Monday, January 24, 2011

ESSERE SEMPRE FAMIGLIA


Mentre l'ascensore risaliva lentamente in cima, lassù in unità coronarica dal reparto di rianimazione, continuavo a ripensare dolcemente a quello sguardo. Gli occhi sorridenti del collega, di fronte al mio: "Ciao, sono venuto a vedere se avevi bisogno di una mano". Già, perché lui non mi aveva mica chiamato ed era per quello che avevo incrociato il suo volto un pò' stupito. Ma era bastato poco perché il nostro lavorare assieme diventasse un circolo virtuoso, fatto di cenni d'intesa, condivisione d'esperienza fianco a fianco, battute scherzose con tutto il personale, il paziente reso felice e sereno da quel nostro lavorare insieme.
E pensare che con quel medico, un po' di tempo prima, c'era stato pure uno scazzo non da poco. Ma era per quello che ero tornato giù da lui, la prima scusa colta al volo appena qualche giorno dopo, pronto a dare un aiuto anche quando non era stato chiesto. La volontà di ricucire un rapporto e ricomporre un'unità; l'esigenza più sentita, il desiderio del cuore più profondo.

Più tardi, in auto, verso sera, sul percorso che porta verso casa, il più piccolo dei miei figli è seduto sul sedile di fianco al mio, al ritorno da un pomeriggio di compiti e di giochi da un amico. Ripenso alla sua manina, stretta a lungo poco prima, lungo il pezzo di strada per raggiungere la macchina, parcheggiata questa volta un po' lontano. Una Milano frenetica mi circonda, riempita dai suoi clacson stupidi e nervosi, pazzi e incomprensibili come sempre. Ma la gioia del cuore é più forte del rumore che sta intorno. Come mi ero fatto felice, in quei momenti, di stringere le sue dita tra le mie e com'erano simili, quei piccoli sprazzi di felicità, a quelli sperimentati poche ore prima col collega! Un padre e un figlio che camminano per mano, faccenda ben diversa da un rapporto tra due uomini al lavoro, eppure, al fondo, la stessa insopprimibile esigenza: quella di far famiglia, ovunque mi trovassi, qualunque fosse la cosa chiestami da fare, in quello strano e curioso intreccio di circostanze che usano chiamare vita di ogni giorno.

Era in quegli istanti che mi era tornato in mente il verso di una canzone tanto amata. Perché My Back Pages, ogni tanto, faceva inevitabilmente capolino nella mente: “Ero così vecchio allora, sono molto più giovane adesso”. Già, capitava sempre più spesso che mi sentissi proprio così: inaspettatamente giovane, alla faccia del tempo che passava, magari proprio al mattino di giornate in cui la vita pareva trascinarsi stancamente, come se non avesse quasi più nulla da dire.
Ma allora che cos’era, che rendeva nuovamente ed improvvisamente giovane una strada, liberandola dai pesi e dalle fatiche inesorabilmente accumulati? L’incontro con un avvenimento, forse, un fatto che stava riaccadendo ora, rendendo nuova e quindi giovane ogni cosa. Cos'altro poteva essere, se non quell'essere famiglia, sperimentato in piccoli ma intensi frammenti di reciprocità, dentro il sorriso di un collega o la manina stretta forte di un bambino? E cosa se non il desiderio che a quell'essere famiglia, non si anteponesse mai più nulla, fosse anche ogni mio gesto il più ispirato alla migliore idea di morale, di bene o di giustizia? Non era quello il punto e neppure la coerenza nella risposta alla Bellezza ed al Bene incontrati un giorno. No, la risposta era il desiderio di un cuore. Andare dietro al sogno di creare sempre più, ogni giorno, con discrezione, prudenza e, allo stesso tempo, decisione, quello spirito di famiglia che era la vera carità insegnataci un giorno da Gesù: “Amatevi a vicenda affinché tutti siano uno”.

* * * *

Ora, mentre a tarda sera una folla di pensieri e di emozioni prova a farsi anche scrittura, mi accorgo di guardare sempre più alla mia esistenza col desiderio di stupore e di entusiasmo di un bambino. La vita non é invecchiare, ma scoprirsi sempre più giovani e felici nello scorgere il disegno di un Altro che si svela a poco a poco.
Si può maturare, dentro questa storia e, a Dio piacendo, essere di spettacolo a noi stessi ed agli altri, giungendo, allo stesso tempo ad una pienezza di vita affascinante ed inattesa.
Come quella che raccontava tempo fa un amico, poco prima d’essere chiamato inaspettatamente al cielo: “se dovessi paragonare la mia vita come si è svolta, userei questa metafora: la mia vita è come una mongolfiera. Più vado, più m’innalzo, più m’impegno. Più sono dentro a questa vita, più scopro degli aspetti dell’umano che mi erano impossibili prima: una capacità di fedeltà, di amicizia, di lealtà, di ripresa, d’indomabilità che non avevo mai pensato prima. Perciò, da ultimo, è una gratitudine che caratterizza la mia vita. Per questo non ho paura a donarla tutta”.

