
"IN THE FURY OF THE MOMENT I CAN SEE THE MASTER'S HAND, IN EVERY LEAF THAT TREMBLES, IN EVERY GRAIN OF SAND" (BOB DYLAN)
Tuesday, October 04, 2011
APPARTENENZA E LIBERTA'

Wednesday, June 23, 2010
MOON RIVER

Ma la cosa più bella del film, romanticismo a parte, é il finale, quando Paul "Fred" Varjak dice a Holly il fatto suo. Perché se nella vita c'é un'unica ed insostituibile anticamera della felicità é quella che riconosce la necessità di un bisogno, il fatto di capire di dover appartenere a qualcuno: "(...)Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa".
Saturday, March 08, 2008
8 MARZO

No, non é Julia Roberts (anche se é splendida) e neanche la musica del film (c'è dentro anche un certo Roy Orbison), ma é una scena verso la fine, in cui l'affarista Edward Lewis (Richard Gere), per la prima volta nella sua vita, infrange tutte quelle regole che, da uomo senza scrupoli di Wall Street, ha seguito fino a quel momento e decide di entrare in società con James Morse, il proprietario della compagnia marittima che avrebbe potuto rovinare, come aveva a lungo progettato di fare. L'anziano magnate rimane sorpreso e mette una mano sulla spalla di Lewis, ancora incredulo e titubante: "signor Lewis, faccio fatica a dirlo senza sembrare accondiscendente, ma ... sono fiero di lei".

Per tutti, comunque sia, ce n'è uno più grande, che Dante ha descritto con parole meravigliose, e che, per fortuna, mandano in frantumi tutte le stupidaggini che ho scritto sinora.

Wednesday, April 11, 2007
LA MAGIA DI RADIATOR SPRINGS

Di tutt'altra opinione Mike Bryan, che, nel suo Uneasy Rider, afferma : "a mio parere si capisce molto ma molto di più percorrendo una di queste strade (le superstrade, ndr) o visitando i dintorni: si vede l'America non solo com'é, ma come sarà; ci si trova faccia a faccia con la verità, bella o sgradevole che sia..."

Fatto sta che il film, tra le altre cose, è anche l'elegia della Route 66, la mitica strada statale americana, dimenticata per molti anni, ma ora eletta a sorta di nuovo monumento nazionale degli Stati Uniti.
C'é un punto del film, accompagnato dalle melodie struggenti di Randy Newman, in cui Sally, la "bella" del paese di Radiator Springs, porta Saetta McQueen ad ammirare il paesaggio mozzafiato, fatto di canyons e distese sterminate, su un tratto abbandonato della vecchia strada. Saetta si stupisce che lassù non vada più nessuno a godere di una tale bellezza :
Sally: Non é stato sempre così.
Saetta McQueen: Ah no ?
Sally: No, quarant'anni fa quell'autostrada laggiù non esisteva.
Saetta: Davvero ?
Sally: Già. A quei tempi le auto attraversavano il paese in un modo del tutto diverso.
Saetta: Beh, la strada non era diritta come l'autostrada ora. Seguiva il paesaggio, sai ?
Saliva, scendeva, si arrampicava. Allora il bello non era arrivare. Il bello era viaggiare...

Il cambiamento di Saetta McQueen comincia qui e pian piano quell'auto da corsa giovane, inesperta e presuntuosa imparerà a scoprire le regole degli abitanti di quella piccola cittadina, fatte di dignità e lealtà, di passione ed amicizia, regole che lui non conosceva prima d'allora e che non aveva perciò imparato a rispettare, ma che ora scoprirà essere il tesoro prezioso di quel luogo tagliato fuori dall'autostrada e dalla frenesia dei tempi moderni.
Potrebbe sembrare operetta morale alla fine, ed é il rischio che questi film d'animazione corrono sempre, ma qualcosa in più questa volta c'é.
E' l'esperienza del regista John Lasseter, che racconta così momenti di vita vissuta, alla base dell'ideazione e della realizzazione del film:
"Cars per me é un film molto personale.
Non solo la storia é ispirata al mio amore per le automobili e a mio padre, addetto ai ricambi in una concessionaria Chevrolet, ma é ispirato ad un evento realmente accaduto nella mia vita.
Diressi Toy Story, Megaminimondo e Toy Story 2. Quando completammo Toy Story 2 era il 1999. Erano passati nove anni ed avevamo quattro figli.
Mia moglie mi disse: "John, la sai una cosa, ti abiamo sostenuto mentre giravi questo film e durante la nascita della Pixar e tutto quanto. Ma ti conviene fare attenzione, perché un giorno ti sveglierai, i tuoi figli andranno all'università e ti sarai perso ogni cosa".
Così mi presi una lunga vacanza. Mia moglie ed io comprammo un camper usato e io decisi di esplorare l'America evitando le autostrade.
E sapete cosa é successo ?
La nostra famiglia ne uscì fortificata.
E quell'estate mi ha cambiato la vita.
Tornai a casa sapendo che questo film si sarebbe basato su un personaggio che scopre ciò che ho scoperto io. Cioé che nella vita é il viaggio la vera ricompensa.
Così iniziai a pensare e decisi di usare un'auto da corsa. In quel mondo conta solo la vittoria, la conquista del campionato. Era il personaggio ideale.
D'improvviso sarebbe stato costretto a rallentare."

