Monday, December 24, 2012

VIGILIA

Quella notte, l'antivigilia di Natale, si soffermò a pensare alla bambagia in cui era solito immergersi, soprattutto quando fuori c'era freddo e dentro il gioco si faceva duro. Non serviva mai a nulla, tutto quel bagaglio d'idoli e false sicurezze che sapeva creare così bene nella propria mente. Soprattutto lo rendeva impotente, di fronte alla rabbia che lo assaliva alla prima cosa storta che gli capitava durante la giornata. Ma ora che la notte si era impossessata della terra, aveva più tempo per provare a scostarla un po' da sé. Affrontare la realtà con sguardo sincero.

Si avvicinò alla macchinetta del caffé: erano le tre del mattino, il suo orario preferito. Pensò a tutti quei volti, poco distanti da lì, ognuno disteso nel suo letto d'ospedale. L'uomo dallo sguardo triste, alle prese col tamponamento del suo cuore, sospeso tra la vita e la morte. L'edema polmonare, risolto, che ora respirava tranquillo e guardava un soffitto che pareva tappezzato di stelle del cielo. L'uomo giovane con l'infarto, tremante di freddo e di paura, tornato dalla sala d'emodinamica con una coronaria aperta ed il sorriso riconsegnato al suo viso. Pensò alla giovane donna, una vita di dispiaceri affogata nell'alcool ed un delirium tremens più devastante della sua cardiopatia. E all'uomo depresso, che voleva farla finita in Pronto Soccorso, ma poi, alla fine, lo aveva ringraziato per essere stato lì. Quella notte, la notte dell'antivigilia, aveva provato a bussare alle porte di tutto quel dolore, ma le chiavi d'accesso erano indecifrabili e nascoste.

Poi, il giorno della vigilia, tutto gli apparve come trasfigurato. Se ne andò per la sua strada, le mani ancora sporche di sangue, ma pezzi di strada condivisi. Portò con sé quei volti, compagni di viaggio con imbarchi e rotte diverse, ma un unico approdo per lo stesso destino. Di lì a poco una Madre li avrebbe raccolti per deporli nella mangiatoia del Suo unico Figlio. Perché potessero diventare tutti assieme figli suoi. Quella Madre li avrebbe sempre protetti, come aveva sempre protetto anche il suo cammino e il suo sorriso. Era Natale, dal suo cuore uscivano lacrime di sudore ed era felice. Infilò le chiavi nella serratura, entrò in casa, appese il cappotto e si sedette al tavolo, con la penna e i suoi poveri pezzi di carta in mano. Ed iniziò a scrivere la storia successiva.


 

Thursday, October 18, 2012

BOB DYLAN, LA DOMANDA. E LA STRADA.

"Basta poca fede per fare tanta strada", racconta Bob Dylan al suo interlocutore di turno su Rolling Stone. "E' la cosa migliore che si possa avere. Quando si ha poco altro, basta quella. Ma ci vuole tempo per acquisirla. Bisogna continuare a cercarla". 
C'è tanta roba nell'ultima intervista di Dylan, molto più di quanto ci si aspetterebbe da uno che ha sempre rifuggito ogni tentativo di scandagliare il suo animo ed il significato profondo del suo lavoro. "Sto cercando di spiegare qualcosa che non si può spiegare", dice. E aggiunge: "devi darmi una mano".
Ho smesso di ascoltare Tempest già da un bel po'. Non c'è un motivo preciso per cui l'ho fatto. Ma é come se stessi aspettando qualcosa. Troppe onde, troppa bufera intorno a me. E allora ho atteso. Che fossero le canzoni ad inseguirmi e scovarmi. Finché arrivassero ad essere in grado di raccontarmi qualcosa. Non so se ora é tempo di bonaccia e non so neppure cosa mi riserverà il mare domattina, ma forse quel momento adesso é giunto e allora sono pronto a riprendere il dischetto per metterlo nuovamente nel lettore cd. Dicono che si tratti di canzoni che narrano di morte e di dolore, di grazia e nostalgia, ma tutte le canzoni folk l'hanno sempre fatto. Lo dice a chiare lettere, Dylan, respingendo al mittente tutte le misere accuse di plagio che gli hanno sempre rivolto contro. Si chiama ricchezza, invece, tutto quello che ti porti dentro e che ti viene sempre dietro. "C'è della verità in tutti i libri - aggiunge - e non si può vivere senza leggere dei libri". 