Monday, January 10, 2011

NIGHT VISIONS



Night Visions
One year at a glance, all along the music of my dreams

Si era svegliato all'improvviso mentre sognava d'essere a New York City. Conosceva così bene quella città, anche se non vi era stato mai. Provò a trastullarsi ancora per un po', in quello strano limbo che era il dormiveglia del mattino, luogo dove realtà e fantasia si mescolavano in quel modo così sfacciato. Non aveva troppa voglia di ritornare alla realtà. Era stato un anno duro, quello, ed ogni giorno sembrava troppo difficile da vivere di nuovo. Anche se sapeva che, una volta svegliatosi ben bene, avrebbe ripreso ad intravedere il disegno buono, quello che lega come un filo rosso le cose tra di loro. Quel filo sembrava ricomporre un vestito nuovo, più bello e luminoso dell'abito di prima; ma scucire il vestito vecchio di dosso gli aveva fatto male.
Provò a tornare nel suo limbo per un po', cullandosi lungo la musica che l'aveva trafitto e attraversato, lungo quell'anno che se n'era andato via da poco. E si riaddormentò, ritrovandosi ancora per un po' nelle vie di quella metropoli misteriosa e trasparente.

Una chitarra acustica, violenta ed allo stesso tempo aggraziata; un fingerpicking deciso, a far da sottofondo ad una voce acuta e squillante, nati entrambi accovacciati in qualche posto, in mezzo ai vicoli stretti di Gamla Stan, attanagliati dal freddo e dal ghiaccio e poi volati via, fino ad altre strade, anch'esse ricoperte dalla neve, ma larghe e scaldate dalla folla e dalle auto di una città alla ricerca di un Greenwich Village che non c'era più. The Tallest Man On Earth aveva dolcemente riscaldato le sue mani ed i suoi piedi intirizziti dal freddo, The Wild Hunt l'aveva ricondotto fin lassù, un ragazzo e una ragazza abbracciati, gli stivali nella neve, i palazzi sullo sfondo, un vecchio furgoncino parcheggiato lungo la via.
Poi un'altra chitarra l'aveva bruscamente riportato via, fino ad East New York, il posto dove non dovresti mai stare. Poliziotti lungo la via, sguardi lanciati dentro la sua auto con fare minaccioso e quella chitarra che continuava a suonare così strana. Ma come cavolo faceva Neil Young a tirare fuori dei suoni fatti in questo modo? E quel titolo bizzarro, Le Noise, mezzo francese e mezzo inglese, che poi ce ne fossero in giro di rumori fatti così bene. Suonava come un ornitorinco, aveva detto qualcuno, quel ragazzotto di sessant'anni che aveva ancora voglia d'indossare la sua camicia ed i suoi jeans e di dire all'America qualcosa.
Ma se ne doveva andare in fretta da quel quartiere, così girò l'auto in qualche modo e si ritrovò indietro, lungo avenues larghe e più rassicuranti. Parcheggiò la macchina e si mise a camminare; lo fece a lungo, finché arrivò a vedere il mare. Si appoggiò alla balaustra del ponte e si mise a fissarlo. Il mare, d'inverno, gli faceva sempre un po' malinconia. I Midlake e John Grant avevano provato a raccontargliela nel profondo, ma lui non ce l'aveva fatta ad ascoltarli. Troppa tristezza e lui non era riuscito a sostenerla fino in fondo, così aveva deciso di spazzarla via. Forse ci sarebbe voluto il coraggio degli altri, ma non gliene importava troppo, in fondo, preferiva evitare di percorrere sentieri troppo pericolosi per lui. Così aveva preso con sé le dolci melodie di una donna e con quelle si era infilato di corsa nel piano bar più vicino sulla strada, pronto ad annegare i suoi pensieri in una calda tazza di caffé. Natalie Merchant, lei sì che aveva le chiavi per entrare nel suo cuore. Canzoni e poesia, musica e letteratura insieme, un disco - Leave Your Sleep - tutto da leggere ed ascoltare, anche se lui, il suo sonno ed i suoi sogni, non voleva saperne di lasciarli andare. Tant'é, se ne rimase lì al caldo per un po', poi quando si sentì di nuovo a posto, uscì fuori all'aperto. L'inverno, come d'incanto, aveva lasciato il posto al sole ed una piacevole brezza estiva sembrava avvolgere ogni cosa. Là, vicino al parco, si era radunata un bel po' di gente ed era ancora una donna che cantava. Accompagnata ora dalla sua chitarra, ora dal piano, la sua voce era sensuale e dirompente. Un nome d'altri tempi e d'altri luoghi - Terra Naomi - mentre una canzone dal titolo esaustivo - Go Quietly - dava al suo passo il ritmo giusto per andare. C'era un bel po' di gente, intorno, ad ascoltare, così aveva cercato un tavolino anche per sé e si era seduto per un po'.
Da quel posto, un bel po' di tempo fa, si potevano scorgere le Twin Towers, laggiù sullo sfondo. Ora tutto questo non c'era più. Ma si ricordò che un giorno aveva visto qualcosa capace di rompere il dolore che ora stava tutto intorno. Un gruppetto di uomini, camminare ora cantando, ora in silenzio ed in preghiera, dietro a una croce che, dal ponte di Brooklyn era arrivata fin lassù, a Ground Zero, come chiamavano adesso quel luogo di pianto e stridore di denti.
La ragazza aveva smesso di cantare ed era andata via. Anche tutta la gente sembrava essere svanita in un istante. Come al solito, la musica aveva portato troppo in là tutti i suoi pensieri. Frugò nella borsa, alla ricerca dei suoi libri o di un giornale, non aveva ancora voglia di alzarsi ed andarsene via da lì. Trovò un disco, ah già, eccoli qua, anche loro, quelli della Nazionale. Come gli erano piaciuti anche questi, lui che non li conosceva ancora. High Violet era un gran bel disco, ma lui era andato a scoprire anche gli altri, quelli che parlavano di tristi e sporchi amanti e di strani alligatori. Fortunato lui, che li aveva scoperti prima che fosse troppo tardi.
Nella borsa c'erano altri dischi e accidenti forse era per quello che pesava così tanto; mannaggia a lui che non riusciva mai a mettere tutta la sua musica nell'iPod e preferiva averla ancora in quelle strane, scomode e squadrate scatole di plastica, che sembrava non interessassero più a nessuno. Queste due, poi, erano proprio grosse. Una se la tirava dietro da un pezzo, più di un anno di sicuro. The Live Anthology, c'era scritto sopra, come dire un'enciclopedia, portatela dietro tutta, che così saprai sempre il significato d'ogni cosa. E poi, di fianco a Tom Petty anche Bob Dylan, che poi, in fondo, quei due erano sempre stati culo e camicia. Quella, poi, pesava ancor di più: The Original Mono Recordings c'era scritto. Scoppiò in una fragorosa risata, chissà se c'era in giro ancora qualcuno che sapeva cosa volesse dire quella buffa parola: mono. Ma a lui non importava nulla di quello che gli altri non sapevano, lui ne conosceva bene il significato. C'era dentro tutta la New York City che non c'era più, tutta la musica e le parole che aveva sempre conosciuto. E, in quel momento, gli sembrò di non aver bisogno di nient'altro.

