Monday, May 28, 2007

RICORDANDO JEFF


Jeff Buckley (17 novembre 1966 – 29 maggio 1997)

Ricordare Jeff Buckley, a dieci anni esatti dalla morte, in questo video che lo vede cantare la “sua” “Hallelujah” di Leonard Cohen, versione giustamente divenuta famosa, tanto ricca di struggente tristezza e rara bellezza.
Quella tristezza che c’é solo nel rock d’autore, quello che più si abbarbica alle radici dell’anima.
Diceva Nick Cave: “nel rock contemporaneo, l’area in cui io opero, la musica sembra essere meno incline ad avere nella propria anima, irrequieta e fremente, la tristezza di cui parlava Garcia Lorca. Eccitazione, spesso; collera, a volte, ma la vera tristezza raramente. Bob Dylan ce l’ha sempre. Leonard Cohen non si occupa d’altro. Essa perseguita Van Morrison come un cane nero e, per quanto lui ci provi, non può sfuggirle. Tom Waits e Neil Young possono chiamarla a raccolta.” (1)
Di quella tristezza, a volte furibonda disperazione che richiama il percorso musicale del punk, la musica di Jeff Buckley, a mio giudizio, é piena.
Come in questa “Hallelujah”, nei suoi versi finali, la cui disperazione sembra miracolosamente dissolversi nel sommesso e dolce saluto e ringraziamento finale di Jeff, nel video, al termine della canzone...

“Well, maybe there's a god above
But all i've ever learned from love
Was how to shoot somebody who outdrew you
It's not a cry that you hear at night
It's not somebody who's seen the light
It's a cold and it's a broken hallelujah”

“beh forse c'è un Dio lassù
ma tutto quello che ho imparato dall'amore
è come colpire qualcuno che ha
sguainato la spada prima di te
non è un pianto quello che senti di notte
non è qualcuno che ha visto la luce
è un freddo e un grave Hallelujah”

(1) citazione tratta da “Good Rockin’ Tonight!”, a cura di Leonardo Eva, Walter Muto, Paolo Vites, ITACA edizioni

Friday, May 25, 2007

NEW MORNING


Cominciare bene la giornata : non é sempre facile.
E allora anche una canzone può aiutare.
Così una semplice love song, “Everything” di Michael Bublé, per qualche mattino ha assolto bene al compito. Easy listening, certamente, ma anche “easy thinking”, sin dal mattino presto, quando per esempio calarsi nel traffico vuol dire subito andare contro corrente al nervosismo e all’impazienza.
Allora fermarsi per lasciar passare un auto in più, il gesto di una mano, l’intravedere un sorriso, é già un modo per cambiare la giornata. E poi avanti così, di fronte all’imprevisto, alla persona inopportuna, alla cosa andata storta. Con la stessa serenità e la stessa baldanza che sorgono spontanee per le brevi gioie.
Ti sembra difficile ? Certamente, perché é “rendere eroico il quotidiano e quotidiano l’eroico”.
L’aveva già detto un santo in tempi lontani, e forse adesso é più arduo ancora.
Eppure la sostanza é ancora la stessa e così il bisogno.
Ma anche il limite: se non ti affidi non ce la puoi fare.

La giornata scorre, attimo dopo attimo, vissuto bene, vissuto male.
Ho in mente quella canzone, i miei amori, le gioie della mia vita.
Ma quei versi mi richiamano all’amore più grande, quello che un Altro ha avuto per me :

“...And in this crazy life, and through these crazy times
It’s You, it’s You, You make me sing.
You’re every line, You’re every word, You’re everything”

Friday, May 18, 2007

Bob Dylan - Like A Rolling Stone - 1966


"Una canzone é qualcosa che può camminare da sola /
io scrivo canzoni /
una poesia é un uomo nudo ...
qualcuno dice che io sono un poeta"

(Bob Dylan)

