn my back while you silently die
What good am I?

Scrivere del passaggio di Dylan al teatro degli Arcimboldi di Milano, a quasi un mese di distanza ed a ridosso dei concerti alla Royal Albert Hall di Londra - uno di quei ritorni che bastarebbe da solo a giustificare fiumi di parole e di pensieri - parrebbe esercizio inutile, se non fosse che, in fondo, queste righe non stai facendo altro che scriverle al tuo cuore. 
Ho guardato il vecchio Bob mentre cantava. L'ho sentito mentre la sua voce s'insinuava cristallina tra le pieghe più nascoste della pelle. Ho fatto un sussulto dopo "What good am I?", quando il suo pianoforte é diventato all'improvviso quello del Beacon Theatre di New York o dell'Hammersmith Odeon di Londra, concerti ascoltati su nastri fruscianti di mille anni fa, ma vissuti come se fossi stato là da sempre, in prima fila. Un pianoforte che oggi appare in primo piano, ma che allora era poco più di una sagoma nera, trascinata da uno show all'altro, oggetto misterioso che prende forma una sera qualunque e senza preavviso. "Was that ok?" aveva chiesto quella volta a Londra, ma nessuno l'aveva sentito. "The crowd went bananas" - aveva scritto Clinton Heylin, lo stesso autore chiamato oggi a raccontare in un libretto la storia intera di Dylan, nel cofanetto con la discografia completa che la Columbia ha appena immeso sul mercato. "La folla era impazzita", aveva scritto Heylin, sorpresa da una "Disease of Conceit" troppo bella per essere vera, suonata da quell'uomo che, in un modo o nell'altro, finisce per sorprenderti sempre. Suonata su di un pianoforte, oggetto di sorpresa almeno quanto lo sarebbe una chitarra messa a tracolla sulle spalle del Dylan dei tempi d'oggi.

Quanto sia buono Dylan, continuano a chiederselo in tanti, ma é esercizio inutile ed incessantemente svolto ormai da troppo tempo. Cominciarono a Newport, quasi cinquant'anni fa. Lo fecero ancor di più in Inghilterra, poco tempo dopo, tirando fuori personaggi del Vangelo che forse sarebbe meglio lasciare dove stanno. Quanto sia buono Dylan, forse é Dylan stesso a chiederselo di volta in volta, da un palcoscenico all'altro, mentre passeggia sorpreso dai paparazzi su un ponte di Amsterdam, o tra le pieghe del sonno su di un'autobus o di un aeroplano da una città all'altra del mondo del suo neverending show. O mentre dipinge un quadro, oppure, fiamma ossidrica alla mano, plasma una delle sue nuove sculture di metallo.
Quanto sia buono Dylan devi chiederlo a te stesso. Sentire se le corde del tuo cuore sono ancora capaci di vibrare. Le mie, vecchie come vecchi cominciano a diventare i capelli grigi del mio capo, lo hanno fatto un'altra volta, anche se accovacciate sulla comoda poltrona di uno dei teatri più belli di Milano. "What good am I? é speranza non del giudizio buono altrui, ma domanda di riverbero del cuore su ciò che conta veramente, risonanza nell'animo di ciascuno. "Basta poca fede per fare tanta strada", aveva raccontato Bob non molto tempo fa su Rolling Stone,"ma ci vuole tempo per acquisirla: bisogna continuare a cercarla".
Non chiamatelo Giuda, allora, non fatelo più, neppure alla Royal Albert Hall, dove lo ritroverete tra poco. E continuate la vostra ricerca, almeno quanto sembra fare lui, con costanza e pazienza, che la voce sia diventata rauca oppure tornata cristallina. Perché se c'è una cosa in cui Dylan non ha proprio mai tradito é nell'andare incessantemente a caccia del desiderio profondo di felicità che abita nel suo cuore. Ci sarebbe da continuare ad andargli dietro anche solo per questo. Lasciandoci attraversare dalle sue canzoni. E per non dimenticarci di fare la stessa cosa col nostro. Perché non sia assopito, mai.

Tuesday, October 15, 2013

IN PANCHINA

Ogni tanto ti succedeva anche questo. Che, in quella vita da mediano a fare compagnia al Mistero, ti ritrovassi anche in panchina. E che, vista da quell'osservatorio, la partita non sembrasse neppure più la stessa. La prospettiva cambiava del tutto. Vedevi le retrovie e il gioco di squadra, sentivi al tuo fianco la sofferenza dell'allenatore, condividevi attese e speranze con gli altri giocatori seduti accanto a te. Non era stato per nulla facile, all'inizio. A nessuno piace stare fermo mentre gli altri rincorrono la vita in gioco. Tuo malgrado, ti toccava subire la decisione altrui. Stare lì e fare il tifo per la squadra, mettendoci la stessa passione di sempre. In campo con gli altri, fuori dal campo.
Era stato così che, talvolta, tolto il camice, ti accadeva di sederti al fianco di chi amavi. "Potete accomodarvi fuori, per favore?", e tu ti accomodavi, mentre i tuoi colleghi facevano il giro visita degli ammalati o l'impiegata dell'impresa di pulizie passava a pulire la camera. La stessa tensione di tutti per avere notizie su un esame; l'attesa interminabile di uno sguardo, l'attenzione su un particolare, mentre la cartella clinica stava riposta lì, inaccessibile, dentro un carrello non tuo, non del tuo reparto, non del tuo ospedale.
Più ti faceva male tutto questo, più incominciavi a capire. Il bisogno di una spiegazione o di un minuto in più, rubato da altri al tuo frenetico lavoro. Quelle richieste dei pazienti e dei loro familiari, che hanno sempre, dietro e dentro sé, un bisogno di significato. Perché questa malattia, perché proprio a me e non ad un altro; perché siamo qui, tutti assieme in squadra, a fare da compagnia al misterioso disegno che prende in mano la nostra vita e la conduce.
Ogni volta tornavi a casa un po' più ricco di prima, quel passaggio in panchina ti faceva sempre bene. Non che non avessi voglia di giocare, ma cominciavi ormai ad essere un po' stanco. Che poi, da quella panchina, talvolta, capitava pure di veder giocare dei mediani che erano peggio di te. Ma quella prospettiva, quando eri in campo, non riuscivi mai a coglierla così bene, anche quando la palla te la passava Messi. Avevi bisogno, di tanto in tanto, di startene un po' seduto lì. Era lo sguardo dell'Allenatore, quello che ti serviva. Solo ascoltando Lui, una volta rigettato nella mischia, capivi quale posizione in campo fosse stato giusto tenere.
Fu così che una voglia nuova di giocare ti tornò, proprio quando, i capelli grigi e i muscoli ormai stanchi, ti sembrava la stessi perdendo a poco a poco. E magari avresti avuto pure qualcosa da insegnare ai più giovani, cavalli imbizzarriti che desideravano solo correre e stare sempre là davanti. Dargli di gomito, qualche volta, e dirgli "guarda!", come si fa coi vecchi amici. Laggiù in fondo, verso la panchina, dove quel mago di un Allenatore sapeva ridare gioia e motivazioni a tutti quelli che fossero passati da lì. Quella panchina dove, chissà perché, non aveva mai voglia di andare nessuno.

