Monday, December 28, 2009

LA NOTTE CHE HO VISTO LE STELLE



Il mio cuore ha percorso mille canzoni. E la musica, per me, non é mai stata rumore.
Mi ha accompagnato, ha sottolineato i miei pensieri, ha percorso con me sentieri lastricati di successi e d'infinite aridità interiori. Ed ogni volta mi ha costretto alla domanda, ha provato, come un grimaldello, ad aprire il cuore e la ragione.
Se lo cercherete, questo mio povero cuore, lo troverete là, lungo la strada, la dorsale di una faglia, che s'inabissa alla periferia della città degli angeli per spuntare fuori di nuovo, all'improvviso, sferzato dal freddo vento di un lago del nord, dopo aver attraversato tutte le pianure del Midwest. Lo troverete tra una canzone e l'altra, attaccato a una voce o a una chitarra, dai Green on Red agli Uncle Tupelo, da Bob Dylan ai Wilco ed ai Son Volt. Lo troverete appeso alle parole. Lo troverete, soprattutto, incollato a chi ha passione per il bene e per la vita vera.

Sono quasi finiti questi anni zero ed io sogno una canzone, da portare via con me.
E mentre lo faccio, penso alla notte di quel Bambino, che per venire al mondo ha scelto buio, freddo e povertà. Perché é così la nostra vita, un viaggio spesso e poco terso, ricco di cieli grigi e senza stelle.
Ho percorso tante strade ed incontrato mille e più persone. Le ho incrociate faccia a faccia con la vita e con la morte e non é mai stato un semplice gioco del destino.
In mezzo alla strada ho abbracciato anche gli amici, quelli che hanno percorso insieme a me un pezzo del cammino. E in mezzo alla strada ho abbracciato anche i nemici, quelli che l'hanno resa più bella e più sincera.
Ma quella notte, la notte di quel Bambino, ho incontrato anche le stelle ed allora, anch'io, non volevo più dormire.

E' per questo che tra tutte le canzoni, quella di Claudio, Claudio tra le stelle, é quella che porto via con me.
Prima che la notte finisca, prima che giunga l'alba di un nuovo giorno, prima che, anch'io, mi rialzi dalle cadute nel sentiero.
E allora buon anno, amici miei.
Buon anno, a tutti, ma proprio tutti, voi che passate da qui.
Possiate incontrare mille stelle, lungo la vostra strada.


Monday, December 21, 2009

Thursday, December 17, 2009

CHRISTMAS IN MY HEART


Our love is all we have
Our love
Our love is all of God's money
Everyone is a burning sun
(Wilco - Jesus, etc.)

Non date troppo retta a tutti quelli che dicono che é brutta. E' che non ci sono nati e quindi non riescono ad amarla.
Non riescono a fissare la bestia negli occhi, una Milano frenetica e caotica, nevrotica e immusonita, inesorabilmente affumicata dallo smog. Anche in questi giorni che pure si riveste di luci e di colori. E, immancabilmente, ancora più di traffico impazzito. Passavo qualche giorno fa, in mezzo a quella strana downtown che sta sorgendo vicino al Pirellone, venendo su alla velocità della luce e pensavo che in fondo é anche bella, questa pazza e impossibile città. Ci passavo in scooter, tra un'auto e l'altra, ma lentamente, perché é bello andare piano su due ruote, anche se tutti gli altri - quelli che la moto é una scusa per andare più veloci di chi é fermo in macchina - non lo capiranno mai. E, arrivato ad un certo punto, lo scooter l'ho messo pure giù e mi son messo a passeggiare, ancora più lento, in mezzo alla folla, per creare uno spazio dove i pensieri potessero finalmente entrare.
E' lì, in mezzo a queste strade della mente, che ho visto perché é bella, questa mia povera e desolata Milano.
E' bella nei volti della gente, che se ti fermi ad osservarli, invece che a schivarli, ti accorgi che ogni viso ha dentro la sua strada. E che la strada, per quanto tortuosa e impervia possa essere o apparire, ha sempre la faccia di un Destino buono, che ha a cuore il desiderio più profondo del tuo cuore, quello che fa rima con felicità.
Ma i volti talora si nascondono e allora ce la devi metter tutta per vederci dentro. Tranne quelli dei bambini, però, quelli son sempre trasparenti, il desiderio buono ce l'hanno davanti a sé e non fanno nulla, ma proprio nulla per nasconderlo. E' per quello che piacevano tanto a Lui, quand'era diventato grande, Quello ch'era nato a Natale, ch'era stato piccolo e povero anche lui e che un giorno aveva pure ringraziato il Padre perché le cose serie le aveva nascoste ai dotti ed ai sapienti, per rivelarle ai semplici ed agli umili di cuore. Quello che - attenti - si arrabbiava pure, quando qualcuno, grande e presuntuoso, quei piccoli finiva per scandalizzarli.

Quando, molte ore più tardi e di ritorno sulla strada che porta verso casa, mi ritrovo mio malgrado su quelle automobili che il mondo non te lo fanno veder mai, c'é Jeff Tweedy a farmi compagnia, che con la musica dei suoi Wilco sta provando a spezzarmi il cuore a modo suo. "I'm trying to break your heart", canta a squarciagola, e incontra ancora una volta il desiderio più profondo. Quello che il cuore si spezzi dolcemente davanti al bello e non si frantumi invece di fronte a croci che talvolta sembrano troppo difficili da portare.
Rifisso la bestia negli occhi. Questa volta non é la città, ma l'umanità. E all'improvviso non mi affascina più, ma mi provoca disagio; suscita in me il desiderio di fuggire.
Quando il tuo limite é troppo forte, ti schiaccia e t'impedisce di vedere la storia dentro il volto di ciascuno. Per quello scappo via, perché la contraddizione é forte dentro me, ma quella stessa fuga giunge a smascherare di nuovo il mio bisogno, un desiderio più profondo che sa di amore e di gratuità. Ma quella gratuità d'amore, io, noi, non siamo capaci di darcela da soli. E' dono ricevuto, dono che va chiesto a Chi gratuitamente ce lo possa dare. Accettare la ferita dell'altro come una benedizione è ritrovare attraente quella strada, rivestita del volto di chi trovo innanzi a me.

Eppure non basta la domanda. E' necessaria, ma non é affatto sufficiente. O, forse, é una domanda differente, quella che questa volta devo formulare.
Non é la domanda dell'amore e della gratuità che non ho, né mai potrò neppur lontanamente possedere. La domanda é una richiesta di presenza. E' che l'Amore si faccia strada in mezzo a noi e rivesta anche la mia di una scia luminosa, nuova e affascinante. La domanda é una Presenza che rinnova, é il Verbo di Dio che si fa carne, che giunge ad abitare in mezzo a noi.
Solo così la carità non é proposito, solo così può reggere: deve farsi storia di semplice comunione. E solo dentro a quella storia, quella carità imperfetta, negligente e traditrice si educa e cresce sempre più, abbraccia la croce, cade e si rialza, riesce a farsi strumento di Uno più grande che ha a cuore il destino buono di ciascuno.
La mia e la tua storia come rivoli che diventano ruscelli, sino a divenire fiume capace di dissetare l'arida terra della nostra umanità.
Questo é il fuoco che Lui é venuto a portare sulla terra e che desiderava rimanesse acceso. Questa é la sfida del Natale, ciò che mi spezza il cuore veramente. "Senza che Cristo sia presenza ora - ora! - io non posso amarmi ora e non posso amare te ora", diceva don Luigi Giussani. E tu, piccolo uomo, vuoi accettare questa sfida insieme a Me?


Thursday, December 10, 2009

SHADOWS AND LIGHTS

"Quando l'ombra della croce sembra togliere la nostra pace, dacci, Signore, d'aderire con immediato amore a quella prova, in modo che il sole della tua presenza brilli senza interruzione nella nostra anima e non abbiamo a privare coloro che vivono con noi, nemmeno per un attimo solo, della pienezza della gioia.
Allora la nostra vita sarà testimonianza della Vita, sovrabbondante, divina e affascinante, che Tu hai portato in mezzo al vuoto ed alla noia ed al lento morire del mondo"

(Chiara Lubich)

Thursday, December 03, 2009

SICK OF LOVE



Sono venti d'inverno, questi che spazzano via la pioggia e la foschia. Il banjo sbarca a West London e cambia il colore del cielo. Atmosfere bluegrass ed oldtime, mescolate a profumi d'Irlanda e ad un mood tutto inglese, capace anche di strizzare l'occhio ad accelerazioni di sapore quasi punk.
Sin dal primo ascolto, questo disco d'esordio di Mumford & Sons ha il potere di travolgerti come un fiume in piena. Armonie vocali da coro a cappella e suoni che passano da una struggente malinconia all'irruenza che accompagna sia l'inquietudine che la gioia. Una musicalità unica, particolare, anche nei numerosi stop & go, che sembrano sottolineare in musica passaggi lirici capaci di mettere in rima la passione.