Wednesday, May 16, 2007

SUONI DI MERCURIO


Quando, il 16 maggio 1966, "Blonde On Blonde" esce nei negozi di dischi, il terremoto su Dylan é già scoppiato da un pezzo. "Bringing It All Back Home", l'album uscito l'anno prima, ha venduto un milione di dischi ed in esso una facciata é "elettrica", cosa che comunque non é stata gradita da molti. Dylan é già passato dalla bufera del Festival Folk di Newport, dove, fischiato dai fans perché presentatosi con la chitarra elettrica, é tornato sul palco per i bis con quella acustica. E, nel momento in cui esce "Blonde On Blonde", é nel pieno del ciclone del famigerato tour europeo del 1966, dove gli spettatori inglesi non gli risparmieranno momenti durissimi. Eppure "Blonde On Blonde" é pieno di capolavori: da "Just Like A Woman" a "Visions Of Johanna", da "I Want You" a "Rainy Day Women", da "Stuck Inside of Mobile" a quella "Sad Eyed Lady Of The Lowlands", brano che - per la prima volta nella storia del rock - occupa un'intera facciata del doppio album. Questo lp rappresenta una delle massime espressioni del genio creativo di Dylan, intriso di liriche zeppe di simbolismi e misticismo e di una musicalità definita da Dylan stesso un suono "sottile, mercuriale e selvaggio".
Durante gli infuocati concerti inglesi, che la Columbia si é decisa a rendere "ufficiali" nel CD "The bootleg series vol.4" (dopo anni di registrazioni pirata circolanti tra gli appassionati del genere), Dylan verrà attaccato più volte dai fans per il suo "abbandono" della tipica canzone folk di protesta americana; si sentirà solo, preso in giro (con i tipici applausi "rallentati" della platea inglese di allora) ed accusato. "Giuda!" gli urla uno spettatore durante il concerto di Manchester e per tutta risposta Dylan gli dirà dal microfono "Non ti credo, sei un bugiardo!" e, girandosi verso la band, inciterà i propri musicisti con un "Play fuckin' loud !", "suonate fottutamente forte!".
Dylan aveva voltato pagina ed iniziato a scrivere un nuovo capitolo della storia del rock.
Chi non l'aveva capito da subito era destinato a ricredersi presto, considerando che il nostro é in pista ancora oggi, dopo 41 anni.
Ma questo é l'inizio di un'altra storia.

Monday, May 14, 2007

INSIEME PER L'EUROPA


250 movimenti cristiani, insieme a Stoccarda, il 12 maggio, per dare nuova speranza all' Europa ( http://www.focolare.org/articolo.php?codart=4971 ).
Questo il contributo di Chiara Lubich:

Per una cultura di comunione
di Chiara Lubich

Carissimi amici, fratelli e sorelle,

il titolo del tema è coinvolgente. Un tema particolare, adatto a noi che siamo immersi in problemi sempre nuovi.

Se consideriamo come è oggi il mondo, vediamo che si presenta veramente come è stato descritto da Benedetto XVI, quando era cardinale.
Egli così si esprimeva: "Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni (…): dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via ". (1)

Dio sembra non essere più, soprattutto per noi in Europa, l’interlocutore a cui rivolgersi per risolvere i problemi e i quesiti che ci stanno a cuore.
Si costata con preoccupazione come i valori cristiani facciano sempre meno testo e il dichiararsi cristiano sia ormai abbastanza raro.
Viviamo, quindi, in un mondo in cui, per così dire, Dio sembra assente e il Vangelo non è più considerato fonte di riferimento.
Anche le principali feste liturgiche cristiane portano sì ancora il loro nome, ma sono sempre meno vissute nel loro significato religioso.
La crescita, inoltre, delle scoperte scientifiche e tecnologiche, veloce e senza limiti al giorno d’oggi, è tale che l’etica non riesce più a tenere il passo, aprendo così una spaccatura tra scienza e sapienza, tra cervello e cuore - come nel caso dell’invenzione della bomba atomica o delle manipolazioni genetiche -, cosicché l’umanità rischia di perderne il controllo.
Per questi, e per altri motivi ancora, rimane dolorosamente vero il lamento della filosofa spagnola del ‘900 Maria Zambrano: stiamo vivendo "una delle notti più buie che abbiamo mai visto". (2)