Friday, September 27, 2013

LIBERA TERRA


"So che ci cercherai dentro l'anima", mi aveva scritto Massimo. Ed aveva aggiunto: "la troverai". Eccola qui, allora, una manciata di nuove canzoni dentro le quali andare a caccia di un cuore. Un compito non banale, anche se la dichiarazione d'intenti dell'autore é già scritta sulla copertina del cd: "queste canzoni rappresentano il percorso di un sogno individuale, condiviso, spezzato, cercato o reinventato nello scorrere del tempo". Ali di Libertà, il primo disco d'inediti di Priviero dal 2006 mostra che i binari della ferrovia sui quali l'autore si é incamminato molto tempo fa sono sempre gli stessi. Su quel percorso ci si é inoltrati nel deserto ed impolverati, si é salito colline, ma il senso di quel viaggiare non é cambiato. Perché non é molto vero, in fondo, che l'importante non sia dove si va, ma andare: é necessaria una meta, anche quando incerta, per essere pellegrini e non turisti spettatori della vita.
La miscela musicale è quella infarcita, come sempre, di echi springsteeniani e di Dylan, un tessuto sonoro collaudato, frutto dell'eccellente lavoro dei soliti Gazich, Laviola, Cambise e soci, questa volta impreziosito da suggestioni d'irlanda o tex-mex, quando le cornamuse o la fisarmonica fanno capolino qua e là. Sì, c'è ancora qualche "Scialala" di troppo, forse, ma la voce di Massimo é ancora una di quelle capaci di scuotere qualcosa dentro dal profondo, a patto di mettere il volume dell'autoradio al massimo sulle strade statali che portano verso casa.
Alla caccia dell'anima e del cuore, dunque. Non parrebbe impresa difficile, se si fanno scorrere le canzoni del disco una dopo l'altra, dentro un album autobiografico come non mai. C'è l'orgoglio e lo struggimento che viaggia sul ricordo delle proprie radici ("La Casa di Mio Padre"), la dolcezza d'amori mai sopiti ("Il Mare"), un desiderio d'eredità da lasciare a un figlio, che é molto più del trovarsi a suonare insieme od elaborare un testo prima che giunga l'alba di un nuovo mattino (Tommy Priviero collabora in "Occhi di Bambino" e "In Verità"); c'è l'ostinata intenzione di mettere sempre davanti la fierezza di chi ha fatto del titolo di una propria canzone - Nessuna Resa Mai - l'obiettivo del proprio tirar sera. E c'è, soprattutto, il racconto delle periferie dell'esistenza degli umili e dei vinti, incrociati incessantemente lungo la strada.
Il percorso artistico che Priviero ha disegnato sulla propria storia, dopo un effimero successo iniziale che pochi purtroppo ricordano ancora, si é delineato sempre più dentro solchi di costanza e volontà, che hanno disegnato a poco a apoco una figura di cantautorato rock che più che al Boss assomiglia a forme d'umana resistenza come quelle di uno Steve Earle o di un Chris Knight. Se il rock in Italia esistesse davvero, inteso come qualcosa capace di rendere fertile un terreno dell'anima troppo spesso insidioso e inospitale, allora la musica di Massimo potrebbe essere davvero buon seme da spargere qua e là perché, dopo il lungo inverno, fiori e frutti si facciano vedere nelle prime giornate di sole.

Eppure, dopo un ripetuto ascolto di questo nuovo disco, mi accorgo che a furia di cercare davvero l'anima di Priviero, non é su canzoni come "Ali di Libertà" che finisco per soffermarmi di più. Nelle note di copertina c'è un passaggio, appena accennato, che parla di quegli impostori che la vita chiama successi e fallimenti e che sembrano solo introduzione a tutto quanto Massimo sembra aver voglia di continuare a raccontarci ed a gridare dentro le sue canzoni. Ma se é davvero la ricerca della verità lo scopo di tutto, ciò che si vuol lasciare di sé a chi accompagna il nostro cammino, allora é proprio la consapevolezza del limite quella che si deve fare strada sempre più. Per questo "Madre proteggi" sembra proprio il cuore del disco e non per caso - forse - é canzone che é stata lanciata in rete già mesi fa, molto prima che uscisse questo nuovo lavoro. La consapevolezza della fragilità di un cuore, che lo attraversa sempre anche quando la vita l'ha inesorabilmente irrobustito, é la sola in grado di condurre finalmente ad una meta quell'uomo che continua a camminare sui binari d'una ferrovia, la chitarra a tracolla dietro la schiena e l'orizzonte sfumato, come appare sul retro della copertina del disco. Interpretazioni personali? Certamente. Come ha da accadere - sempre - se la musica non rimane puro intrattenimento ma serve a far bruciare la legna del cuore di chi ascolta. E allora chissà se, nel mio caso, l'ho davvero trovata, l'anima del nuovo disco di Massimo, un invito lasciato in un sms, buttato dentro all'improvviso nel mio telefono cellulare. Ma mi piacerebbe - questo sì - poter avere davvero centrato l'obiettivo, che quell'anima avesse un filo rosso tracciato dai versi di quella canzone: "Madre apri i tuoi occhi, in questa notte mia / guarda tuo figlio, Madre mia".
Gli ultimi due brani del disco (i migliori?), allora - Libera Terra/Il Sogno, Bacio d'Addio - per me possono nascere e crescere solo da qui, da un'intensità di preghiera. L'amore di una Madre, con la "M" maiuscola come é scritto nel testo della canzone. Una promessa d'eternità per ciascuno di quei fragili cuori. La linea dell'orizzonte di una nuova terra, che si scorge e si stempera sulle note dell'armonica e della chitarra acustica dell'ultima canzone.  


"Questa terra é un campo, buono per lavorare
E' una casa in pezzi, che é da ricostruire
Questa terra é un un padre, che torna a casa sua
Questa terra é tua, questa terra é mia"
(Libera Terra - il sogno)

Wednesday, August 28, 2013

MEETING, PERCHE' ?