Eppure questi son ragazzi, quattro londinesi poco più che ventenni, ritrovatisi con l'esplicito comune desiderio di fare della musica che conti, senza, al contempo, prendersi sul serio più di tanto. Una voglia di far musica che li caratterizzava come individui - il percorso di ricerca di ciascuno - ma che, una volta messi insieme, li ha trasformati in qualcosa di diverso. Un rehearsal alla fine del 2007 e - raccontano sul proprio sito - subito, all'istante, la consapevolezza d'essere una band, perché quel desiderio e l'espressività di ogni singolo individuo, si era trasformata in un'esperienza nuova: l'essere una band, scoprire a se stessi territori sconosciuti e inesplorati ("As soon as we sat down together, just the four of us, we knew we had become a band cos what came out was unique to us four as individuals")
E' per questo che Sigh No More dà un brivido immediato, come qualcosa che percepisci nuovo anche se nuovo non é, con tutta quella musica che sa di tradizione, nota dopo nota. Un prodotto nuovo perché nuovo é quello che i musicisti hanno visto uscire da sé stessi lavorando insieme, oltre le proprie capacità e le proprie aspettative. Nuovo perché, paradossalmente, solo ciò che sa fedelmente ancorarsi alle radici da cui é nato, é capace poi di rinnovarsi veramente.

E poi l'amore, dalla prima all'ultima canzone, ma quello vissuto, non quello celebrato.
Amore con la A maiuscola, amore a tutto tondo, che non censura nulla, che é fatto di passione e sofferenza, di momenti di bonaccia ed altri di tempesta feroce.
Nella title track chi narra ha il passo incerto ("one foot in sea and one on shore"), ma non perde mai la dimensione del luogo in cui si trova ("love it will not betray you, dismay or enslave you, it will set you free"). Perché l'amore rende liberi davvero: ama e poi fai ciò che vuoi, diceva sant'Agostino tanto tempo fa. E l'amore é ciò che resta, ciò che dura anche dopo la tempesta: la vita é destinata a decadere ("you must know life to see decay"), ma ciò che é stato fatto per amore alla fine rimarrà: "love will not break your heart / but dismiss your fears / get over your hill and see, what you find there / with grace in your heart and flowers in your hair" ("After The Storm").

Buffo come, nota dopo nota, verso dopo verso, questo disco s'intrecci con l'incertezza del mio passo nel cammino. Il giorno che, misteriosamente, giunge a legarmi a sé non é quello del primo ascolto, anche se l'attrazione é sempre indissolubilmente legata al primo sguardo. Accade invece che il turbinio di suoni, voci e parole mi risollevi proprio all'indomani di certe sconfitte quotidiane, capaci di tramortirti a terra troppo a lungo.
Accade perché il richiamo all'amore é troppo forte. Così forte che ti rialza a poco a poco, ti aiuta a comprendere che non é l'esito delle tue vicende ciò che ti definisce - quello alimenta solo l'orgoglio di te stesso - ma é l'Amore in sé, quello che sfugge ad ogni tua definizione, che rende vera la tua vita. Amore che si compie malgrado la tua incapacità e che, allo stesso tempo, ha bisogno di te e del tuo sì, espresso dentro quell'avventura che si chiama libertà. Libertà di aderire a un disegno e di lasciare agire un Altro, Colui al quale quell'Amore appartiene per davvero, e che ha desiderio di farne partecipe la tua esistenza tutta intera.
Ancora una volta il miracolo si é compiuto e la musica ha adempiuto, a sua volta, al suo dovere.
"La musica - dice l'amico Maurizio Pratelli nel suo blog - non é la cura. La luce, alla fine del tunnel, é l'amore".


Saturday, November 28, 2009

SFIDE


Un minuto a mezzanotte, squilla il telefono. Sto aspettando che mia moglie torni a casa, ma non é lei che sta chiamando. Sul display del cellulare compare "UTIC", unità coronarica: c'é da tornare in ospedale. Dodici ore appena passate là dentro e non é ancora abbastanza. C'é un moto di stizza, ma é la reazione di un istante, qualcosa che per fortuna dura poco. Mi vesto di corsa e dopo poco sono di nuovo fuori sulla strada. "E' una vita rock'n'roll!" dico al collega appena arrivo, il mio sguardo decisamente più assonnato del suo. Ma é un volto che si veste di sorrisi, il nostro, mentre lui é già pronto a partire, per andare ad aprire quella coronaria che si é chiusa, quella che ha portato quella donna fino a qui.
Mentre lui sarà al lavoro in sala di emodinamica, io continuo il mio in ospedale, che qui tempo per fermarsi sembra che non ce ne sia proprio mai. Tornerà dopo un paio d'ore, un lavoro ben riuscito, lo sguardo soddisfatto; é tutto calmo ora, posso tornare indietro anch'io.

Le note di Low Rising sono la colonna sonora ideale, lungo la strada deserta che porta verso casa, una fine nebbiolina umida che bagna di tanto in tanto il parabrezza. Nello stesso istante il collega rimasto in ospedale sta bevendo un té alla macchinetta, quella che entrambi conosciamo bene, quella che ha come sfondo la costellazione delle luci della città. Quattro del mattino e siamo in pista tutti e due, facendoci felici di ciò che accade e dell'essere strumento nelle mani di un Altro, perché un disegno più grande di noi si compia anche dentro la misteriosa circostanza di un dolore.
Ci scambiamo qualche sms: sono cose che vanno condivise queste.

"The road was our school... a goddam impossible way of life", c'é scritto all'interno del vinile di "The Last Waltz", il concerto d'addio di The Band, per il sottoscritto il più grande show di tutti i tempi. Cos'altro é anche questa mia strada, se non questa sfida, la stessa divina e impossibile avventura dell'abbraccio alla realtà, tutta da vivere, passo dopo passo, fino alla fine del viaggio? "Se Dio esiste - scrive un amico francese, diciassette anni come responsabile del dipartimento d'emergenza dell'ospedale di Blois - abita là, nel cuore di quell'uomo". Un paziente "scomodo", di cui lui era stato capace di prendersi cura a dispetto di tutto e di tutti. "E Dio é amore!", aggiunge.
E' tutto dentro qui, niente di più, niente di meno. Si può desiderare di più?


Friday, November 20, 2009

THE RAIN


Una sottile e stringente malinconia continuava ad avvolgere ogni suo pensiero.
Uscì all'aperto ed iniziò a camminare, il passo deciso su quel tappeto di foglie cadute ed ingiallite che ricopriva il marciapiede ed ogni passaggio della mente. Era un autunno strano, questo, ancora caldo, eppure, allo stesso tempo, freddo e raggrinzito come era giusto dovesse essere. Era bello l'autunno, pensava, anche se spesso troppo difficile da sostenere, proprio come la malinconia.
Alzò gli occhi verso il cielo, grigio come sempre, inguaribilmente triste. Cielo scuro e nuvole tetre; nuvole feroci come quelle di cui narrava Claudio, amico di sempre - pensava - eppure mai incontrato prima. Quella sua sua canzone - L'aviatore - gli balenava ogni tanto nella mente ed ora quelle nuvole l'avevano richiamata a sé come d'incanto: "le nuvole della menzogna dicono di essere il cielo, ma sono grigie come l'asfalto e tolgono il respiro; il sole lo vedono solo loro e lo raccontano come gli pare, ma sono nere come la morte e non lasciano respirare".

Le nuvole nere dei sentimenti grigi avevano troppo spesso obnubilato i suoi pensieri, come una cappa di piombo che impediva al suo sguardo di andare poco al di là del proprio naso. Ed ora, come se non bastasse, si era messo pure a piovere, ma in fondo non gl'importava neppure così tanto. Una dolce melodia, anch'essa triste e malinconica, ma in qualche modo differente, aveva ridato all'improvviso brio all'essere del suo cuore. Era un lento risalire, qualcosa che avvertiva incedere a poco a poco, ma inesorabilmente capace di sconfiggere la durezza del suo cuore. Era per quello che la pioggerellina, sempre più fitta, non gli dava più fastidio, neppure ora che solcava ogni ruga del suo volto.
Il cuore, a poco a poco, stava tornando ad essere di carne, capace di nuovo di vedere e respirare.
Ed era solo in quegli istanti che lui era riuscito ad andare oltre la prima strofa di quella canzone. Claudio cantava ancora e mai la sua voce gli era apparsa più sicura. Ora sì che era felice per davvero, anche lui oltre, al di là di quelle nuvole che non erano mai sincere. Volato a vedere un po' più in là, se ne era finalmente compiaciuto: "ma io col mio aereo d'argento ho sfidato le nuvole e, grazie a Dio, ho visto il cielo; e non volevo guardare indietro, non potevo tornare indietro, non volevo tornare".