Dio invece non è assente dalla storia. Molti sono i fermenti di vita nuova in atto oggi nel mondo, per una nuova cultura, una cultura di comunione.
Possiamo vedere che lo Spirito Santo - proprio in questo tempo - è stato generoso, irrompendo nella famiglia umana con vari carismi, da cui sono nati movimenti, correnti spirituali, nuove comunità, nuove opere.
E ogni movimento, comunità, opera, è una risposta alla notte collettiva che domina il mondo. Proietta una luce nata dallo Spirito Santo, che è risposta a quella particolare oscurità, e costruisce reti di fraternità.
Occorre, ora più che mai, allargare queste reti e, nell'amore reciproco, comporre una grande rete di fraternità universale.

Giovanni Paolo II lo ha sottolineato: "Occorre promuovere una spiritualità della comunione" (3) ed ha indicato la stella per questo cammino, Gesù crocifisso che è la Via all'unità: "Non finiremo mai - dice - di indagare l’abisso di questo mistero)". Gesù che grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34). E spiega: "’abbandonato’ dal Padre, egli si ‘abbandona’ nelle mani del Padre". (4)
E' un mistero di cui il Patriarca ecumenico Bartolomeo I ha scritto: "Gesù, il Verbo incarnato ha percorso la distanza più grande che l’umanità perduta possa percorrere: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»". (5)
Nei secoli passati qualche grande mistico e nei decenni più recenti alcuni teologi di varie Chiese hanno già attirato l'attenzione della cristianità sull'abbandono di Gesù.

Dice il teologo evangelico luterano Hermann Bezzel: "Questo abbandono da Dio (…) ha trasformato la miseria della mia lontananza da Dio in gaudio: il mondo è riconciliato con Dio, il paese straniero è diventato la patria, il deserto è diventato valle verdeggiante, la lontananza da Dio è diventata vicinanza a Dio". (6)

Ed è proprio questo grido d'abbandono che oggi vorremmo proporre a tutti.
Non era forse sopraggiunta per Gesù, alla nona ora, una tenebra così fitta che superava all’infinito ogni nostro senso di buio?
Non sono simili a lui anche le persone affamate, angosciate, tristi, deluse…?
Non è immagine di lui ogni divisione dolorosa tra fratelli e sorelle, fra Chiese, fra brani di umanità con ideologie contrastanti?
Non sono figura di Gesù che s’è fatto "peccato" per noi – come dice Paolo –, tante piaghe dell'umanità?

Pure ciascuno di noi, nella vita, soffre dolori almeno un po’ simili ai suoi. Chi non si sente, in qualche modo, separato da Dio quando l'oscurità invade la sua anima? Chi non ha provato dubbi, perplessità, turbamenti come Gesù che in croce dubitò, fu perplesso, chiese "perché?"

Quando sentiamo queste sofferenze, questi dolori, ricordiamoci di lui che li ha fatti propri: sono quasi una sua presenza, una partecipazione al suo dolore. Facciamo come Gesù, che non è rimasto impietrito, ma aggiungendo a quel grido le parole: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Lc 23,46), si è riabbandonato al Padre.
Come lui anche noi possiamo andare al di là del dolore e superare la prova dicendogli: "Amo in essa te, Gesù abbandonato; amo te, mi ricorda te, è una tua espressione, un tuo volto".
E, se nel momento seguente ci buttiamo ad amare il fratello e la sorella e ad attuare ciò che Dio vuole, sperimentiamo, il più delle volte, che il dolore si trasforma in gioia, come per un'alchimia divina. Infatti, per il nostro amore a Gesù abbandonato, i doni del Suo Spirito fioriscono nell'anima.
Allora, anche per noi, la notte sarà un passaggio e la luce della risurrezione ci illuminerà. Si vedrà nascere una nuova cultura, una cultura di comunione.