Perché?
Giacomo Poretti, intervistato tra i padiglioni della fiera prima della presentazione del suo libro - Alto come un vaso di gerani - non riesce a non strappare sempre un sorriso a chi gli sta di fronte. "Puoi fare tutte le cose strampalate del mondo e nessuno te ne chiede conto: dall’albergo a 12 mila euro a Dubai, all’affittare un utero in India a 3.500 dollari, anzi, in alcuni casi non devi dire niente sennò la libertà è messa in discussione. Ci sono tante cose strampalate, ma se vai al Meeting, tutti ti chiedono “perché”? Ecco, partecipare ad un evento giunto ormai alla 34^ edizione e definito in tutti i modi, anche i più spregevoli possibili - specie da chi non ha mai provato a metterci piede - ha bisogno di una spiegazione. "Significa che c'è un pregiudizio", suggerisce Giacomo.
Eppure chiedere non é mai esercizio inutile. Soprattutto su se stessi. Aiuta a tenere vivo lo sguardo. E allora, perché? Perché, come da molti anni a questa parte, anch'io torno al meeting, accompagnato dalla mia famiglia? Perché siamo tutti felici di prendervi parte anche stavolta, da mia moglie ai miei figli, dai dieci ai cinquant'anni, infanzia, adolescenza, gioventù ed età adulta, tutti accomunati dallo stesso desiderio? C'è bisogno di chiederselo, ogni volta, certamente. E' necessario come é necessario tenere sempre desta la domanda dentro al proprio cuore. Quella domanda di felicità e di bellezza che ti consente di mettere giù i piedi dal letto al mattino. Ogni giorno come se fosse la prima volta.

Benvenuti, buongiorno!
Benvenuti. E' la prima parola che mi accoglie a Rimini, appena un istante dopo aver lasciato la macchina al parcheggio. Buongiorno é la seconda. Un augurio di buongiorno come quello a cui ci ha abituato papa Francesco, fin dal giorno della sua elezione, affacciato dal balcone di San Pietro. 
Il buongiorno di oggi ha il volto di un volontario del meeting, sorridente. Uno tra le centinaia di volontari che servono agli stands od al fast-food; che fanno servizio d'accoglienza e che ti vendono i biglietti della lotteria. O che lavorano al parcheggio. Tutto il giorno sotto il sole, senza poter vedere una mostra od assistere ad un incontro. E che tornano a casa dicendoti, felici, d'aver fatto un'esperienza. Di bellezza e di fraternità. E' già una buona ragione per essere qui. Un augurio di benvenuto e di buongiorno con una faccia così.

Claire Ly.
Bangkok, novembre 1990. Entro per caso in Asia Books, enorme libreria della capitale tailandese. Internet non l'hanno ancora inventato. Lo shock culturale dell'occidentale che sbarca in oriente é qualcosa che accade veramente, in un mondo dove la globalizzazione non esiste ancora e le informazioni non circolano così velocemente. Le notizie le leggi ancora sui giornali, le informazioni le apprendi dalla tv. M'imbatto casualmente nel libro di Molyda Szimusiak, bambina ai tempi del genocidio cambogiano operato dal regime di Pol Pot. Non so nulla di quel paese, quella Cambogia più sfortunata di altri paesi sfortunati, un terzo della popolazione sterminato in poco più di cinque anni da una folle ideologia. Negli anni leggerò ed imparerò qualcosa su ciò che avvenne tra il 1975 ed il 1979 in quella terra del sud-est asiatico. E tra i tanti libri, troverò anche quelli di Claire Ly.
Oggi é qui al metting anche lei, finalmente la posso vedere di persona. Claire, marito, padre e fratello sterminati dal regime, scampata per miracolo alla morte con la figlia piccolina, finita nei campi profughi di Tailandia, prima di sbarcare in Francia, dove provare a ricostruire un'esistenza possibile. Claire é una dei tanti testimoni incontrati qui a Rimini. Racconta della sua conversione dal buddismo al cristianesimo, delle tappe del suo cammino incontro al Dio degli occidentali. Quel Dio inizialmente maledetto, associato all'ideologia marxista venuta da lontano, che si é portata via tutto quello che c'era di vivo in Cambogia. Ma poi reincontrato nel campo profughi, ed improvvisamente fattosi presenza: "questo silenzio é così strano! Non lo sento solo come un'assenza di rumore, ma come un'assenza abitata". Dio che diventa Vangelo - la presenza si fa parola - e infine persona, da incontrare dentro un'esperienza. Oggi Claire Ly, "discepola di Gesù Cristo" é una donna che non porta più alcun rancore, ma crede nel dialogo e nella fraternità, nel sogno di un'umanità riconciliata. Il deserto del cuore, che grida in un campo di sterminio, é stato abitato a poco a poco da un Altro. E quando la folla del meeting applaude il suo percorso, Claire, mentre saluta tutti, le mani giunte ed il capo un poco chino, chiede che quell'applauso non vada a lei, ma salga direttamente a Dio.

Johnny Cash. La musica. E la festa.
Stasera c'è un gruppo di giovani abruzzesi, che suona le canzoni di Johnny Cash. Il cantante solista, ha una voce baritonale impressionante: sembra davvero the man in black, il monumento della musica country americana. Tra una canzone e l'altra un narratore racconta la sua vita, mentre i testi delle canzoni scorrono alternati alle immagini, sullo schermo alle spalle della band. C'è dentro tutto, in quella musica, riprodotta con una resa quasi eccezionale. Gioia e tristezza, morte e resurrezione che accompagnano il pubblico che affolla lo spazio meeting delle piscine. Puoi piangere, ridere e ballare, insieme a quelle canzoni. Lasciare che i brividi scorrano sotto la tua pelle, farti interrogare dall'ultima canzone, Hurt, mentre le immagini di un Cash appena settantenne, ma dal volto scavato dalle rughe di cent'anni di strada, scorrono sul video. Immagini tra le quali, ogni tanto, passa anche una croce. E' lancinante la voce di Cash, come scrive l'amico Riro Maniscalco: "rotta dagli anni, ma anche da una commozione vera, da un indomabile bisogno di bene. E' la verità della condizione umana senza redenzione che però grida che vuole essere redenta" (1).
La sera dopo é quella della festa. L'ultima sera al meeting, condotta magistralmente da Walter Muto, che tiene in pugno una folla di ragazzi di almeno trent'anni più giovani di lui. E di Carlo Pastori, di Paolo Jannacci, della musica irlandese. Per continuare a sorridere, ballare ed inebriarsi. Non di ciò che ottunde o cancella la coscienza dell'uomo. Ma di ciò che la sostiene. Musica come qualcosa che "ha in sé la vita che costruisce, la risata degli angeli, il pungolo del diavolo, lo zampillo del Fionn Glas, la voce della dea Eco, un piccolo mistero, un leggero fastidio, e la pià assoluta promessa di futuro" (2)