Era lontano ormai, ma la pioggia, il cielo cupo e il vento non gli facevano più paura.
Ed era proprio là in fondo che aveva incontrato nuovamente lei. Lei che lo aveva sempre accompagnato e sostenuto, che mai si era stancata, in ogni momento, di mostrargli il volto dell'Amore. Si guardarono negli occhi e s'incamminarono di nuovo lungo il viale, mano nella mano, lungo la strada che portava verso casa.
Lei sapeva che l'Amore era stato sempre presente dentro il suo cammino e non si stancava d'insegnarglielo ogni giorno. Lui, ogni tanto faceva finta d'ignorarlo, ma quel giorno non era stato in grado di sfuggire alla bellezza.
Bellezza che aveva incrociato i loro destini un giorno e per sempre.
Bellezza con inscritto dentro di sé un Disegno che ha le sembianze di un volto.
Il volto buono del Mistero fattosi carne per amore.

Thursday, November 19, 2009

RAINY DAY WOMAN

" ‘Cause I heard Jesus, He drank wine
And I bet we’d get along just fine
He could calm a storm and heal the blind
And I bet He’d understand a heart like mine.
Oh yes, He would"
(Miranda Lambert, Heart Like Mine)



Ancora nuvoloni, cieli grigi e giorni di pioggia un giorno sì e un giorno no in quest'affascinante terra che é la pianura padana. Datemi un po' di mare, o almeno un po' di sole per favore. E poi, accidenti, sono pure metereopatico e questo non aiuta.
Allora, almeno, datemi del country, che di quello non riesco a stare senza troppo a lungo e se é country mescolato al rock ancora meglio. Che poi, come se non bastasse, non mi sono ancora ripreso dall'ascolto dei Blue Ridge Rangers di ritorno, l'ultima "fatica" di John Fogerty, che fatica lo é stata per davvero, almeno per me, al punto che, neanche arrivato a metà disco, mi ci sono voluti due ascolti consecutivi di Grievous Angel di Gram Parsons per ritirarmi su. E no, accidenti, non si maltratta il genere così, davvero non si fa. Ma dovevo aspettarmelo da un album dove il buon John, a corto d'idee, invita pure gli Eagles Don Henley e Thimoty B. Schmidt a dividere la partita in sala d'incisione. Com'é che diceva quello là, Drugo, il tizio del Grande Lebowsky? "butta via quella m.. e metti su i Creedence!"...

I Creedence, appunto, sarebbe molto meglio. Ma nel frattempo ho bisogno d'altro, che non si può mica vivere solo di ristampe. E così ecco un dischetto nuovo nuovo, fatto da Miranda Lambert, venticinquenne di belle speranze, peraltro giunta già al terzo album in carriera. Belle come bella é la copertina, perché, lo ammetto, mi ci sono fermato per un po'. D'altra parte anche in libreria si fa così: ci si fa attrarre da titoli, colori e geometrie, ma poi ci si mette pure a leggere, sennò in libreria cosa ci sei andato a fare, allora te ne vai a una mostra di quadri o di fotografia.
Comunque Miranda sarà pure - commenteranno i più maligni - più bella che brava, ma questo disco non é mica solo Nashville, pedal steel guitar e niente testa, tant'é che, arrivato al terzo giro, mi son messo ad ascoltare le canzoni. Ballatone country ariose, mescolate a poderose virate rock'n'roll, con in mezzo pure un po' di deriva verso qualcosa che sa di punk; il tutto sufficiente, insomma, a spazzar via il maltempo dall'orizzonte della mia giornata. Le liriche? Beh, quelle sono così così, anche se Heart Like Mine mi ha fatto fermare qualche istante, non fosse altro perché richiama al fatto che un cuore, per essere ascoltato veramente, ha bisogno di rivolgere lo sguardo verso un Altrove. Questi testi, comunque, sanno di onestà, tant'é che Miranda stessa ci racconta che non tornerebbe indietro di una riga su ciò che ha scritto, perché é tutto parte di ciò che é lei. "If you're into honesty, I have the records for you", dice ridendo e allora prendiamocelo su, questo disco, che poi la ragazza ha solo 25 anni e si farà.

OK, tutto qua, lasciatemi ascoltare queste canzoni e stay tuned, se ne avete voglia.
Prossima fermata del mio country train: le forze naturali di Lyle Lovett; dicono che sia un bel disco, superiore a quello di John Fogerty e probabilmente anche a quello di Miranda. Lui, Lyle, é molto più brutto, però...


Sunday, November 15, 2009

BEING THERE


"I'm trying to break your heart", canta Jeff Tweedy e la platea milanese ha un sussulto, il primo vero sussulto della serata. Una platea che ha gremito ogni ordine di posti per il ritorno in Italia degli Wilco, uno show sold out da mesi, atteso ormai da troppo tempo. Il cuore, Tweedy e soci, nuovi heartbreakers del terzo millennio, lo spezzeranno in realtà di lì a poco, con un'appassionata versione di California Stars di Woody Guthrie. Il cuore pulsante dell'America delle radici e delle tradizioni é già tutto lì, contenuto in quella canzone e nell'alchimia di voce e suoni che trasformano d'incanto via del Conservatorio in Mermaid Avenue.
Per quanto mi riguarda, potrebbe bastare già così, ma per fortuna questo é un concerto degli Wilco e c'é molto, ma molto di più.
Paolo Vites definisce cosmic music il prodotto musicale della band e non si potrebbe trovare definizione migliore. Come descrivere altrimenti il piacevole smarrimento generato dall'impatto sonoro complessivo, quando i musicisti si muovono sui terreni inesplorati della distorsione di chitarre e tastiere, svolti sul tappeto ritmico incessante e martellante generato da quel folletto al basso di John Stirratt e da quel gigante di virtusosismo e muscoli alla batteria che corrisponde al nome di Glenn Kotche? Sono i momenti in cui l'eclettico e geniale Nels Cline sfodera dalle sue chitarre i suoni più improbabili, muovendosi sul palco come fosse stato morso da una tarantola; ma sono anche i momenti in cui l'acustica di Tweedy e la sua voce riemergono improvvisamente, facendo insperatamente e magicamente ripiombare l'ascoltatore in atmosfere intime ed intense raramente sperimentate altrove.
Due ore e mezza di grande musica, in cui puoi trovare tutto ciò che hai sempre desiderato. E' Bob Dylan, é Woody Guthrie, sono i Pink Floyd, oppure gli Stones. No, sono gli Wilco invece, unici e inimitabili, la più grande rock band americana che ci sia in circolazione.
Mi porto a casa immagini e suoni. L'etereo assolo di chitarra di Cline su Impossible Germany, la magia di Via Chicago, il crescendo di wall of sound su Handshake Drugs. E poi Jeff Tweedy, gambe larghe, la cassa della chitarra acustica abbracciata, il manico un po' in giù, ma sì, dai, proprio come faceva lui: Bob Dylan nei sessanta.
Dovessi rubare il lavoro agli amici dell'Armadillo Bar, metterei uno champagne in abbinamento a questo show. Marca e annata? Fate voi. Basta che sia di quello buono. Quale sia il futuro del rock'n'roll, io davvero non lo so. Ma ho voglia di brindare al presente. E il presente si chiama Wilco.


Friday, November 06, 2009

IT'S ALL GOOD

"I don't give a shit who plays bass"
(Bob Dylan a Kenny Aaronson, 1989)


Un giorno, quando il Never Ending Tour sarà finito, spero che scriva le sue Chronicles anche lui. L'uomo inossidabile, sempre tranquillo e sorridente al fianco di Bob Dylan da vent'anni a questa parte, da quando cioé sostituì al basso Kenny Aaronson, costretto a lasciargli il posto nella band per intraprendere la battaglia, fortunatamente vinta, con un melanoma. Tony Garnier, qualche giorno fa a Chicago, in una sera di Halloween in cui a Dylan dev'essere venuta in mente la sua performance di mille anni fa a Philadelphia (1), non se l'é sentita di stare al gioco col maestro in vena di scherzi, che ha tentato di fargli imitare Willie Nelson sul palco, dopo essere riuscito nell'intento con quella statua di sale di Stu Kimball, presentato come fosse Tom Waits e che poco c'é mancato che Tom Waits sembrasse sul serio. Stu aveva sfoderato una bella voce blues, cantando il primo verso di Jesus Gonna Be Here, prima di tornare diligentemente al suo posto, là in fondo, a fare lavoro di tappeto ritmico, con quella chitarra senza lode e senza infamia in mano. Ma Tony no, lui non se l'é sentita ed ha continuato come sempre a far da sfondo a Bob, lui che ha visto musicisti di ogni tipo girargli incontro, lui che, probabilmente, conosce Dylan meglio di chiunque altro e che proprio per questo non ne parla mai con nessuno.
Chi, invece, sa stare al suo posto, ma, allo stesso tempo, si fa capace di stuzzicare senza pari il bardo, é quel fenomeno di Charlie Sexton, che, oltre ad aver fatto finalmente comparire una chitarra nello show, sta facendo ritrovare a Dylan energie, umorismo e desiderio che sembravano assopiti per sempre, senza possibilità di recupero alcuna.