Chissà se é appagante, a settant'anni suonati, la vita di Dylan. Ho sempre pensato che la questione del Neverending Tour fosse una faccenda esistenziale, ma probabilmente mi sono sempre sbagliato: "il solo suonare dal vivo non potrà mai farti felice", dice lui. E allora perché continuare a farlo, sera dopo sera, dall'Europa al Pacifico, notti passate su un autobus tra una città e l'altra dopo ogni show? "Nessun tipo di vita é appagante se la tua vita non é redenta": questo é il punto. Nient'altro. E neppure fare nuovi dischi, per esempio. "Credi che Tempest sia un album epocale?" Ingenua, per essere la prima domanda di un'intervista. "E' come tutti gli altri, le canzoni son venute da sole", risponde lui. Anzi no, é anche peggio. Non é il disco che volevo fare, aggiunge. Ne avevo in mente un altro, uno religioso. Forse é per questo che poi insiste in modo così ossessivo sulla questione della trasfigurazione. E quando l'intervistatore ci torna su, lui risponde: "So solo quello che ti ho detto. Devi indagare per conto tuo per capire di cosa si tratta".

"Io accetto il caos. Non sono sicuro che il caos accetti me", aveva detto Bobby Zimmermann tanto tempo fa, quello che non esiste più e che ha cessato di vivere dopo l'incidente motociclistico del '66. Il Bob Dylan di oggi vede nella trasfigurazione una possibile via d'uscita da quel caos. "E' così che riesco ancora a fare quel che faccio e scrivere le canzoni che canto ed andare avanti".
Forse trasfigurare se stessi vuol dire provare a camminare sulla propria strada tenendo sempre stretta in cuore una domanda di significato. Per sperimentare su di sé che é possibile vedere la propria vita cambiare a poco a poco, nonostante i continui inciampi e le incessanti cadute.  "Tutti abbiamo una chiamata" - dice Dylan in un passaggio chiave della sua intervista - "devi dare il meglio, qualsiasi cosa tu debba fare". La chiamata è sempre quella del cuore, che é fatto per l'infinito. Ed il meglio di noi stessi, dato giorno dopo giorno, é il battito di quel cuore lungo la strada. La domanda é una domanda di Grazia. E la strada é una via di rischio ed imprevisto. "Quando rischi la tua vita per qualcuno, quello é amore, quando qualcuno morirà per te, quello é amore", é l'ultima frase di Dylan. Vale la pena di vivere, per meno di questo?

PS
Ringrazio Giuseppe Gazerro per la traduzione italiana dell'intervista di Mikal Gilmore a Bob Dylan, pubblicata su Rolling Stone, ed il cui testo integrale si trova a questo link: http://www.maggiesfarm.eu/rsintervistabobdylan.htm

Wednesday, October 10, 2012

NON ODIERO'

Quando un incontro ti scalda il cuore, il tepore puoi continuare a sentirlo anche lungo gli inevitabili giorni di pioggia di un autunno che tarda ad arrivare. Il racconto di chi mi é sempre compagna di strada. Ed un libro. Da tenere ancora sul comodino.