I piccoli gruppi in cui viviamo - la famiglia, l'ufficio, l'azienda, la scuola, i nostri centri - possono conoscere piccole o grandi divisioni. Anche in quel dolore possiamo vedere il Suo volto, superare quel dolore in noi e far di tutto per ricomporre la fraternità con gli altri.
Così pure di fronte alle divisioni più grandi come quelle tra le Chiese: dobbiamo lavorare a ricomporre la piena e visibile comunione.
Ed anche fra i diversi movimenti e gruppi, dovunque.
E sperimenteremo che Gesù abbandonato amato è sempre chiave dell'unità: in lui troveremo il motivo e la forza per non sfuggire questi mali, ma portarvi il nostro personale e collettivo rimedio.
La cultura della comunione ha come via e modello Gesù crocifisso e abbandonato.

C’è chi pensa a volte che il Vangelo porti soltanto il Regno di Dio inteso in senso religioso e non risolva i problemi umani.
Ma non è così.
Ogni cristiano, come altro Cristo, membro del suo Corpo mistico, può portare un contributo suo tipico ad una cultura di comunione in tutti i campi: nella scienza, nell'arte, nella politica, nelle comunicazioni e così via. E maggiore sarà la sua efficacia se lavora insieme con altri, uniti nel nome di Cristo.
Nasce così, e si diffonde nel mondo, quella che potremmo chiamare "cultura della Risurrezione": cultura del Risorto, dell’Uomo nuovo e, in Lui, dell’umanità nuova.

Come si può diffondere nella società dove io sono questa cultura? Cosa posso fare io?
Nell’ambito economico, per esempio, si può suscitare in modo spontaneo tra quanti vivono il Vangelo una comunione di beni che emuli quella vigente tra i primi cristiani dei quali è scritto che "nessuno tra loro era bisognoso" (At 4,34).
Nelle aziende si può cercare di applicare il comandamento dell'amore scambievole a tutti i livelli e così tendere alla presenza di Gesù in mezzo, promessa dal Vangelo: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20)
Quando poi lui prenderà in mano le redini del mondo economico – e questo avverrà man mano che si moltiplicheranno quanti sapientemente metteranno la loro umanità a sua disposizione – si potrà ben sperare di vedere fiorire la giustizia e di assistere a quel massiccio spostamento di beni di cui molte parti del mondo hanno urgentemente bisogno.
"Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1,53). E' questa la rivoluzione sociale che siamo chiamati a portare.

Nel campo delle comunicazioni ci è sempre parso un segno della provvidenza di Dio l’attuale sviluppo di potenti mezzi di comunicazione sociale, atti a rendere più unita la famiglia umana.
Contemporaneamente è evidente - e risulta chiaramente dai fatti - che questi mezzi non bastano da soli ad unire i popoli e le persone e a migliorare la qualità della vita. Bisogna che essi siano messi al servizio del bene comune e che quanti li adoperano siano animati dall’amore.
Bisogna diffondere l’amore vero nei cuori e con esso l’interesse per ogni uomo e per ogni donna e per tutto ciò che riguarda l’umanità. E' essendo l'amore, come insegna il Vangelo, che si suscitano relazioni creative, durature, costruttive e si attua quell'arte del comunicare che sa ricevere, accogliere l'altro, gli avvenimenti del mondo e sa dare, cioè parlare, scrivere al momento e nei modi più opportuni.
Ci sarà allora più comunicazione, valorizzazione dei mezzi che la rendono possibile, ma anche e soprattutto si vedranno maggiori frutti di dialogo, condivisione, partecipazione, comunione.
Si può pensare che quando più professionisti condivideranno quest'arte del comunicare, i media dimostreranno maggiormente la loro capacità di moltiplicare il bene, la voce di Dio si farà più sonora e gli operatori meglio assolveranno la loro vocazione di essere strumenti a servizio dell’intera umanità.