Qualche giorno fa, le note del concerto di Chicago fuoriuscivano allegramente dal mio stereo, a fronte di una giornata che allegra non sembrava essere stata proprio per nulla. Ci sono giorni in cui ti sei impegnato a fondo nel fare la tua parte: amare il prossimo, piangere con chi piange, ridere con chi ride; l'hai fatto al punto tale che, lo sguardo calato ogni momento dentro ciò che accade, giunto alla fine della giornata ti sembra d'aver perduto l'amore che hai donato e di provare solo stanchezza, quasi fosse polvere accumulata su di te, polvere che offusca la visuale, toglie il senso a ciò che hai fatto e stai facendo, appesantendoti e facendoti smarrire. Ma ci sono giorni - tanti, troppi - in cui non riesci affatto ed il tuo fare é uno sfuggire, un trascinarsi stancamente, una tristezza di fondo dalla quale sembra sia quasi impossibile uscire.
Forgetful Heart, messa lì dentro quel concerto, ti coglie e ti spiazza all'improvviso, in un momento così, al ritorno dal lavoro, in cui l'orizzonte del tuo sguardo sembra non andare più in là di quei pochi metri che separano il muso dell'auto dal pezzo di strada che riesce a intravedere là davanti. La voce di Dylan ti prende di sorpresa, intonata e appassionata come non mai, su un tappeto sonoro lento, discreto ed avvolgente, che inesorabilmente si fa spazio un po' alla volta, in mezzo a pensieri così densi che nemmeno una furibonda Highway 61, cantata di lì appresso, sarebbe riuscita in qualche modo a spazzar via.
Quella canzone, che parla di cuori perduti e smemorati ("forgetful heart / lost your power of recall / every little detail / you don't remember at all"), é la tua canzone, canta i versi del tuo cuore. Perché tutto questo é quello che sei tu, nel tuo giudicare la realtà condizionato dai fantasmi della mente, dalle emozioni che hai provato e dall'esito delle vicende che hai vissuto, successi e fallimenti che, come diceva quello là, in fondo non sono altro che maledetti impostori.
No, non é l'esito ciò che ti definisce, ma un cuore che recuperi la memoria del proprio desiderio. Un cuore appassionato, che sappia leggere, dentro le vicende del momento, l'agire di un Altro che lega le cose tra di loro con un filo rosso che sa di Destino buono.
E' in quell'istante - quando la percezione di ciò che é l'Amore riesce a farsi strada nuovamente - che quella stessa strada si allarga all'improvviso e, scossa la polvere di dosso, fa sì che lo sguardo riesca a vedere ogni cosa da vicino e da lontano. "It's all good", canta Bob Dylan, ed é tutto buono, tutto davvero, senza che nulla, ma proprio nulla, debba essere censurato dalla tua giornata.
Quando sei arrivato in fondo, ed il cammino é giunto sino a casa, ti accorgi che anche oggi un Altro si é fatto largo per misericordia dentro la tua vita, attraverso la canzone di un amico.
Vecchio disgraziato di un Bob Dylan, che ci volevi proprio tu, questa sera, a fare da strumento per ridestarmi dal mio solito e inguaribile torpore.



Note :
(1) "I have my Bob Dylan mask on, I'm masquerading," Bob Dylan, Philarmonic Hall, Philadelphia, "The Halloween Concert", 31 ottobre 1964.

Sunday, November 01, 2009

CERTE NOTTI




Tre del mattino, fermo davanti alla macchinetta del caffé. Guardo le luci della città, sembra una gigantesca costellazione. La vista da quassù é fantastica. Il decimo piano dell'ospedale é un osservatorio in mezzo alla pianura: ci sono delle volte, di giorno, che vedi tutte le montagne, dalla Marmolada fino al Monviso. Ma a quest'ora é ancora più stupendo e suggestivo.
Il paziente che ho messo a letto, più di un'ora fa, ora sembra stare meglio. Il dolore é passato ed il respiro, sotto quella mascherina, non é più affannoso come prima. Tutto sembra più tranquillo, anche qua come là fuori, qui dentro dove il giorno é uguale alla notte, la domenica uguale al lunedì, la sofferenza che bussa alla porta ogni momento, che interroga incessantemente il cuore di chi é malato e di chi assiste, se solo quel cuore lasci che lo interroghi qualcosa.
Certo che é davvero una vita rock'n'roll, questa. Tre del mattino e ti prendi un caffé mentre continui a guardare fuori. Peccato che la macchinetta non distribuisca una birretta, ci starebbe proprio bene. Ma no, che dici, sto scherzando, che in servizio non si può; la birretta me la faccio domani sera a casa, se riesco a non crollare prima sul divano, che come si fa, a quasi cinquant'anni, a continuare a fare una vita così.

E invece sì che si può, continui a pensare mentre guardi fuori, uno sguardo anche al cicalino che tra un pò si rimetterà a suonare, perché quando mai ti lasciano tranquillo un tempo che sia sufficientemente lungo in questo posto. Si può perché é una sfida e a me le sfide mi fanno sentir vivo, a dispetto di una fragilità sempre più sperimentata, apparentemente più intensa giorno dopo giorno.
Vivo nella misura in cui, davanti al prossimo paziente che mi arriverà innanzi, avrò il coraggio di chiedermi una volta ancora "chi sono io", un desiderio mai sopito di educarmi al bene, perché solo così, se sono capace di rompere le palle senza tregua all'uomo vecchio dentro me (1), posso provare a rispondere alla sua domanda, il "se vuoi mi puoi curare" che oggi l'ha portato fino a qui.
E' ancora notte, notte fonda, ma l'alba si farà strada a poco a poco, l'alba del primo giorno di novembre, il giorno di Ognissanti. Qui dentro di santi se ne incontrano parecchi, da uno a tre per ogni stanza, l'ultimo é quello che ho messo a letto poco fa. Santi perché stanno passando dentro sofferenza e redenzione, anche se a quella, la redenzione, non ci credono come tanta altra gente là fuori, quella che sta bene. Eppure ne hanno bisogno, come ne ho bisogno anch'io, pure adesso che, mentre li curo - volesse il cielo, invece, che fossi capace di prendermene cura, che é tutta un'altra cosa - non faccio altro che fare compagnia alla loro strada.

Stamattina, quando smonto da questa notte lungo le torri di guardia, me ne torno a casa e, con la famiglia, faccio il giro dei cimiteri. Perché il giorno di Ognissanti, guarda un po', é attaccato a quello dei defunti e se ci pensi bene non é un caso, é un filo rosso che lega le cose tra di loro e che ha a che fare col Destino, un Destino buono che sa di eternità.
Vado con mia moglie e con i figli, é una cosa che, tutto sommato, piace ancora anche a loro. Perché non é mica una faccenda triste, questa, c'entra con il bene che prosegue, con l'amore che non muore.
Amore che non muore, amore che sa di carità: "Nessuno é perduto di quelli che entrano in Dio: ché, se qualcosa vale realmente nel fratello che ora ha "la vita mutata, ma non tolta", questa é la carità. Sì, perché tutto passa. Passano persino, con la scena di questo mondo, la fede e la speranza. La carità resta" (Chiara Lubich).

Quel cicalino che non sta mai zitto, ha ripreso a suonare di nuovo. In altri momenti mi avrebbe dato fastidio, ma questa notte no. Certe notti cogli meglio il senso delle cose, non perché tu le capisca meglio, ma perché c'é Qualcuno sempre pronto a dare le risposte a chi non smette mai di domandare, anche quando la voglia di farlo non ce l'ha.
La domanda del "chi sono io?" troverà forse risposta di fronte al prossimo paziente che verrà, quello che ha fatto scattare ancora questo benedetto cicalino.
Vado a vedere, sono curioso: non é mica una notte qualunque, questa.