Benvenuti a casa Chesterton!
Vai a vedere le mostre del meeting e ti accorgi che - anche qui - ogni volta é un'esperienza. E capisci perché ognuna di esse debba essere guidata. I volontari che accompagnano i sempre numerosissimi visitatori non sono persone di buona volontà che hanno mandato a memoria un gruppo di nozioni. E' gente che ha fatta sua una storia, lasciando che entrasse a poco a poco nella sua esistenza per interrogarla, farle scoprire qualcosa di nuovo e appassionante. Per poi trasmettere tutto questo agli altri. Quella di Chesterton é una storia che ti riporta sulla strada verso casa dopo essere uscito dalla porta, aver girato il mondo, ed essere rientrato dalla finestra. E' una storia che ti fa capire che l'Infinito passa per forza attraverso il limite dell'umano perché é questa la strada che Egli ha scelto per rendersi visibile. E allora é affascinante percorrere una mostra che si svolge dentro la ricostruzione dei locali della casa dell'autore inglese, nella quale la nostra guida c'invita ad entrare come ladri, quasi a voler trovare il modo di carpire qualcosa del suo genio, con passaggi da una stanza all'altra che si compiono entrando da un armadio o passando attraverso il camino della cucina. Il cielo in una stanza é aver percepito l'eroicità ed il "per sempre", scritto in ogni istante di quotidiano, anche quello che appare più futile e noioso.
Accadranno altri miracoli di stupore, andando dietro alle guide che raccontano della testimonianza della chiesa russa ortodossa durante il regime sovietico, o di quello sguardo incantato di Benedetto XVI, piantato fisso sul velo di Manoppello. La luce che risplende nelle tenebre é quella che, inaspettatamente, risplende ogni istante nel tuo cuore. A volte basta davvero poco per riaccendere la luce.


Il mio nome é Pietro.
Quando Pietro Sarubbi riceve da Mel Gibson il compito d'impersonare Barabba nel film "The Passion", non é che sprizzi gioia da tutti i pori. Si sente sottovalutato come attore, deve recitare un personaggio che nel film non dice neanche una battuta. Di fronte alle sue rimostranze, Gibson si spazientisce: "che differenza credi ci sia tra Barabba che non parla e Pilato che parla dieci minuti in aramaico?  Quello che il pubblico capirà é quello che passerà dagli occhi di Gesù ai vostri occhi". Così comincia a fidarsi, a seguire le indicazioni del regista, persino quella bizzarra di non incrociare mai lo sguardo dell'attore che impersona Gesù fino al momento in cui, nel film, Barabba guarderà davvero negli occhi di Gesù. E lì accade qualcosa di speciale: "Sono colpito dalla profondità del suo sguardo. Mi aspettavo dolore, rabbia, delusione, paura, amarezza, e invece nulla di tutto questo: in quello sguardo vedo quasi una dolce accettazione. Non é uno sguardo feroce, ma dolce e misericordioso, quasi di preoccupazione per me e per la mia condizione, ed accade una cosa unica nel suo genere e nella sua imprevedibilità: mi perdo in quello sguardo, nello sguardo di Gesù, rimango forse un minuto con gli occhi dentro quello sguardo, immobile, a bocca aperta" (3). Quella che segue, nella vita di Sarubbi, é una corsa incontro a una fede ritrovata nel Signore, finché un giorno un altro regista, Giampiero Pizzol, alla sua richiesta di scrivere per lui una pièce teatrale su Barabba, decide di affidargliene invece una su San Pietro, il personaggio che Gibson non gli aveva voluto far fare allora. Pietro Sarubbi, che ora, invece di san Pietro, vorrebbe recitare solo Barabba, si ritrova nei panni del pescatore scelto da Gesù e lo porta in scena, anche qui al meeting ed é un successo da tutto esaurito. "Solo io, con la mia valigetta, con dentro il mio povero costume di scena, solo io di fronte alla grandezza della vita che affronto, un po' come si sarà trovato il povero Simone, con la sua povera sacca da pescatore, i suoi sdruciti calzari e la barba incolta davanti al Messia che gli cambiava il nome, lo faceva rinascere uomo nuovo pur lasciandolo com'era, ne cambiava il cuore e attraverso quello lo cambiava tutto". (4)

Siria. Testimoni. E le risposte ad un perché.
L'ultimo incontro al meeting passa attraverso il racconto dei fatti recenti di Siria. Antranig Ayvazian e Nawras Sammour sono testimoni oculari di una strage che non ha risparmiato tutti i cristiani e le loro chiese. Processi in piazza fatti persino a croci di legno e statue della Madonna, decapitate perché considerate segno d'idolatria. E quando, a conclusione dell'incontro, Massimo Ilardo, direttore per l'Italia di "Aiuto alla Chiesa che Soffre", legge una preghiera per i siriani proiettata sullo schermo, ecco accadere qualcosa di speciale: il pubblico in platea, prima sommessamente, poi sempre più forte, si unisce spontaneamente con la propria voce, sino a diventare un coro appassionato che sembra far giungere le proprie lacrime al cielo. 
E' solo in quell'istante che affiora la risposta al mio perché, quello che non ho smesso di domandarmi tutto il tempo. Perché tornare al meeting ogni volta, perché tenere desta quella domanda di significato che ha sempre a che fare con l'attesa e la speranza. Attesa e speranza come sinonimo di vita, perché é quando non si attende e non si spera che non si domanda nulla, ed allora é come essere già morti. La risposta al tuo perché é l'aver incontrato, ancora una volta, dei testimoni.  In questo nostro tempo che non é più quello dei maestri - poco ascoltati ormai - ma di testimoni che riescano ad attirare il nostro sguardo. E' questa l' "emergenza uono" - titolo del meeting di quest'anno - che sentivi battere forte dentro al tuo cuore. "Che cos'é il meeting per te?", é stato chiesto a qualcuno. "Un luogo dove s'incontrano storie e persone straordinarie. E si esce col cuore pieno", é stato risposto.
Quel cuore pieno, fuori da qui, ora non ne vuole più sapere di star solo. Vuole andare incontro a tutte quelle periferie dell'esistenza che abitano ad un passo da sé. Al lavoro, a scuola, sul pianerottolo di casa. E fare esperienza di pienezza e di bellezza. Per poi magari ritornare a raccontarne. Con quattro amici al bar o un altr'anno, di nuovo qui, al meeting. Per non smettere di domandarsi un perché. Sempre pieno d'attesa e di speranza.