E ancora l’ambito della politica.
Non è forse compito della politica riuscire a comporre, nell’armonia di un solo disegno, la molteplicità, le legittime aspirazioni delle diverse componenti della società? E non dovrebbe forse il politico, per la sua funzione di "mediatore" tra le varie parti sociali, eccellere nell’arte del dialogo e dell’immedesimarsi con tutti?
I politici così vivendo, a qualunque partito appartengano, scelgono di anteporre l’amore reciproco ad ogni personale impegno ed interesse e, perché così fanno, sanno che potrebbero attendersi, non senza proprio sacrificio, la presenza di Gesù in mezzo a loro.
E Gesù, che è luce per il mondo, valorizza quanto di vero può esserci nei diversi punti di vista, e illumina, evidenzia il bene comune e dà la forza di perseguirlo.
Ma il bene sarà ancora maggiore quando molti politici avranno il coraggio di porre le loro persone e i poteri a loro conferiti a servizio del fine ultimo che è Dio, e quindi della fraternità universale.
Allora sì che si potrà sperare di vedere avverarsi l’amore reciproco tra i popoli e con esso la pace e la soluzione di molti problemi e conflitti che tuttora attanagliano l’umanità.
Questi alcuni esempi che si potrebbero estendere ad altri campi.

Gesù abbandonato, il Crocifisso di oggi, irradia la luce del Risorto e ci rende generosi nel condividere i suoi doni.
Se nel 2004 abbiamo fatto un passo avanti con la determinazione di tendere alla fraternità, e a quella universale, ora vogliamo fare un passo più in profondità: dare la priorità ad amare e seguire il nostro modello: Cristo crocifisso e abbandonato. Così potremo raccogliere il grido dell’umanità di oggi, e per il Suo "grido" che ha tutto redento creare attorno a noi la società rinnovata che il mondo attende.
Potremo allora dire davvero con Lorenzo, giovane martire del terzo secolo: "La mia notte non ha oscurità, ma tutte le cose risplendono nella luce". (7)

Note:

(1) Omelia del card. J.RATZINGER alla S. Messa Pro Eligendo Romano Pontifice, 18.04.2005.
(2) MARIA ZAMBRANO, Persone e democrazia, vers. it., Milano 2000, p. 2. 2
(3) GIOVANNI PAOLO II, Novo Millennio Ineunte, n. 43.
(4) ID., n. 25 e n.26.
(5) BARTHOLOMEOS I, Patriarca ecumenico, Gloria a Dio per ogni cosa, Ed. Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano 2001, p. 152.
(6) HERMANN BEZZEL, Die Wort am Kreuz, Verlag Ernst Franz, Metzingen/Württ. 1967 (traduzione italiana).
(7) SAN LORENZO, diacono romano, morto martire nel 258: "Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt", dalla liturgia delle ore, Vespri, 10 agosto.

Saturday, May 12, 2007

LA GIOIA IN PIAZZA

FAMILY DAY


di Igino Giordani (1)


A leggere le cronache di certi giornali uno potrebbe credere che la famiglia sia l'ambiente in cui marito e moglie litigano, e i figli si fanno causa per spartire l'eredità, e i vecchi si spengono nella solitudine.