Non odierò
di Daniela Leali

Meeting dell’amicizia tra i popoli: arriviamo giovedì pomeriggio e ci precipitiamo nella sala A3, convinti di partecipare alla  testimonianza di una neonatologa di cui abbiamo sentito parlare. Variazione di programma: al suo posto ci sarà un medico palestinese. Io e mio marito ci guardiamo e decidiamo di fermarci: più volte abbiamo sperimentato che il Mistero ci mostra il Suo amore proprio attraverso un imprevisto.
Dopo una presentazione rapida, ma carica di commozione, il dott. Izzeldin Abuelaish inizia a raccontare la storia della sua vita. Nasce a Jabalia, il più grande campo profughi della Striscia di Gaza, nel 1955. Maggiore di sei fratelli e tre sorelle, fin da piccolo capisce che l’istruzione è un privilegio, qualcosa di sacro che potrebbe  dare accesso a molte possibilità. Così, grazie a un duro lavoro, continui sforzi e grandissimi sacrifici da parte di tutta la famiglia, riesce a diventare medico. Nel 1997 comincia un internato in ostetricia e ginecologia all’ospedale Soroka di Israele: sarà il primo medico palestinese nello staff di un ospedale israeliano. Nascono rapporti con gli ebrei: si rende conto  che il cuore è lo stesso. Dice: “E’ sorprendente rendersi conto di quanto siano simili i nostri due popoli, nel modo in cui alleviamo i nostri figli, nell’importanza che attribuiamo alla famiglia…le nostre lingue e le nostre religioni sono semitiche. Abbiamo più somiglianze che differenze, eppure per sessant’anni non siamo stati capaci di superare la linea che ci divide. Come possiamo considerare più preziosa una vita di un’altra? Guardate i neonati nelle sale parto:sono bambini innocenti …e noi li riempiamo di racconti che promuovono l’odio e la paura. Ogni vita umana è preziosa, ed è facile distruggerla con i proiettili o con le bombe. L’odio consuma l’anima: è come un veleno”. Decide di dedicare la sua vita ad abbattere i muri e a costruire ponti di pace, iniziando dalla condivisione di questo ideale con la moglie ed i suoi otto figli. Purtroppo i leaders dei due popoli non la pensano allo stesso modo. Dicembre 2008: Hamas lancia razzi su Israele, l’esercito israeliano risponde demolendo le case dei palestinesi, uccidendo uomini, donne e bambini ed ogni essere vivente che vi si trova davanti. Il 16 gennaio tocca a loro. Racconta: “Eravamo tutti in casa, io stavo giocando con Abdullah, quando ho sentito l’esplosione nella stanza delle ragazze. Spero che nessun altro debba mai vedere la scena che si presentò ai miei occhi: hanno ucciso le mie tre figlie e mia nipote. Ma nonostante il dolore, la rabbia e lo sconcerto, so che non odierò”.
Ho le lacrime agli occhi: ma come è possibile? Guardo il suo volto: è una maschera di dolore, ma i suoi occhi esprimono una serenità per me impossibile. Appare sullo schermo la copertina del libro con la foto di tre ragazze sedute sulla spiaggia in riva al mare: sono Bessan, la più grande, Mayar “chiaro di luna”, e la piccola Aya. Voglio leggerlo subito, desidero conoscere meglio questa vicenda. Come ho potuto rimanerne indifferente per tanti anni, scadendo nei luoghi comuni?
Rientrata a Milano, ripenso a quest’incontro, mi domando perché il mio cuore si commuove così tanto per quell’umanità ferocemente ferita, ma così lontana dal mio mondo, dal mio modo borghese di vivere e di pensare. Scendo in strada e vedo un uomo che lavora ad un Kebap: si accorge del mio sguardo, mi sorride e mi saluta. Sono imbarazzata, non ho mai mai fissato così un arabo: non ho mai considerato la possibilità di rapporto con un musulmano al di fuori del luogo di lavoro, sto cominciando a sorprendermi nel constatare che abbiamo più cose che ci accomunano rispetto a quelle che ci dividono, nonostante il Potere faccia di tutto per farmi credere l’opposto. Non mi resta che  ringraziare di cuore il Mistero, che ancora una volta mi ha mostrato il Suo volto d’amore, attraverso la grazia di un incontro imprevisto.