Rallentare, dunque, e Cars, in una straordinaria miscela di personaggi originali (Carl Attrezzi e Doc Hudson tra gli altri), buoni effetti scenici, vivacità e simpatia, diviene alla fine anche elogio della lentezza.
Ed é proprio quello di cui abbiamo bisogno oggi, perché la corsa senza senso che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno possa lasciare spazio ad un po' più di bellezza.
Friday, January 12, 2007
PARIS, TEXAS

Un cult-movie, senza dubbio, con tanto di siti web ad esso dedicati.
Sta di fatto che, a dispetto della storia triste, rimane ancora un gran bel film.
Wim Wenders che si cimenta per la prima volta in una storia d’amore e lo fa in un modo tutto suo.
Un racconto anomalo, tutto americano, frutto della mente di quel Sam Shepard ritrovatosi di lì a poco anche con Bob Dylan, in quella “Brownsville Girl” scritta assieme, anch’essa lontana anni luce dal mito di un’America fuoriuscita da un catologo del Marlboro Country Travel, e capace di compiacersi nel fascino che ne deriva dall'esserne così distante.
Scenari western, deserti del New Mexico e dell’Arizona, girovagati a lungo da Wenders prima del film, in un voyerismo fotografico straordinariamente espressivo, che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, anche nelle numerose mostre allestite sul regista.
Ry Cooder ci mette del suo, con una musica a dir poco stupefacente.
L’uso sagace del bottleneck, la slide guitar, a creare le atmosfere desertiche più idonee alle immagini del film, al punto da costituire non più semplice colonna somora, ma opera a sé stante, capace di suscitare emozioni proprie e muovere l’immaginario in una sorta di etereo trance.
Il tutto avvalendosi dell’aiuto del fidato David Lindley, uno che nei settanta, quando il west-coast sound era un mito per tanti di noi, non era certo lì a fare da spettatore.


Il film non é altro che la storia di una famiglia che non é riuscita a stare in piedi, vittima di quell’America errabonda e perennemente alla ricerca di un’identità, incapace di vivere le proprie responsabilità, ma anche altrettanto piena di quel grido rivolto alla Realtà di farsi presente.
Il grido di Jane (Nastassja Kinski), abbandonata dal marito, allo sbando nel suo sbarcare il lunario nei peep show, ma che nella drammaticità della sua vita non perde una stilla di sangue del suo essere madre del figlioletto Hunter.
Il grido di Travis (Harry Dean Stanton), incapace di resistere alla propria folle gelosia, distruttore di sé e degli altri, ma capace alla fine di recuperare la maternità di Jane, apparentemente relegata in una deriva di sofferenza senza senso.
La soluzione felice sembra ad un passo, ma la storia non può giungere così in là: Travis non appare in grado di riproporre a se stesso una possibilità.
Eppure, alla fine, quel senso di famiglia ti rimane dentro lo stesso.
Quel grido d’impotenza, la deriva sempre possibile dietro l’angolo, non é esclusiva di qualche personaggio estremo, elaborato dalla genialità di un bravo scrittore o regista.
E’ un qualcosa dentro ciascuno di noi, pronto a far capolino appena pensi di poter camminare da solo, nella presunzione di un bastare a noi stessi nella bontà delle passioni e dei sentimenti che abbiamo dentro.
Come dice Paola Scaglione: “A indicare l’orizzonte della vita a due non c’é il reciproco guardarsi negli occhi di chi si illude che si possa amare sul serio l’altro escludendo il resto dell’esistenza, ma il camminare insieme nella medesima direzione. Perché non ha altra scelta chi, pur desiderando amare in modo totale, scopre che la propria fragilità lo rende incapace di una simile pienezza”