Secondo quelle cronache, le nozze non sono più che un pretesto per fare un po' di baldoria; dopo di che diventano un motivo per convivere, moglie e marito, per anni, senza capirsi e senza sopportarsi.
Certa letteratura cosparge di scherno la vita coniugale e fa del matrimonio un oggetto di derisione.
E invece la famiglia é una società sacra, un rapporto sacerdotale, una missione divina. Il suo valore é da gente dell'uno e dell'altro sesso sciupato talora perché se ne ignora la bellezza. Nessuno mostra a tanti giovani innamorati la nobiltà, e insieme la responsabilità, di quel sodalizio, che la Chiesa salda col sacramento, facendone una fonte di trasmissione del divino nel convivere umano. Troppi non sanno che cos'é l'amore, contemplato spesso solo in funzione erotica; e ignorano poesia e santità di esso.
Questo succede quando si contempla la famiglia con gli occhi annebbiati del materialismo.
Quando invece essa é contemplata con gli occhi della fede, il suo mistero appare congiunto con tutto il mistero della creazione, dove Dio é Padre e gli uomini sono suoi figli.

Per designare questo, che é il rapporto più grande, non si é trovata un'immagine più precisa e pura che quella di famiglia.

(1) Igino Giordani - Famiglia comunità d'amore - ed. Città Nuova

Thursday, May 10, 2007

Lavori in corso


"Don't need a shot of heroin to kill my disease
Don't need a shot of turpentine, only bring me to my knees
Don't need a shot of codeine to help me to repent
Don't need a shot of whiskey, help me be president
I need a shot of love,
I need a shot of love"

(Bob Dylan)

Wednesday, May 09, 2007

IL CORAGGIO DI IVAN


Esistono tante chiavi di lettura di fronte a notizie quali la recente ammissione da parte del ciclista Ivan Basso di essere ricorso al doping per aumentare il livello della propria competitività sportiva.
Lo scalpore, suscitato dal fatto che si tratta del primo campione di rilievo che giunge in questo sport ad un tale livello di ammissione di responsabilità, potrebbe in fondo essere mitigato dal fatto che la notizia non sia poi in sé così stupefacente.
L’esistenza di una pratica consolidata di doping nel ciclismo professionistico, pur mai suffragata da prove sostanziali, é in realtà una sorta di segreto di pulcinella: chi frequenta questi ambienti é perfettamente a conoscenza che l’eritropoietina, ad esempio, già una ventina d’anni fa veniva distribuita tranquillamente nel circuito dei cicloamatori anche oltre i sessant’anni di età. E poi le prove a favore della colpevolezza di Basso cominciavano ad essere un po’ troppo evidenti, al punto da far ritenere quindi la sua confessione non inevitabile, ma per lo meno prevedibile.
Eppure la vicenda stupisce lo stesso e viene da pensare che comunque il campione abbia avuto una discreta dose di coraggio e di lealtà verso se stesso.
E’ l’interpretazione, ad esempio, di Candido Cannavò, che, dalle pagine della Gazzetta dello Sport, sottolinea che “non c’é atto di coraggio nella vita che non meriti non dico un premio, ma un aiuto, un riconoscimento, un gesto di solidarietà, una mano tesa. E noi, al di là dell’inevitabile pena da scontare, abbiamo una grande voglia di tendere una mano a Ivan per questo giorno tristemente storico dal quale potrebbe rinascere un ciclismo più piccolo, meno enfatico, ma vero”. (1)