Note:
(1) Walter Gatti et al. - Amazing Grace - 2010, Itaca ed.
(2) Tre accordi e il desiderio di verità - a cura di John Waters - mostra XXXIII edizione del Meeting - 2012, Soc. Editrice Fiorentina
(3) Giampiero Pizzol, Pietro Sarubbi - Il mio nome é Pietro - ed. Mimep
(4) ibid.

Thursday, August 01, 2013

CAHIERS DE FRANCE (14) - LE VEILLEUR ASSIS

Une entrée, un plat, fromage et dessert. Come dire: primo, secondo, formaggio e dolce, solo che qui, da queste parti, il primo non ce l'hanno mai e quindi devono sempre inventarsi un modo per cominciare a mangiare. L'entrée di oggi, ad Arles, é un'improbabile salade tomato et mozza, molto più lontana da una caprese di quanto disti il confine di stato da qui. E infatti neppure Alain ce la fa a mangiarla tutta, lascia il piatto a metà e passa direttamente al riso alla spagnola, una sorta di paella molto più riuscita della portata precedente e che dice tutto di quell’anima che i camarguéns sentono sempre divisa tra la voglia d’essere un po’ spagnoli e un po' francesi. Arrivato ai formaggi, allora sì che un francese potrebbe avere qualcosa da dire di suo, se è vero che Winston Churchill avrebbe salvato questo paese durante la seconda guerra mondiale anche solo per questo. Ma Alain non ce la fa, smette di mangiare e si volta, ha troppa voglia di parlare. “Italiens?”: sì, certo che lo siamo - italiani - lo capite subito anche dall’accento con cui tento ogni volta di parlare il più correttamente possibile la vostra lingua. E non importa se la mia conversazione non riesce a reggere la sua: ad Alain va bene così, che lo si stia anche semplicemente ad ascoltare. “Le cose vanno male qui da noi – ci dice – con il governo Hollande c’è sempre più immoralità e il paese va giù, sempre più giù”, aggiunge, accompagnando le parole con un’eloquente gesto della mano. Alain vive a Bordeaux e fa il commesso viaggiatore. Trent’anni da sottufficiale dell’aeronautica francese, poi, per qualche motivo che non ha voglia di spiegare, ecco arrivare il benservito e via ad inventarsi un nuovo mestiere, con moglie e tre figli grandi da mantenere. “Quando sono riuscito a riprendere il lavoro, il mio salario era più basso del 35%”, ci dice con un sorriso. E racconta di una vita dura: su e giù per il paese, dal lunedì al venerdì, a casa solo per il weekend, ogni giorno un albergo diverso. Lo sguardo, per un attimo si fa triste: non c'è niente da fare, chi viaggia per lavoro non è mai felice. Un senso di libertà e d'indipendenza che non valgono mai il prezzo degli affetti che abitano sulla strada che porta verso casa. “Domattina colazione alle sette e alle otto partenza, via verso Tolone, - aggiunge con una smorfia del viso - il y a toujours le bouchon à Toulon, c’è sempre coda per entrare in città”. “Ah, ma poi vado a prendere mia moglie e ce ne andiamo in vacanza pure noi, verso Gap e la Durance, conoscete la Durance? E' una bellissima regione ed io e mia moglie abbiamo bisogno di calma, lei ha un tumore, la radioterapia, la chemioterapia, vous savez...”. Sì lo sappiamo Alain, lo sappiamo bene. “Che mestiere fate?”, chiede a me ed a mia moglie. Io faccio il medico in ospedale - gli rispondo - e mia moglie l’infermiera, lavora in oncologia. “L’avevo capito…”, aggiunge lui. E come avevi fatto a capirlo, Alain? Noi avevamo provato soltanto ad ascoltarti, col nostro francese sgrammaticato e arrugginito, senza riuscire ad aggiungere parole adeguate, ma solo qualche sorriso abbozzato qua e là, di fronte a tutta la tua vita raccontata in un istante.
Andiamo a prendere il formaggio ed il dessert, adesso sì, forse possiamo pure riprendere a mangiare. Alain si alza, viene a servirsi con noi al buffet. Ripenso a quelle sue parole sull’immoralità del paese, che scivola sempre più giù. Nessuna supponenza, nessuna grandeur, francesi o italiani non fa nessuna differenza se ciò che ti accomuna è il desiderio di verità e bellezza. Quando lo vediamo in piedi, all’improvviso sembra uno di loro: les veilleurs debout che hanno riempito le piazze di Parigi con la loro speranza in un mondo migliore: “Reprends courage, l’espérance est un trésor / meme le plus noir nuage, à toujours se frange d’or”. Alain che, da seduto, ci ha raccontato del suo lavoro, tutti e giorni in auto sulle strade di Francia, dei suoi figli e di sua moglie ammalata di tumore. Alain che, in piedi, ci ha salutato col sorriso. Il sorriso della speranza, che non ha ancora smesso di far battere il suo cuore.

Thursday, June 06, 2013

HARD RAIN

Tre del mattino, é sempre un bell'orario. Potresti essere davanti alla solita macchinetta del caffé, per esempio. O in giro per la città, dopo il concerto a San Siro del Boss, quello che ti sei perso per l'ennesima volta. E invece hai appena finito di compilare una cartella clinica.
Il cuore di Frankie ha finalmente smesso di ballare, una sorta di Twist & Shout, ripasso di tutte le aritmie del pentagramma, dalla fibrillazione ventricolare a quella atriale. Ora il ritmo é quello sinusale e batte regolare come una vecchia ballata folk. Rianimato e ripreso, quel cuore é tornato a fare compagnia ad un'anima, tormentata da anni dalla pioggia e dagli uragani improvvisi di una schizofrenia paranoide che sempre l'accompagna. Lo guardi respirare tranquillo, mentre gli infermieri hanno già altre cose da fare. Rimani lì davanti a lui, da solo. Il tutore non risponde al telefono, l'unico parente ancora in circolazione dice che va bene così, di tenerlo pure in terapia intensiva, che prima o poi, quando avrà tempo passerà a fare un giro pure lui.
Ti domandi il senso del tuo stare lì. Ti chiedi perchè eri lì solo tu. E perché tutto questo é accaduto qui ed ora. Troppe domande, in quella vita da mediano che ti sembra di correre ogni giorno, a centrocampo coi capelli che diventano sempre più grigi a poco a poco.
Poi, lungo la strada che porta verso casa, capisci finalmente che non eri solo ma che lì, in piedi accanto a quel letto d'ospedale c'era il Mistero che fa tutte le cose e che ha sempre e soltanto a cuore il nostro bene. Tu, in fondo, non hai fatto altro che dargli una mano. Mentre il mondo là fuori continua a correre e ad urlare, sotto la pioggia in compagnia di quegli impostori che chiamano successi e fallimenti, ti accorgi d'essere felice.
Una vita da mediano, a fare compagnia al Mistero.
Che non é mica una brutta cosa, giocare al fianco di Messi tutti i giorni.