Note
(1) "Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti." (San Paolo, lettera ai Colossesi)

Thursday, October 29, 2009

SOUL MUSIC

Quando un disco ti gira e rigira nel lettore ed un tuo amico ha già scritto tutto quello che hai nell'anima, che bisogno c'é di aggiungere altro?
Strict Joy é il nuovo album dei Swell Season.
La recensione di Paolo Vites qui


Saturday, October 24, 2009

FALL IN LOVE


Autunno 1989, Bob Dylan ritorna a New York City. Quattro concerti al Beacon Theatre, dopo quelli splendidi al Radio City Music Hall dell'anno prima. Bob Dylan che ha abbandonato le arene e i grandi stadi, che non ha più dietro a sé Tom Petty e gli Heartbreakers o i Grateful Dead e che ora suona con pochi musicisti - chitarra, basso e batteria - in piccoli teatri. E' iniziato il neverending tour, ma nessuno, probabilmente neanche lui, sa ancora che quello é uno show che non ha mai fine.
Dylan che, sul palco, sembra più crepuscolare e scontroso che mai: sono scomparsi i sorrisi e le risate che regalava alle platee su e giù per gli States nell'estate del 1986. Erano momenti più felici quelli di allora? Sembrerebbe proprio di no: "Avevo fatto diciotto mesi di tournée con Tom Petty and The Heartbreakers. Sarebbe stata l'ultima. Mi sentivo tagliato fuori da ogni forma d'ispirazione. Qualunque cosa fosse stata presente all'inizio, era scomparsa o si era raggrinzita. Tom stava dando il meglio di sé ed io stavo dando il peggio. Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Il mio momento era passato. Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende. Adesso con Petty si trattava di arrivare alla fine del mese, dopo di che avrei detto basta. Ormai ero, come si dice, sulla china discendente. Se non ci stavo attento rischiavo di ritrovarmi a gridare al muro, pieno di furia e con la bava alla bocca. Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso e io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato" (1)


Il mistero della performing art di Bob Dylan risale dunque sul palco di New York il 10 ottobre del 1989, per una serie di concerti attesi, la "promessa" di sentire dal vivo le canzoni di Oh Mercy, lo splendido nuovo disco, uno dei suoi più belli di sempre. Ma cosa é successo a Dylan? "Invece di essermi perso chissà dove alla fine di una storia, capii che in realtà ero all'inizio di una nuova. Potevo mettere da parte la mia decisione di andare in pensione. Sarebbe stato interessante ricominciare da capo, mettendo me stesso al servizio del pubblico. Sapevo che ci sarebbero voluti anni per perfezionare e rifinire questo nuovo idioma, ma grazie alla mia fama e alla mia reputazione l'opportunità si sarebbe presentata". (2)
Il Bob Dylan che sale on stage quella sera é impacciato, barcolla paurosamente, alla fine di ogni canzone non si sa mai se riuscirà a partire per quella successiva; troppe bottiglie di whiskey nel camerino, dicono, ma probabilmente non c'é solo questo; eppure il genio é intatto, l'incedere dello show magico e imprevedibile. Finché arriva Like A Rolling Stone. Essenziale, dura, precisa e senza fronzoli, fino a quell'armonica, messa lì improvvisata, proprio al termine della canzone. Soffia, aspira, succhia; cerca la fine e non riesce a trovarla, sembra un bambino che sta imparando a suonare. E' un anticlimax, é imbarazzante, ma é la musica che cerca l'espressione di se stessa. G.E. Smith lo capisce al volo: sempre un passo avanti agli altri musicisti della band, lo segue da vicino con la sua chitarra, fa da sfondo perché accada ciò che ha da accadere. Finché la canzone risale, percorre territori inesplorati, momenti sospesi in aria senza tempo, la gioia e l'eccitazione degli spettatori in sala, la canzone che canta se stessa, canzone "come un sogno che si cerca di rendere vero", canzoni "come strani paesi dove bisogna entrare" (3). Paesi in cui Bob, per fortuna, entra quella sera senza esitare.


Per qualche strano motivo Bob Dylan sembra spesso ritrovare in autunno energie nuove ed inattese. Era accaduto in quelli shows del Beacon Theatre, ma la cosa si era ripetuta in altre occasioni. Il fall tour del 1991, per esempio, aveva visto un gruppo di musicisti scalcinati trasformarsi d'incanto in una solidissima rock band, capace d'intendersi alla perfezione con un artista che sembrava aver ritrovato se stesso dopo essersi stancamente trascinato sui palcoscenici di mezzo mondo per tutto l'anno. Anche Oh Mercy aveva ridestato in autunno il desiderio compositivo di Dylan, che lui stesso pensava d'aver perduto per sempre: "Avevo fatto tutto quello che si doveva per arrivare dov'ero, lo scopo era raggiunto e non avevo più ambizioni al riguardo (...). Non ero capace di sforzarmi a scrivere, ero convinto che non avrei scritto più niente, e comunque non avevo bisogno di altre canzoni". (4)
Autunno così denso di malinconia e forse per questo così caro ad un musicista che sembra non poterne mai fare a meno. La malinconia di Oh Mercy é la malinconia di New Orleans, quella che "pende cronica dagli alberi", ma quella di cui "non ci stanca mai". C'é malinconia anche nei concerti del tour autunnale del 1999 e del 2000, tra i migliori in assoluto di sempre. Ce n'é un sacco in quelli del 2002, quando Bob regala quasi ogni sera splendide interpretazioni dei classici di Warren Zevon, che, sul viale del tramonto della vita, morirà di lì a breve per un mesotelioma, poco dopo aver pubblicato The Wind, uno dei suoi più bei dischi di sempre.


L'autunno di questo 2009 non sembra un'eccezione, dentro tutta questa avventura.
Il rimpiazzo di Danny Freeman con Charlie Sexton pare abbia ridestato l'artista da un letargo che aveva reso il Bob Dylan Show una sorta di circo che si trascinava stancamente in giro per il mondo. Ma il talento di questo straordinario chitarrista non sembra sufficiente a spiegare il desiderio e la passione che riappaiono percepibili nelle performances del Bob di questi giorni. Come G.E. Smith era capace d'interagire con lui in maniera unica, anche Sexton sembra comunque aver innescato un circolo virtuoso con la mai sopita potenzialità di performing artist di Bob Dylan, a tutto vantaggio delle sue canzoni che riusonano nuovamente dolci e potenti allo stesso tempo, a dispetto di una voce ormai roca e stanca ma sempre più colorita di quelle radici blues che la rendono affascinante come non mai.



Ma che Dylan abbia ancora qualcosa da dire lo dimostra anche il nuovo disco, Christmas In The Heart, il disco natalizio i cui proventi andranno a sostenere Feeding America, una sorta di Banco Alimentare americano. Perché non si può cantare Adeste Fideles per contratto, bisogna avere qualcosa nel cuore. Un cuore noncurante, smemorato forse - Forgetful Heart - ma in qualche modo sempre alla ricerca, pronto a riabbracciare quel Destino buono che lo avvolge dentro sé. Ed anche perché accade sempre qualcosa, anche quando ti sembra di non capire - something is happening here, but you don't know what it is - ma l'importante é che tu non perda la strada che porta verso casa. Quella strada che magari, come scrive Rosanne Cash, parafrasando T.S.Eliot nelle note di copertina del suo ultimo disco, fa sì che tu possa tornare da dove sei partito e scoprire quel luogo come se fosse la prima volta. Quella strada che Dylan non sembra smettere di percorrere, a dispetto di se stesso ed a dispetto di ciò che noi pensiamo. Ma che ci piace continuare a condividere con lui.


Note:
(1) tratto da : Bob Dylan, Chronicles vol.1, Feltrinelli ed.
(2) ibid.
(3) ibid.
(4) ibid.

Tuesday, October 13, 2009

DIPENDENZA


Un amico che ti passa un disco, dicendoti: ascoltalo, io non li conoscevo, sono davvero bravi. Ti passa un disco come ai vecchi tempi, quando internet non c'era, niente musica da scaricare, niente anteprime in streaming, solo i consigli degli amici ed i giri nei negozi di dischi alla caccia delle novità. Lo ascolti, quel disco, e ti piace, come ti piacciono sempre più i vecchi tempi.
Un duo di norvegesi, musica che viene dal nord, dolce e rilassata, anche malinconica se vuoi, ma ricca di freschezza, cangiante dal pallido al brillante, come la copertina del disco, il cui retro sembra un freddo paesaggio scandinavo che lascia subito il passo ad una front cover di sapore caraibico.