Certo che l’amaro in bocca rimane comunque, al di là di ogni tentativo di difesa o di sublimazione del fatto in sé – un illecito sportivo e morale – che rimane comunque un fatto di cronaca negativo. Ma é anche vero che il senso di disagio che emerge in circostanze del genere ha pure a che fare con la mancanza di una cultura della sconfitta.
In un suo articolo intitolato appunto “Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria” (2), Paolo Crepaz mette in rilievo una possibilità di uno sguardo differente: “Se é vero che dal profondo dell’uomo, individuo razionale, simile dei suoi simili in umanità, fiorisce la socialità, come essenza ed esigenza, come prassi del vivere insieme ad altri esseri umani in una rete di rapporti reciproci, é altrettanto vero che tale relazione si fonda sulla differenziazione, sulla distinzione, arrivando fino alla reciproca contrapposizione, nel senso più positivo del termine, elementi che sottolineano, preservano e tutelano l’identità di ciascuno. La competizione é quindi quella forza dell’interrelazione in cui si mette in luce la distinzione. Accettato che sia quindi privo di significato eliminare, e non solo dallo sport, la dimensione della competizione, é ragionevole ipotizzare che il male maggiore, il grande nemico dello sport, sia oggi l’esasperazione di questa dimensione competitiva. Il peso di cui si é caricata la vittoria, e quindi la sconfitta, in termini d’immagine e di denaro, é diventato sempre maggiore e da più parti si riconosce che questo rischia non solo di snaturare la bellezza dello sport, ma la sua stessa fisionomia. (...)
Nella relazione, l’unità con gli altri e la distinzione di sé risultano polarità spesso inconciliabili (...) ma (...) nella relazione realizzata in pienezza si impone vi sia sempre l’unità nella distinzione e la distinzione nell’unità, una dimensione resa possibile, sul piano interpersonale, solo dall’amore reciproco. Ma cosa può significare leggere nell’ottica dell’unità e dell’amore reciproco la competizione e in particolare la sconfitta ? (...) Se prima di tutto chi mi sta accanto, l’altro da me, é dono per me e io per lui, la sconfitta e la vittoria assumono un sapore particolare
”.


Allora anche una vicenda come quella di Basso può far bene allo sport, soprattutto se guardata non da un punto di vista genericamente giustizialista, ma attraverso una diversa prospettiva, quella della ricerca di una cultura nuova, che tenga conto del limite non come ostacolo ma come pedana di lancio.
C'é tanta strada da fare ancora, senza dubbio, anche per lo stesso Basso che nella prima conferenza stampa ha già smorzato un po' la portata del suo gesto, ma la speranza di segni nuovi rimane intatta.

E allora tanti auguri Ivan, per un’avventura diversa, sulla strada di una nuova forza, magari quella che, direbbe San Paolo, si manifesta pienamente nella debolezza (3).
E arrivederci, sulle strade di sempre, dove ti abbiamo conosciuto campione, e dove siamo certi di poterti ritrovare un giorno, in un futuro speriamo non troppo lontano.

Note:

(1) C. Cannavò – “Quella voglia di tendergli la mano” – Gazzetta dello Sport, 8 maggio 2007
(2) Paolo Crepaz – Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria – Nuova Umanità, XXV (2003/6) 150, pp. 717-728
(3) seconda lettera ai Corinti:12,9

Thursday, May 03, 2007

ASSISI


Un giorno frate Masseo disse a Francesco: "Perché a te ? Perché a te tutto il mondo viene dietro ? Tu non sei bello, tu non sei grande nella scienza, tu non sei nobile !"
Francesco, pieno di gioia, gli rispose : "Vuoi sapere perché ? Perché gli occhi santissimi di Dio non hanno veduto tra i peccatori uno più insufficiente e peccatore di me, e perciò ha scelto me per confondere la sapienza del mondo, e perché tutti sappiano che ogni bene viene da Lui solo".


"Parigi, Parigi, non distruggere Assisi! ".
Si dice che Francesco ammonisse così alcuni dei suoi frati mandati in Francia a studiare.
Ed effettivamente il rischio che qualcosa d'inadeguato possa contaminare la bellezza di questa città é consistente, una possibilità anche dei nostri tempi, in cui la frenesia ha quasi cancellato ogni forma d'armonia.
Eppure, a ben vedere, se é vero che questo é un pericolo, non é scontato che divenga un esito.
E' così tanta la forza che si sprigiona da un luogo come questo, capace a secoli di distanza di richiamare a sé ancora tanta gente e d'essere generatore di vita nuova per innumerevoli persone ogni giorno.
Cammini per le vie, ancora così simili ai tempi andati, e davvero ti pare che questo sia uno dei pochi posti al mondo in cui una conversione del cuore possa germogliare persino dallo sguardo che cade su un sasso lungo la strada o si volge alla pietra di un edificio antico.