Lo squillo del telefono lo risvegliò bruscamente: "dottore, ha chiamato il pronto soccorso, hanno detto se può scendere che c'é un paziente da vedere". Non era più tempo di sognare, adesso: la realtà, sotto forma di un cuore fatto di carne, l'aveva richiamato bruscamente a sé. Mise su gli zoccoli e si fiondò rapidamente in ascensore. Faceva sempre fatica a saltare all'improvviso giù dal letto, ma non era infastidito, questa volta.
Mentre scendeva dal decimo piano, pensò a tutta quella buona musica che l'aveva attraversato quell'anno, musica che gli aveva scaldato il cuore. Come la vita, d'altra parte. Anzi era quest'ultima che, lungo quella colonna sonora, glielo aveva scaldato ancor di più. Anno di Grazia 2010, così l'avrebbe chiamato. E, dietro l'angolo, un anno nuovo che stava già correndo.
Era una gratitudine, quella che si faceva strada come sentimento prepotente del suo cuore.
E lui, la sua vita, non aveva più paura di donarla tutta.






Sunday, January 02, 2011

UN FOGLIO DI CARTA BIANCO

Voltare l'ultima pagina del calendario é come fermarsi alla stazione di benzina, rifare il pieno, controllare i bagagli, fare una sosta al bar e poi ripartire senza indugi lungo la strada polverosa.
Ho trovato questa frase di Joe Strummer, non mi dispiace affatto come compagna di viaggio. La metto sul sedile di dietro, quello di fianco é già occupato: c'é seduta una Misericordia che sostiene ogni miglio della mia strada.
Buon anno, fratelli e sorelle, non smettete di scrivere su quel foglio bianco la vostra storia d'amore.

"Il passato é passato. Ho sempre voluto vivere nel presente. Il foglio di carta bianco é sempre lo stesso: lo devi riempire. E' pazzesco, ma é così. Bisogna guardare in faccia al passato, e io sono fiero di quell oche ho fatto, ma é molto meglio vivere il presente e non pensarci troppo. Come ha già detto Bob Dylan: don't look back" (1)

Note:
(1) tratto da: Marco Denti, Rock'n'roll, Selene edizioni