Lo metti su appena esci dal lavoro, questo Declaration Of Dependance dei Kings Of Convenience. Che bel titolo, pensi: certo che voglio dipendere da qualcosa o da qualcuno, in questo pazzo mondo dove la gente pensa sempre di farsi da sola, credendo di trovare la felicità dentro di sé. E' utile, é conveniente, é la cosa più saggia da fare: nessuno basta a se stesso.
Metti su quel disco e le armonie vocali e musicali sembrano rimetterti finalmente in pace, dopo una giornata dove mille problemi e delusioni si sono aggrovigliati al punto tale da far sfuggire la speranza dall'orizzonte della tua esistenza. Ma é l'illusione di pochi istanti e sei già tornato al punto di partenza. E' in quel momento che ti torna in mente quella frase di Chiara Lubich, quella che ti ronza sempre, ogni volta che ti senti così perso: "quando si accavallano problemi nella tua mente piglia nelle mani il problema chiave, l'Amore e sciogli tutto in esso".
Dipendere dall'Amore, ecco una bella soluzione, ma non é ancora chiaro il punto, perché tu sai che di amore sei troppo incapace, hai sperimentato mille volte la tristezza della tua infedeltà.
Allora provi a guardare tutto da un'altra prospettiva e ti viene in mente un'altra frase, sentita da un incontro sull'educazione, quella che ti ha mandato quella cara amica ed alla quale, lì per lì, non avevi fatto neppure troppo caso: "scriviti sullo specchio del bagno, dove tu ti fai la barba e tua moglie si trucca al mattino, "chi sono io?". Perché se tu sei seriamente alla ricerca della risposta a questa domanda (perché é una domanda a cui non si risponde una volta per tutte ma tutti i giorni devi ricominciare) ci saranno tante conseguenze".

Chi sono io é una cosa che davvero io non so. Ma quando non si sa una cosa, la mossa più intelligente che si possa fare non é inventarsi le risposte, ma chiedere.
E stamani, come prima cosa, dopo aver accompagnato i miei figli a scuola, sono andato a fare proprio quello: chiedere. Ho cercato il posto adatto, era pure comodo, proprio vicino a casa mia, un luogo grande, sempre aperto, con tanto spazio a disposizione ed un tabernacolo là in fondo. Sono entrato in chiesa, carico solo dei miei dubbi, ed ho chiesto di dipendere.
Dipendere da qualcosa: l'Amore. Dipendere da qualcuno: Colui che ha dato la vita perché quell'amore lo potessimo conoscere.
Quando sono uscito da lì il freddo vento del mattino aveva lasciato spazio ad un tiepido calore che sa ancora di un'estate che non vuol finire. Ed é stato a quel punto che mi é venuto in mente l'altro pezzo di quella frase di Chiara: " (...) Verrà l'intimità profonda con Gesù; le tue relazioni con Lui saranno vive e gioiose. Aspetta tutto dalla vita, però dopo che hai dato ad essa tutto te stesso".



Thursday, October 08, 2009

LA LISTA DI FAMIGLIA



It was so many years ago.

La cameretta di un adolescente e dentro una poltrona rovinata, quella del salotto vecchio di casa che non si vuole buttar via. Seduto sopra, un ragazzo con un libro in mano, un po' malinconico, con tanti sogni nel cassetto; é inverno e fuori fa freddo, il cielo grigio e tanta fantasia, così che la mente vola sin laggiù, il Greenwich Village di New York. Quel ragazzo legge la biografia di Bob Dylan, quella di Anthony Scaduto tradotta in italiano e, mentre legge, ascolta Desire, il nuovo disco appena uscito, e quelli più vecchi, quelli dei sessanta, del folksinger di protesta, che poi lui, Dylan, quando mai aveva protestato per qualcosa, che aveva sempre e soltanto camminato dritto per la sua strada. Emozioni, desideri e fantasie che, a distanza di anni, quel ragazzo divenuto uomo ricorda ancora come fosse ieri; ma che non prova più, perchè ora non riesce ad immaginare il Village fuori dalla finestra di casa. Quell'uomo, adesso, prova emozioni differenti, certamente più vere ed anche più esaltanti, perché la realtà é molto meglio della fantasia, ma non riesce più a riprodurre quella sensazione, l'impressione d'esser lì con loro, Bob e Woody, il sabato pomeriggio a casa Gleason, seduti sul divano cantando canzoni, mentre tracciano, inconsapevolmente, un pezzo insostituibile di storia della musica americana.
"(...) Woody chiedeva di lui in continuazione: "Viene oggi il ragazzo? Quando torna il ragazzo?" Si era stabilito un legame tra il morente, creatore della musica popolare moderna e il ragazzo che faceva la sua imitazione, che lo ammirava e che, presto, l'avrebbe superato. Quando non c'era troppa confusione parlavano tra di loro; Bob aspettava pazientemente che il malato formasse le parole che faticavano tanto a venire. Woody non poteva affrontare una conversazione con più persone: si emozionava, balbettava, perdeva il filo del discorso e non riusciva a mettere insieme le parole. Ma con Dylan accovacciato in un angolo ai piedi del suo giaciglio, parlava. Una domenica, una delle prime, Bob gli cantò sottovoce Song To Woody e tutti gli altri, presenti nella stanza, s'interruppero per ascoltarlo. Ricordano che Woody fece un gran sorriso e disse: "E' molto bella, Bob. E' dannatamente bella". Sembrava che Dylan fosse entrato nel suo cuore. Più tardi, dopo che tutti erano andati via, Woody disse ai Gleason: "Quel ragazzo ha una gran voce. Forse non andrà molto lontano con le canzoni che scrive, ma canta come nessuno" (Anthony Scaduto, Bob Dylan - la biografia, Arcana ed.)


Yesterday

In una sola cosa si era sbagliato Woody: il ragazzo, con quelle canzoni, sarebbe andato lontano davvero e quella sera, una sera d'ottobre del 1992, al Madison Square Garden di New York, erano arrivati in tanti a ringraziarlo per tutto questo. Uno stadio stracolmo di gente e sul palco tanti di quegli artisti che altro che Woodstock o Live Aid. Tutti a cantare non le loro canzoni, ma le sue, e spesso anche piuttosto bene, con quel geniaccio di G.E. Smith a fare da direttore artistico e da splendida chitarra solista dovunque ce ne fosse stato bisogno. E poi lui, Dylan, che era arrivato alla fine, in imbarazzo almeno quanto doveva esserlo stato le prime volte che aveva visto Woody, disteso in un triste letto d'ospedale del New Jersey alle prese con quella brutta malattia degenerativa, la corea di Huntington. Chitarra acustica a tracolla ed armonica al collo, passo impacciato come sempre, aveva tirato fuori ancora quella canzone, Song To Woody, il colpo da maestro, l'attenzione ancora una volta spostata da sé; perché non é una celebrazione questa, in fondo, é solo ed ancora un altro pezzo della mia strada e allora non chiedetemi di cantare Blowin' In The Wind, niente hits da classifica questa sera, non questa sera almeno.


Today
Quella sera, ad interpretare una bella versione di You Ain't Goin' Nowhere, briosamente country e con la chitarra di G.E. pronta ad accettare il duello con le loro voci, era salito sul palco un trio di belle ragazze: Shawn Colvin, Mary Chapin Carpenter e Rosanne Cash. Le aveva presentate l'uomo in nero, The man in black Johnny Cash e le telecamere non si erano lasciate sfuggire il tenero bacio del papà alla figlia, un attimo prima che l'esibizione avesse inizio.
La performance di Rosanne rassicurava sul fatto che l'eredità di Johnny fosse in buone mani, ma lui era già preoccupato da tempo per una figlia "ossessionata dai Beatles, dal rock californiano del sud e dalla pop music". E' per quello che, a 18 anni le aveva consegnato una lista con le 100 canzoni country a suo giudizio più importanti di tutti i tempi, dicendole: imparale, figlia mia, cos'altro posso lasciarti; faccio il cantante e questa é la mia vita, life and life only; questo fa parte della mia educazione.




Una faccenda di famiglia, insomma, ma una faccenda importante se Rosanne, a distanza di anni, tira fuori di nuovo quella lista e ne estrae dodici canzoni per il primo album di covers della sua carriera, con un secondo disco, a quanto pare, già pronto nel cassetto. Il risultato é assai pregevole, con qualche ospite d'eccezione a duettare con lei per l'occasione. L'onnipresente Springsteen, naturalmente, ma anche Elvis Costello, Jeff Tweedy e l'inatteso Rufus Wainwright. Le canzoni, naturalmente, sono tra le più belle in assoluto, ma la lista, si sa, l'ha fatta Johnny e sulla qualità di scelta certamente non avevamo dubbio alcuno. Ce n'é per tutti i gusti: Hank Williams, Jimmie Rodgers, The Carter Family, Merle Haggard e Patsy Cline; e non poteva mancare quella Girl From The North Country, con cui Dylan e Cash duettarono nelle memorabili sessions del 1969. Alla fine si rivela un disco estremamente piacevole, un altro album pronto a scaldare le prime sere fredde d'autunno, magari seduti intorno ad un tavolo con gli amici ed una buona bottiglia di vino o di whisky a fare compagnia.