Pensi a Francesco, ti accorgi che qui tutto parla di lui e vorresti farlo anche tu.
E ti rendi subito conto che sarebbe meglio il silenzio.
Perché dire di Francesco é esercizio arduo e il rischio é di banalizzare la figura di colui che, per la sua grandezza, fu addirittura definito "alter Christus".
Ma é certamente possibile - questo sì ti appare tempo ben speso - passare da questi luoghi e "portarsi a casa" qualcosa di lui e della sua esperienza terrena.
A me ha colpito l'umiltà senza limiti e la capacità di cogliere la presenza di Dio sotto ogni cosa.
Il suo sguardo, cui non sfuggiva l'apparire della bellezza della volontà di Dio dell'attimo presente, rende ragione del suo giungere a lodare ogni aspetto del creato, anche le cose più scomode ed incomprensibili come le malattie e la morte.
Così, per analogia, mi é riaffiorato alla mente un episodio, rigurdante invece i primi tempi dell'esperienza di Chiara Lubich e delle sue compagne, nel 1943.
Doriana Zamboni lo racconta così:
"C'eravamo solo Chiara, Natalia ed io e andavamo ad una delle conferenze del Terz'ordine di San Francesco. Il Padre assistente aveva portato un quaderno nuovo e aveva detto: "alla fine di questa riunione ognuno dovrà scrivere un pensiero, un proposito, su questo quaderno". La prima a scrivere é stata Chiara e ha scritto una frase: "Non mi lamenterò mai di nulla". Io dovevo scrivere una frase sotto di lei, perciò l'ho letta. Non so cosa ho scritto, una cosa più semplice, certamente. Tutte le volte che spontaneamente nella mia giornata mi viene da lamentarmi di qualcosa, di una persona, del caldo, del freddo, mi torna in mente quella frase di Chiara: "Non mi lamenterò mai di nulla". Allora ricomincio, non mi lamento. Certe volte arrivo a non lasciar uscire il lamento, mi lamento solo dentro di me, poi pian piano riesco a dire: "Non importa, é un piccolo Gesù crocifisso anche questo".

Francesco, nella sua vita, non si lamentò mai di nulla e così non si appoggiò ad altri che a Gesù.
Ma, come "alter Christus", divenne sostegno di molti e amico nel cammino per tutti.
La mia breve permanenza ad Assisi é stato anche sperimentare questa compagnia.
E' il dono più grande che mi porto a casa.

Tuesday, May 01, 2007

LABOUR DAY


"Lavorare con amore ?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costrure una casa con affetto, come dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e cogliere le messi in allegria, come dovesse mangiarne il frutto il vostro amato.
E' sciogliere in tutto ciò che fate il vostro soffio spirituale."

(Gibran Kahlil Gibran)

"Se l'uomo accetta di mettere a base di tutta la sua vita, e quindi anche del lavoro, l'amore universale verso tutti gli uomini, Dio lo associa alla sua opera di creatore e a quella di redentore. (...) Mediante il lavoro, la natura riceve l'impronta dell'uomo; ma poiché l'uomo, amando, vive il suo essere immagine di Dio, la natura da lui trasformata diventa quasi opera di Dio. L'uomo continua, dunque, il lavoro di Dio creatore. E l'uomo continua, in una certa maniera, anche la redenzione di Cristo. (...)
Dio manda il suo Figlio sulla terra e la redenzione che egli opera raggiunge tutto l'uomo, perciò anche il suo lavoro. La fatica e il dolore rimangono, ma l'uomo che ama collabora attraverso di essi in qualche modo, con il Figlio di Dio, alla redenzione dell'uomo, a quella realtà che chiamiamo regno dei cieli"

(Chiara Lubich)