Saturday, May 11, 2013

DONNA DEL CAMMINO


Una piazza di Milano qualunque, all’imbrunire. Tra le panchine e i vialetti del parchetto, un gruppetto di persone si è dato appuntamento qui. Disposte a cerchio, ognuna di loro si è messa d’istinto lungo i raggi che le piastrelle del pavimento disegnano col loro percorso, a partire dal centro della piazza. Dalla mia posizione, il sole in cui quei raggi sembrano convergere, lo vedo solo in disparte. Il profilo della Madonna di Fatima, una statuetta alta all’incirca cinquanta centimetri, si scorge da dietro e non riesco a coglierne i tratti del viso. Ciò che vedo è solo il lungo manto bianco e sopra di esso il capo della Vergine ricoperto da una corona, un poco chino su alcuni di quei raggi, quasi lo sguardo fosse  attento al cammino che ciascuno di essi percorre, più che al luogo certo a cui é destinato. Quel gruppetto di persone sta recitando il rosario. Un gruppetto di persone qualunque, in una qualunque piazzetta di Milano, la sera di un giorno di maggio. Maggio che ritorna puntuale, ogni anno, così come costante, ogni giorno, è l’amore di una madre che continua a tenere il volto rivolto su quel cammino, la strada di ciascuno lungo ogni istante della sua vita.
Poco più in là, una giovane coppia musulmana osserva, in rispettoso silenzio, mentre i loro bambini giocano sullo scivolo del parco giochi. I loro sguardi sembrano colmare all’improvviso ogni distanza sociale e culturale e mentre prego mi scopro a pensare che è bello che in fondo sia proprio una donna la mediatrice di tutto questo. Abbiamo un Padre, abbiamo Cristo che si è fatto nostro fratello, ma abbiamo anche una Madre a cui è stata affidata l’umanità intera. E l’amore di una madre è quello di cui nessun essere vivente riesce in alcun modo a fare a meno. Forse è per questo che spesso la fede rinasce nei santuari mariani, sulle macerie delle lotte e dell’odio, di ogni peccato e contraddizione. Perché ciò di cui c’è bisogno, per poter ricominciare ad amare, è di uno sguardo d’amore gratuito, senza misura, sentito prima di tutto su di sé. Non puoi portare amore dove non c’è amore, se quello sguardo non l’hai sentito prima sui frantumi del tuo io.
Il rosario volge al termine, il sole è tramontato, la famigliola musulmana s’incammina verso casa. Il gruppetto di persone si saluta e si ritrova, sorride, rinnova la bellezza di un cammino che, tra mille affanni, continua a compiersi insieme. Dopo i saluti, ognuno s’allontana, la direzione della strada verso casa sembra la prosecuzione di ciascuno di quei raggi, disegnati ancora dalle piastrelle del pavimento del parco. E la piazza si svuota, ma rimane piena di uno sguardo. Quello di una Madre, che non smette di accompagnare il nostro cammino. 

Saturday, March 30, 2013

L'ULTIMA CAREZZA

E pensare che ci saremmo potuti anche incontrare. In fondo si lavorava a poche centinaia di metri di distanza. Tu parte del team del reparto di Chirurgia ed io, timido studente dietro al codazzo di primari, aiuti ed assistenti di Clinica Medica. Ma se anche t'avessi incrociato, che cosa mai sarei stato in grado di dirti allora? Che ne sapevo di carezze del Nazareno, che ancora vedevo troppo offuscate, nascoste dietro ai trattati di Patologia Medica? Certo già ti conoscevo bene, per quella vena di poesia che sapeva tramutare in musica ed ironia i drammi incontrati e conosciuti bene lungo la tua strada, ma la mia era ancora troppo lunga da percorrere.
Ma oggi sì, questa sera ti sento davvero più vicino.
Sarà che le ho incrociate tutto il giorno, quelle carezze del Nazareno. Le ho viste distese su barelle di Pronto Soccorso, letti di reparto, o sedute di fianco alla macchinetta del caffé. Le ho viste in fila lungo dodici ore secche, trascorse quasi senza tregua da un ammalato all'altro. Le ho viste - buffo, non trovi? - proprio oggi, Sabato Santo, giorno del mio compleanno passato di guardia in ospedale. Sabato Santo, il giorno della sospensione, il giorno del dolore che attende ancora di trovare la risposta al suo perché. Il giorno del Nazareno crocifisso, che, in fondo, é una gigantesca carezza ad ogni urlo e strazio inconsolato. Ho visto quella carezza in ogni volto che ho incrociato oggi, nessuno escluso. E so che tra poco essa si tramuterà in abbraccio, quello che lascia il sepolcro vuoto e si trasforma in Resurrezione.
Anche il tuo sepolcro, oggi, é vuoto caro Enzo. Anche per te la carezza, l'ultima carezza si é trasformata in abbraccio. La carezza del Nazareno, anticipo di Paradiso già quaggiù.

Tuesday, March 26, 2013

LA MAGNOLIA IN FIORE


Musica e tristezza, che vanno in giro così spesso abbracciate insieme. Corde del cuore vicine tra loro come sorelle, compagne di viaggio di ogni diastole dell’esistenza. Figlie di quella malinconia che è sempre nostalgia d’infinito, desiderio troppo spesso disatteso per colpa della nostra comune fragilità. Ed ora che se ne è andata anche la Magnolia Elettrica, tutto sembra davvero un po’ più brutto di prima.
Jason Molina non c’è più. E con lui se ne sono andate anche la sua tenerezza e il suo sorriso, annegate progressivamente in quell’alcool che ha distrutto la sua vita. Sarà difficile, ora, che Josephine se ne vada pure lei: rimarrà agganciata alla mente, ai mille percorsi autostradali, alla musica come alla preghiera del cuore nei suoi momenti più sinceri. Josephine non era e non poteva essere un disco come gli altri, dedicato alla scomparsa di un amico. Josephine non é non sarà più un disco come gli altri, ora che è aggrappato al ricordo del suo autore.
Possa la Magnolia  riposare adesso finalmente in fiore.
Possa "Oh grace", la prima canzone di quel disco, essere stato l'ultimo istante del suo respiro.
Ciao Jason, ci mancherai parecchio quaggiù.