Lunga vita dunque alla famiglia Cash, di cui, tra l'altro, Rosanne parla abbondantemente nel suo blog (http://thelist.tumblr.com/). Anche la bella figlia Chelsea, che ha appena finito di registrare il suo primo disco, pare cominci ad avventurarsi sui sentieri pericolosi della buona musica, senza peraltro lasciarsi condizionare troppo dalla madre ("preferisco starne fuori e lei desidera che io faccia così", dice Rosanne), dalla quale peraltro vorrebbe dei consigli da madre e non da musicista ("come é possibile avere una carriera di successo senza avere per forza anche una vita pubblica?" "Lo sapessi anch'io..." é la risposta...).
Tant'é, auguri di cuore anche a Chelsea, chissà che oltre alla lista non continui a tramandarsi anche il talento di nonno Johnny; per ora mamma Rosanne si accontenta di vedere la figlia indossare splendidamente e volentieri i suoi vecchi stivali da cowboy...


Friday, October 02, 2009

LUCKY OLD MARK


Ascolto Get Lucky, l'ultimo disco di Mark Knopfler e continuo a pensare a paesaggi del nord. Immerso nel traffico, incontro gente frettolosamente in viaggio verso il lavoro, altra che quel lavoro non ce l'ha o, semplicemente, percorre il tragitto che porta verso casa. Persone di ogni tipo, distratte o affaccendate, troppo spesso nervose. Mi piace fermare l'auto davanti alle strisce pedonali, raccogliere il sorriso di chi attraversa la strada, che se é una bella ragazza meglio ancora, ma godendo pure della smorfia del vecchietto incerto nel cammino. Sorriso come anatema dei clacson, quelli isterici dei cretini dietro a me, la cui vita sembra dipenda dal minuto e mezzo che avranno guadagnato, quando, correndo come pazzi, saranno arrivati finalmente in posti dove magari non li aspetta poi nessuno. 
No, non si possono ascoltare così queste canzoni, no davvero: "Prima che la gente avesse gas, tv ed automobili, ci si sedeva intorno a un fuoco, ci si passava la chitarra e si ricordavano canzoni" (Before gas and tv). C'é bisogno di spazi distesi e della luce del tramonto. Non é più il people on tv di Money For Nothing, ma gente seduta intorno a quel fuoco che si passa la bottiglia del vino, racconti di strada che si fanno tradizione: "in the tales of the road, since time out of mind" (Before gas and tv). E' per questo che anch'io, arrivato a questo punto, devo cambiare strada, allungarla, portarla in luoghi improbabili e inattesi, far entrare di nuovo il mare dentro i miei pensieri.

Vorrei invecchiare come Mark, come la sua chitarra, sempre più dolce e sicura. Non più l'assolo devastante di Sultans Of Swing, ma l'arpeggio che entra nelle vene profonde, lasciandovi dentro il brivido che non ha mai fine.  Sono colori pastello, quelli d'indimenticabili paesaggi di Normandia; magie di suoni, radici folk, country e blues malinconicamente e sapientemente intrecciate come solo questo musicista é capace di fare, il cuore che oscilla come un pendolo tra Scozia, Inghilterra del nord e delta del Mississippi. I sessant'anni di Knopfler sono diversi da quelli di Springsteen, giocati sui registri dell'introspezione che rendono lontani i Dire Straits almeno quanto la E Street Band é invece ancora vicina al cuore del Boss. Modalità espressive differenti - non per questo differentemente vere - ma che, nel caso di Mark, rispondono forse un po' di più a quell'esigenza di sintesi interiore di pezzi di vita e d'esperienza musicale che solo la maturità artistica coniugata al genio é in grado di ottenere.

Inframezzato tra il canto di Knopfler ed ogni melodia c'é un canto di popolo, forse autobiografica nostalgia, che si esprime dentro la tranquillità sonora di archi e pianoforte o l'allegria di whistle e violino; frasi luminose di una chitarra, capace di cantare come la più perfetta delle voci ed oggi sempre più in grado di venire dolcemente e magicamente in primo piano anche quando sa mettersi in disparte. 
Il songwriting di Mark Knopfler sembra avviarsi verso una semplicità espressiva solo apparentemente scanzonata ("a volte mi addormento mentre suono la chitarra", ebbe a dire una volta in un'intervista), in realtà figlia di un bagaglio espressivo sempre più colto e cosciente delle proprie radici.
Un disco dopo l'altro, le sue sonorità appaiono sempre più spesso malinconiche, ma, paradossalmente capaci in realtà di rubare la tristezza, quella che ti rende immobile ed incapace di proseguire dritto verso la strada che un Destino buono ha da sempre tracciato dentro la tua storia. La colonna sonora ideale per quest'autunno già iniziato e per mantenere intatte le speranze di un sole d'estate, capaci di scaldare anche il freddo più intenso dell'inverno che verrà. 

Monday, September 28, 2009

JOSEPHINE




Smonti da una notte di guardia in ospedale ed il torpore che ti avvolge é sufficientemente denso per allontanare da te l'insulsa frenesia di tutto il mondo attorno.
Josephine é il disco giusto da metter su, perché la tristezza e la malinconia, che insopportabilmente ti assalgono senza preavviso alcuno, si fondano allo stesso tempo in un'inesplicabile dolcezza. Dolcezza di cui senti d'aver bisogno, ora che vorresti trovarti su spiagge di un mare d'autunno, dove onde e maree cominciano a farsi minacciosamente innanzi a falesie di roccia e case di mattoni.
Non può essere come gli altri un disco che nasce sul ricordo della scomparsa di un amico. Non può essere lo stesso tappeto di chitarre, quello esaltante di Jason Molina e soci, ad accompagnarti mentre percorri la tua strada lungo queste note.
Ma stamani va bene così: é esattamente quello di cui hai bisogno adesso. Ed é per questo che la malinconia si fa dolcezza e la dolcezza si fa affido. Affido che é mettere nelle mani di un Altro il dolore che hai incontrato e quello che senti dentro te, profondamente radicato nella tue contraddizioni e nella tua sempre insostenibile incertezza.
Ma nelle mani di Uno più grande di te, il gusto della vita si ritrova e Josephine é disco troppo breve per durare sino alla fine della strada. Lascia il passo, di nuovo, a quell'allegro tappeto di chitarre, che canta nuovamente la bellezza di sapere che ogni ansia e frenesia é già risolta. La banda della Magnolia Elettrica non smette di farti compagnia e Trials & Errors - prove ed errori, ma guarda un po' - ti ridona il brio e l'energia di cui avevi bisogno, appena un attimo prima d'essere arrivato sin laggiù, alla fine della strada che porta verso casa.

Thursday, September 24, 2009

Tuesday, September 22, 2009

CAHIERS DE FRANCE (5) - BELLEZZA


"Ricordate le valigie": la nostra guida al castello di Amboise, madrelingua italiana ma naturalizzata francese - per cui illustra le stanze del castello parlandoci con uno strano accento,  che mischia il napoletano alla lingua della sua nuova patria - ci sta spiegando della bizzarra abitudine di Francesco I di cambiare casa ogni due mesi. Beato lui che così non si annoiava mai. E beato lui che, per portarsi dietro tutti gli effetti personali, ossia l'arredamento intero, disponeva pure di diverse migliaia di uomini e cavalli al suo servizio. Per cui - ci spiega appunto la guida - se li guardiamo bene, tutti i mobili di quel tempo assomigliano in realtà a bauli, sia che si tratti di tavoli, letti o quant'altro, erano fatti cioé in modo da poter contenere di tutto al loro interno. Delle valigie, insomma, ed é da quel momento che tutti noi cominciamo a guardare gli arredi delle stanze dei castelli di Francia come all'equivalente dei tapis roulants degli arrivi di un aeroporto.
Questa mania di fare le cose in grande, comunque, sotto sotto, era un po' da parvenus; é la guida che ce lo dice e d'altra parte lei é italiana e, si sa, un po' di conflittualità coi cugini d'oltralpe ci sarà sempre; anche i miei figli, senza sapere nulla della storia, nel 2006 volevano andare in gita in Costa Azzurra indossando le magliette dell'Italia campione del mondo ed in fondo adesso mi dispiace un po' d'essere riuscito a suo tempo a convincerli a non farlo.
Comunque, Francesco I, in Italia c'era stato anche lui. A farci un po' di guerre, naturalmente, che per fortuna non gli erano andate tutte bene. Ma alla fine si era innamorato del nostro paese, al punto da convincere una ventina di artisti ad andarsene con lui in Francia, Leonardo Da Vinci compreso, che aveva scavalcato le Alpi a dorso di mulo a più di sessant'anni, poveretto; fatica peraltro ripagata dalla tranquillità degli ultimi anni di vita tra le mura del Clos Lucé, delizioso piccolo castello in quel di Amboise, a due passi dalla corte del suo re.
Un re vanitoso, con la mania di fare cose in grande, ma ferito, suo malgrado, dalla bellezza.