 

Wednesday, September 05, 2012

QUELLA FERITA DEI SIGUR ROS


Nuvole basse, l’umido grigio di un autunno arrivato troppo presto. Le mura imponenti del Castello Scaligero circondano zolle di terreno instabile e fangoso, insidioso come quello di una baia tormentata ogni giorno da incessanti maree. Sembra un angolo di terre del nord, questa sera, Villafranca di Verona, e l’Islanda non appare poi così distante, nonostante il suo linguaggio astruso. Sigur Ros, chi sono costoro? Un gruppo post-rock, capace di attirare l’attenzione degli addetti ai lavori o dei pochi e soliti affezionati fans? No, non è solo per pochi il concerto di oggi, ed il colpo d’occhio sulla gente accorsa sino a qui è impressionante, a testimonianza della fama di un gruppo che é cresciuta poco a poco anche in Italia.(.....)




Wednesday, August 29, 2012

WAITING FOR A WHISTLE

Uno sguardo ironico e beffardo, a tratti chaplinesco. Quello con cui ti guarda sempre. Dal palco come durante le rare interviste che concede. Occhi che sembrano guardare sempre un po' più in là, oltre le persone, oltre gli avvenimenti che gli stanno intorno. E' buffo ed impenetrabile lo sguardo di Dylan, a passeggio di notte per le strade della città accompagnato da una gang. Dylan nel nuovo video di Duquesne Whistle, che scavalca con nonchalance il protagonista del filmato, un uomo abbandonato per strada dopo un regolamento di conti. Una vicenda quasi comica e grottesca, se non fosse, invece, così maledettamente somigliante a tante storia d'ordinaria e folle realtà.

Tempest, il nuovo disco di Dylan, non é ancora uscito - che bella data, l'undici settembre, per riaffacciarsi - e siamo tutti lì ad interrogarci di nuovo su quello che quest'uomo anziano che ha fatto la storia del rock - e di qualche pezzetto della nostra esistenza - abbia ancora da dirci dopo più di cinquant'anni. Non é necessario, forse, perché il protagonista di Masked & Anonymous ha già spiegato una volta per tutte quale debba essere la chiave di lettura delle sue cose: "Sono sempre stato un cantante e probabilmente niente di più". Esercizio inutile, quindi, scervellarsi ogni volta per vedere significati oscuri e reconditi dietro ad ogni mossa di chi ha deciso da un pezzo di rischiare la propria vita dando se stesso su un palco o su dischi nuovi, nei quali non si prende neppure cura di farsi aiutare da buoni produttori.  Jack Frost in realtà ci ripete anche oggi, come Jack Fate, che "le cose stanno cadendo a pezzi, specialmente il buon ordine di regole e leggi. Sali su una vetta più alta e vedrai saccheggi ed omicidi. La verità e la bellezza sono negli occhi dell'Onnipotente ed io ho smesso di cercare di capire cosa succede molto tempo fa". 
Il rischio, semplicemente, é di essere come la giovane Liza dei Fratelli Karamazov, che s'immagina di mangiare una composta di ananas davanti alla morte violenta di un bambino. Ciascuno di noi é capace di scavalcare la violenza per strada con quello stesso sguardo ironico e chaplinesco di Dylan nel suo video. Non fosse però che quel fischio di Dusquesne porta con sé il sussurro di un Amore più grande di tutte le miserie dell'uomo. L'amore di una madre, da riscoprire magari anche dentro una manciata di canzoni pronta a tenere in caldo l'autunno che verrà.

I can hear a sweet voice gently calling
Must be the mother of our Lord
Listen to that Duquesne whistle blowin'
Blowin’ like my woman’s on board

Sento una dolce voce chiamare delicatamente
Deve essere la madre di nostro Signore
Ascoltate quel fischio di Duquesne che soffia
Sta soffiando come se la mia donna fosse a bordo

Il video di Duquesne Whistle (tratto da questo link)

 