Tuesday, March 19, 2013

IL SEGRETO DELLA SPERANZA

"Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza" 
(Papa Francesco)

Spegni la televisione ed inizi a meditare quelle parole nel tuo cuore.
Custode di bontà e di tenerezza. Inizi ad esserlo lavando i piatti lasciati in cucina ancora sporchi. E prosegui mentre rifai il letto e passi l'aspirapolvere in casa. Continuerai ad esserlo oggi, quando di guardia, incontrerai come sempre i tuoi ammalati in ospedale. Custode di bontà e di tenerezza con le cose da fare come con ogni prossimo che ti passa accanto.
Quel filo rosso che lega gli avvenimenti più recenti, l'umiltà di papa Benedetto che passa la mano a quella di papa Francesco, é lo stesso che lega gli avvenimenti della tua vita, giorno dopo giorno. E che ti dice che tutto é misericordia di un Altro. Per questo la Chiesa risorge ogni giorno, a differenza di altre vicende umane, prime tra tutte la politica di questo nostro povero paese. Perché si affida sempre a Chi non smette di guardare l'uomo con lo sguardo di un Padre che tutto perdona. Siamo noi che, troppo spesso ci stanchiamo di chiedere perdono: l'ha detto subito questo nuovo Papa che é già entrato nel cuore di tutti. 

Il segreto della speranza é tutto lì. Ed é solo da lì che può ricominciare anche la tua giornata.
Che passa con gioia dal piatto sporco in un lavabo allo sguardo di un ammalato dentro al suo letto d'ospedale. 

Thursday, March 14, 2013

LA CULTURA DELLA FIDUCIA


"E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza."
(Papa Francesco)

Fiducia tra noi. E preghiera. Per Benedetto XVI. L'uno per l'altro. E infine per lui.
In un mondo sempre più chiassoso e irascibile, perennemente a caccia di un colpevole per ogni situazione, ha detto di più quel minuto di silenzio davanti al Papa a capo chino di qualsiasi altra parola: "facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me". 
E' bella la chiesa ed é bella la strada per chi cammina.
Perché é veramente grande questa nostra vita.

Monday, February 25, 2013

THE STREETS OF ROME


Oh, the streets of Rome are filled with rubble /
Ancient footprints are everywhere /
(...) Someday everything is gonna be different /
When I paint my masterpiece
(Bob Dylan)

Quando la finestra su Piazza San Pietro si chiude per l’ultima volta, non puoi fare a meno di pensare che se ne sia andato con la stessa umiltà con cui era arrivato otto anni prima. Un operaio nella vigna del Signore. Ciò che nello spazio di un istante passa per la mente, ti appare già un bel modo per salutare Benedetto XVI dopo il suo ultimo Angelus davanti ad una folla di  duecentomila persone. Ma basta l’amico al tuo fianco per correggere subito il pensiero. Non è andato via - ti suggerisce – semplicemente è presente in altro modo, ed è davvero così. “Il Signore – ha detto il Papa – mi chiama a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione.  Ma questo –aggiunge - non significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui ho cercato di farlo fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.
Ti domandi perché oggi sei qui. Perché hai preso su la tua famiglia da Milano ed hai superato neve e grandine lungo la strada, portandoti dietro gli amici e trovandone altri, inaspettatamente, una volta arrivato. Non basta l’affezione a una persona, non basta una buona compagnia a giustificare la tua presenza davanti alle parole di un pontefice che riempiono lo spazio di appena un quarto d’ora. E’ necessario che i tuoi pensieri ed il tuo agire diventino esperienza. E quell’esperienza si chiama chiesa. E’ per questo, lo capisci bene solo quando la finestra sulla piazza si è chiusa, che adesso sei qui. Davanti ad un’esperienza di popolo che è quasi un paradosso: Cristo che ha comunicato il divino attraverso l’umano e che, dentro tutta la grandezza e, allo stesso tempo, la fragilità di quel che siamo, continua a comunicarsi anche all’uomo d’oggi.
E’ di questo che hai fatto esperienza ora, in piccoli istanti fatti di gesti, sorrisi, parole scambiate viaggiando o con persone incontrate per la prima volta in questa piazza. Ed è la stessa esperienza che vorrai fare domattina, nel tuo vivere quotidiano, con i figli, sul posto di lavoro, al supermercato mentre fai la spesa, o al seggio mentre riconsegni la scheda elettorale.  
Il resto è ancora sempre e soltanto gratitudine. Gratitudine per chi si é lasciato afferrare da Cristo. Così, mentre ripercorri la strada che porta verso casa pensi che sì, le strade di Roma sono piene di macerie, ma la possibilità di dipingere il proprio capolavoro é già a portata di mano e sta scritta dentro quel forte e lungo abbraccio che anche quest'oggi hai sentito, attorno al Papa e intorno a te. E che porta il nome di chiesa. 

Friday, February 22, 2013

HIGH HOPE

Quando, in una delle numerose chiacchierate, inframmezzate tra una canzone e l'altra, Glen Hansard ha raccontato della sera in cui é andato a sbattere contro un faro in compagnia dei suoi amici ubriachi, la mia mente si é trovata scaraventata all'improvviso su di un lungomare di Bretagna, in cui avevo visto un manipolo di ragazzotti, dal nome impronunciabile di Startijenn, tenere in pugno un pubblico di giovani e anziani, pronti a ballare ed a cantare insieme in nome della buona musica e delle tradizioni. Bretagna come Irlanda, o come la buona vecchia Scozia dei Runrig dei tempi che furono. Gente nata e cresciuta in terre del nord, ma capace di trasmettere il calore di un cuore sincero meglio di uomini del sud.
Glen Hansard, coi suoi Frames prima, con i Swell Season poi e ancora adesso, lungo la sua nuova strada dettata dal ritmo e dal riposo é stato tutto questo, al Limelight di Milano, ma anche molto di più.
Il Limelight, una vecchia discoteca, che posto più brutto per ospitare un concerto così fai fatica ad immaginarlo anche se ti ci metti con tutte le tue forze. E che all'improvviso diventa una spiaggia di Bretagna, un vecchio pub o una strada di Dublino, un salotto di casa dove suonare con gli amici, un palco dove sfoderare così tanta rabbia ed energia che al confronto i gruppi punk della prima ora ti appaiono quasi dilettanti allo sbaraglio.
Che cosa ha fatto Glen Hansard l'altra sera, coi suoi Frames, gli archi, un terzetto di fiati e l'impagabile contributo aggiunto di Lisa Hunnigan, lo si legge meglio nelle recensioni di chi queste cose le sa scrivere per competenza e per mestiere. Basti, tra tutti, l'articolo di Paolo Vites - le canzoni della buona speranza - pubblicato su Il Sussidiario.net a questo link
Io, per parte mia, mi porto a casa la musica totale che sa diventar sincera. La musica, cioé, di chi ti sa parlare, oltre che suonare e cantare. Di chi sa farti passare dal furore per giungere al riposo e alla speranza. Di chi, alla fine, stacca la spina della corrente elettrica, scende da un palco e ti finisce accanto, quella Passing Through di Leonard Cohen suonata in mezzo al pubblico che non é un trucco per fare la migliore uscita di scena che ti sia mai capitato di vedere, ma un solo un modo come un altro per far sentire ad un cuore del nord il calore di tutti gli altri che sono corsi fino a qui da lontano per stringersi accanto al suo. 
Maybe when our hearts have re-aligned, maybe when we've both had some time, I'm gonna see you there. Ti ritroverò laggiù, amico mio, là dove la musica non sarà mai un luogo dove dimenticare ed annegare le proprie tristezze, ma dove trovare l'amico che ti da' di gomito e ti dice: guarda! 
Indicandoti un oltre dove ricominciare a camminare insieme. Dopo ogni passo falso ed ogni caduta. Ogni volta come fosse la prima volta. 