Abbondanza di bellezza ne troviamo in tutti i castelli che abbiamo scelto di visitare, qui nella tranquilla valle che la Loira ha modellato nel corso dei secoli.  Azay-Le-Rideau é deliziosamente appoggiato su un isolotto, come una pietra preziosa incastonata su un anello di pregevole fattura. Chenonceaux, originariamente consegnato in dono a Diana di Poitiers, favorita del re di Francia, diventa oggetto di disputa con la legittima consorte Caterina de' Medici ed il risultato é che ciascuna fa a gara con l'altra per renderlo più bello. Anche nei secoli a venire, quando i periodi di decadenza si fanno inevitabilmente incontro, spunta sempre fuori qualche donna a cercare di restituire bellezza a questo posto e le donne, si sa, di bellezza se ne intendono parecchio.  Chambord, poi, con la sua maestosità, ce lo gustiamo a lungo, pedalando nell'immenso parco che lo circonda, un tempo riserva di caccia del re. E' il luogo dove scopro che Andrea, il mio figlio più piccolo é già bravissimo ad andare in bicicletta da solo, guadagnandomi uun solenne rimprovero da parte di tutti gli altri per la mia ignoranza : "ma come, papà, non lo sapevi?".




Alla fine, nel mio viaggio in Francia, di bellezza ne ho incontrata davvero dappertutto. Anche nelle persone, ovunque gentili, accoglienti, felici del fatto che tu abbia deciso di visitare i loro luoghi. I maligni dicono che che ho incontrato gente così perché mi sono sforzato di parlare nella loro lingua: pare che rivolgendosi a loro in inglese diventino molto più nervosi.  Sarà, ma non importa, qualunque sia stata la ragione, sono contento d'essermi portato a casa abbastanza gioia.
Perché la bellezza é ciò di cui sento il bisogno ogni giorno, quella che percepisco sempre presente in ciò per cui la vita vale la pena d'essere vissuta.
Quando venne a Milano a celebrare il funerale di Luigi Giussani, l'allora cardinal Ratzinger disse che il don Giuss "era cresciuto in una casa povera di pane, ma ricca di musica, e così dall'inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza e non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita, e così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza, la strada della vita, la vera gioia".
Ecco allora cosa incontrare ogni giorno, anche qui a casa. 
Perché accada che la bellezza non mi abbandoni mai.

Wednesday, September 16, 2009

CAHIERS DE FRANCE (4) - PARIS


L'ile de la Cité é un vascello, la cui prua infrange dolcemente i flutti della Senna.
Mentre i miei figli giocano sereni nei giardini lungo il fianco della cattedrale, io non riesco a smettere di ammirare Nostra Signora di Parigi. Incastonata come l'albero maestro della nave, questo gioiello di pietra ha resistito agli scempi del tempo e degli uomini, sinché qualcuno ha ricominciato a preservarla. C'é poco tempo, più tardi, per visitarla nel dettaglio, oggi c'é il vescovo della città ed é giusto che la cattedrale sia tutta per lui e per il popolo. E, d'altra parte, é per questo che é nata; perché la meraviglia dell'arco a sesto acuto fosse segno di una presenza visibile. E luogo dove dare testimonianza della bellezza di un avvenimento: quello del Verbo incarnato, sempre presente in mezzo a coloro che sono uniti nel Suo nome.
Forse il mistero che mi lega eternamente a questa città é nel cuore di questa cattedrale. E' per questo che continuo a guardarla, a girarle intorno, a scattare mille foto ai suoi portali ed ai gargouilles, fermandomi stupito sempre in modo nuovo, fino a portare a sfinimento una combriccola di moglie e figli che non possono stare all'infinito dentro i miei pensieri. 
Quindi dopo un po' si scappa via, per correre fin lassù in cima, le altezze della Torre Eiffel, dove inseguire il sogno di vivere una città à vol d'oiseau, un luogo alto dove magari assistere a quel "risveglio di campane", descritto così bene da quel Victor Hugo, che come nessun altro amò questa città immensamente: "(...) ascoltate questa piena orchestra di campanili, spandete su tutto il mormorio di mezzo milione di uomini, il lamento eterno del fiume, l'infinito spirare del vento, il quartetto grave e lontano delle quattro foreste schierate sulle colline all'orizzonte, come immensi mantici d'organo, smorzate in questo come in una tinta neutra tutto ciò che lo scampanio della città avrebbe di troppo roco o di troppo acuto, e ditemi se conoscete al mondo qualcosa che sia più ricco, più gioioso, più dorato, più splendente di questo tumulto di campane e campanelle; di questa fornace di musica; di queste diecimila voci di bronzo che cantano insieme dentro flauti di pietra alti trecento piedi; di questa città che é tutta un'orchestra; di questa sinfonia che tuona come l'uragano"  (Notre-Dame De Paris)



Se Parigi val bene una messa, la Sainte Chapelle val bene una coda, neppure, tutto sommato, troppo lunga, anche perché Andrea, il più piccolo, trova il modo per giocare anche lì.
Quando hai visto le vetrate del luogo voluto da San Luigi per custodirvi le reliquie della passione di Cristo, non riesci più a guardarne altre in nessun altro posto.  E' così che si rimane a lungo sospesi, sguardi prolungati per immagazzinare nella memoria immagini che nessun servizio fotografico riuscirà mai a registrare in modo fedele e permanente.  Non c'é nulla che possa riprodurre la luce del sole, magari quella del tramonto, mentre, passando attraverso pitture di vetro dai mille colori, arriva dritta dentro la tua mente ed il cuore delle tue emozioni.  Fremiti e sussulti, fuoriusciti dai rosoni del transetto della cattedrale di Notre-Dame, giunti magicamente fino a qui ed ora rimbalzanti senza sosta da una vetrata all'altra.
Sopravvissuta alle ingiurie del tempo e delle guerre degli uomini, la Sainte Chapelle é un altro gioiello custodito sulla plancia del vascello della Cité.



Prima di cominciare a dipingere il quadro, hanno sistemato tutti la cornice.
I pittori di Montmartre, disposti ordinatamente l'uno accanto all'altro, lungo il profilo quadrato della piazzetta, riescono a coprire la vista dall'orribile serraglio di tavoli di ristorante disposto tutto al centro. E così, nonostante gruppi di turisti spietatamente posti in posa per decine di scatti fotografici di terribile fattura, questo luogo riesce a non perdere il suo fascino.
Dopo un picnic improvvisato, consumato tranquillo in una viuzza laterale, passeggiamo senza fretta, grandi e piccini, lontani finalmente dal traffico e dallo smog, mentre, da lontano, il suono di una fisarmonica accompagna mille pensieri, liberi di correre finalmente senza freni.

Tre o quattro giorni, in una città così, son troppo pochi.
Ce ne vorrebbero dieci, cento, più di tutti quelli che vi ho già passato. Per questo Parigi non mi stanca mai, é un luogo dove non smetterei mai di tornare. Come Roma del resto. O come Assisi. Per mille motivi, simili e differenti allo stesso tempo. Ma anche per l'unico motivo che il cuore, in questi luoghi, non smette mai di battere impazzito.
Ma "una città non basta", scrisse una volta Chiara Lubich, in una sua splendida meditazione.
Non basta perché il cuore dell'uomo desidera qualcosa di ancora più grande delle bellezze di una città. Ed é a questo desiderio che, giunto a casa, decido di puntare; perché la nostalgia non prenda il posto della realtà; perché la bellezza sia contenuta nell'istante, il Mistero dentro l'attimo presente che ti capita innanzi nella vita. 
Attimo da vivere, tutto intero.

"(...) Ma con un Dio che ti visita ogni mattina, se vuoi, una città é troppo poco.
Egli é colui che ha fatto le stelle, che guida i destini dei secoli.
Accordati con Lui e mira più lontano: alla tua patria, al mondo.
Ed ogni tuo respiro sia per questo, per questo ogni tuo gesto; per questo il tuo riposo e il tuo cammino.
Arrivato là, vedrai ciò che più vale e troverai ricompensa al tuo amore.
Fà in modo di non doverti pentire in quell'ora d'aver amato troppo poco"

(Chiara Lubich, Una Città Non Basta)