Thursday, February 21, 2013

THANK YOU GLEN

Forse riuscirò anche a scriverne, prima o poi. Di Glen Hansard e dei Frames ieri sera a Milano.
Gli altri artisti, nel frattempo, possono pure andarsene, con buona pace, in pensione.
Thank you, Glen.

 

Thursday, February 14, 2013

UN FORTE E LUNGO ABBRACCIO


"E dice Signore lo vedi / il panorama di Betlemme / 
Questo cielo senza riparo / questo sipario di fiamme"
(Francesco De Gregori) 

Se nei prossimi giorni le capitasse di trovarsi a tu per tu con il Santo Padre, che cosa gli direbbe?”. Georges Coittier, teologo emerito della Casa Pontificia non ha dubbi: “Niente parole - risponde – Soltanto un abbraccio, un grande lungo abbraccio".

Ecco. Forse ciascuno di noi potrebbe rispondere la stessa cosa. Di fronte alla commozione, allo sgomento, al timore del futuro, nessun pensiero e nessuna parola. Solo un forte e largo abbraccio.
Del resto è così che si manifesta la gratitudine. Gratitudine per questo Papa, per ciò che ha saputo dire ad ogni uomo, non solo di fede, ma anche di semplice buona volontà. Il Papa che ha affrontato i temi della modernità, che è sbarcato su Twitter, che ha parlato a partire da un cuore afferrato da Cristo.
Di tutti i personali ricordi che in questi giorni affiorano impetuosi nella mia mente, ce n’è uno, più forte di tutti gli altri. Quello vissuto nella spianata del campo volo di Bresso, lo scorso 3 giugno, durante l’Incontro Mondiale delle famiglie. L’uomo che scende faticosamente dall’auto poggia il proprio passo su un bastone. Non è il bagno di folla a dargli la forza che gli anni sembrano inesorabilmente volergli sottrarre, ma un bastone, un bastone a forma di croce. La Chiesa è di Cristo, ha detto Benedetto XVI alla sua prima udienza all’indomani dell’annuncio-shock delle sue dimissioni. E Cristo, ha aggiunto, non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. L’applauso incessante dei fedeli in sala Nervi, che quasi impedisce al Papa di proseguire il suo discorso, altro non è che quel grande e lungo abbraccio che ciascuno di noi vorrebbe dargli. Soprattutto adesso, che il successore di Pietro ha fatto sue le parole imperiture di Paolo: “Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza". Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie  infermità... quando sono debole, è allora che sono forte »  (2 Cor 12, 9-10).
Grazie Santo Padre, per tutto quanto ha saputo darci con il dono della sua vita. Come scrive Marina Corradi, in un editoriale di Avvenire, é il cuore che ci aiuta a capire meglio la sua scelta e dirle con fiducia e speranza un nuovo grazie. Il Signore, come lei ha detto a ciascuno di noi, ci guiderà.

Sunday, January 27, 2013

MEMORIA

 Jaques Strumsa, binario 21, stazione Centrale di Milano, 2004

Ci sono canzoni che ad un primo ascolto ti disturbano, ti sconvolgono, ti fanno venire voglia di metterle da parte, tanto sono scomode. La Nuova Auschwitz di Claudio Chieffo é una di quelle, ed é scomoda perché é troppo facile e conveniente pensare che i malvagi stiano sempre da un'altra parte, quella che non ci appartiene. 
Non é difficile essere come loro, cantava Claudio, ed é un urlo che lacera ogni ipocrisia, ogni presunzione di bontà ed innocenza da parte dell'uomo, che ha sempre bisogno di una sguardo di misericordia e di redenzione su di sé. Cosa sarebbe l'uomo se un Dio non si fosse fatto carne per infilarsi nelle piaghe della sua umanità? "Gesù é il salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull'umanità il Divino, attraverso la Ferita dell'Abbandono, che é la pupilla dell'Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra del mondo attraverso la quale si vede Dio" (1).
Dio é dove Dio non c'è.

Io suonavo il violino ad Auschwitz mentre morivano gli altri ebrei,
io suonavo il violino ad Auschwitz mentre uccidevano i fratelli miei,
mentre uccidevano i fratelli miei, mentre uccidevano i fratelli miei…

Ci dicevano di suonare, suonare forte e non fermarci mai,

per coprire l’urlo della morte, suonare forte e non fermarci mai,
suonare forte e non fermarci mai, suonare forte e non fermarci mai…

Non è possibile essere come loro,

non è possibile essere come loro…

Nel mondo nuovo che ora abbiamo creato

c’è la miseria, c’è l’odio ed il peccato,
c’è l’odio ed il peccato, c’è l’odio ed il peccato…

Ora siamo tornati ad Auschwitz dove c’è stato fatto tanto male,

ma non è morto il male nel mondo e noi tutti lo possiamo fare
e noi tutti lo possiamo fare e noi tutti lo possiamo fare…

Non è difficile essere come loro,

non è difficile essere come loro...

Ora suono il violino al mondo mentre muoiono i nuovi ebrei,

ora suono il violino al mondo mentre uccidono i fratelli miei,
mentre uccidono i fratelli miei, mentre uccidono i fratelli miei… 


(Claudio Chieffo -  La Nuova Auschwitz - 1967)

Note:
(1) Chiara Lubich - Il grido . Città Nuova ed.


Tuesday, January 01, 2013

AURORA


Può essere l'ultimo lembo di terra, il Finistère, o un insperato approdo, ma é sempre una Madre, 
Notre-Dame-des-naufragés, che porta in braccio l'Aurora.
"E' bello vivere, perché vivere é cominciare sempre, ad ogni istante"