Tuesday, August 28, 2012

IL CUORE DI GIANNI


E' agitato e fatica a stare fermo sul lettino. Il battito accelera, a tratti in modo vorticoso, a fare compagnia alla sua voce. Poche parole, solo un "brum, brum" che mima il rombo di un motore. "Stai tranquillo", gli dico, mentre sua madre mi racconta che la Ferrari é sempre stata la sua grande passione. "Guardo solo il tuo cuore. Ci metto poco e non ti faccio male". 
Gianni ha più di quarant'anni ed i farmaci per controllare la sua psicosi sono più numerosi di quelli che servono a tenere a bada la pressione. Un'ecografia inutile, chiesta inutilmente dal suo medico di base. Un'ecografia che non gli cambierà la vita né le cure. Ma un'ecografia che oggi può cambiare la mia giornata.
Mi avvicino piano, il tono calmo e sottovoce. "Mettigli su la sonda due secondi - mi ero sentito dire da qualcuno - e poi eventualmente scrivi che l'esame non é fattibile per la scarsa collaborazione del paziente". E invece Gianni collabora eccome. Il suo cuore rallenta e la sua mente si tranquillizza sempre più, circondati entrambi dall'amore dei genitori e dalla gentilezza della mia infermiera. Non ci metto due secondi, né due minuti, ma di più, molto di più, anche se il cuore di Gianni, per fortuna, non ha niente che non funzioni a dovere. Ma il tempo, mano a mano che trascorre, serve ad affezionarmi ad uno sguardo, quello che sento crescere su di me sin dal primo istante. Lo sguardo con cui mi sono avvicinato a lui , così apparentemente umile ed indifeso. E che, a poco a poco, ha cominciato a scaldare il mio, di cuore. Un cuore scontroso e vanitoso, talvolta insensibile ed irato, a cui troppo spesso sfugge la grandezza del dolore che gli passa accanto. Quel cuore, accanto a quello di Gianni, sembra recuperare come d'incanto la pienezza d'ogni istante, il senso di un agire che é vocazione prima che mestiere. E' per quello che quasi non si vuol staccare più. Accanto ad una fiamma che gli ridona speranza ed energia. Educato all'Amore vero.
Alla fine, quando Gianni se ne va, lo saluto col sorriso, anche se lui sembra non accorgersene neppure. "Grazie!" mi dicono la sua mamma e il suo papà. "Grazie a voi", rispondo io. Grazie davvero. Al cuore di un uomo, piccolo ed umile, che oggi ha incrociato il mio ed é diventato il cuore di un Altro. Ce n'era bisogno per tirar sera e superare la notte che verrà. Il cuore di Gianni per dire buongiorno ad un nuovo mattino.

"una frase, una sola giudicherà la nostra condotta, la parola stessa di Gesù: "ciò che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me"
(Jérome Lejeune, 1926-1994, professore di genetica dell'Università di Parigi)



Tuesday, August 14, 2012

IL PARADISO DIETRO UNA STRETTOIA



La strada che, dal mare di Albisola, sale al paesino di Sassello é per lo più stretta e tortuosa. Guido piano e dolcemente, affrontando ogni curva senza bruschi strappi del motore. Anche l'ultimo dei miei figli é ormai grande, ma l'effetto di un'andatura più brillante potrebbe avere effetti devastanti sull'abitacolo della mia vettura. "Sei emozionato?", mi chiede mia moglie. Già, dovrei esserlo, dico a me stesso, io che non sono mai stato a visitare i luoghi di Chiara Luce. Le rispondo di no e mi pare d'essere sincero, ma, sotto sotto, misconosco semplicemente le mie emozioni. Forse é perché ho appreso la vicenda di Chiara così bene che mi sembra d'essere già stato qui. E forse il fatto che la sua storia sia un po' parte della mia, entrambi dietro al carisma che Chiara Lubich ha donato al mondo, rende tutto un po' più familiare. Ma dovrei esserlo, almeno un po', sinceramente emozionato. Mantenere anche oggi lo sguardo di un bambino e sapermi stupire di fronte a ciò che sa di bello e di vero, la santità e l'eccezionalità dentro l'ordinarietà. E probabilmente, emozionato lo sono per davvero.

Oggi é un giorno particolare a Sassello. Ci sono settanta vescovi, amici del Movimento dei Focolari, venuti quassù dai cinque continenti per conoscere meglio la storia di Chiara e per incontrare i suoi genitori. Li vedo entrare in chiesa, Maria Teresa e Ruggero, semplici e sorridenti come sempre. Ruggero cammina lentamente appoggiandosi a due stampelle. Mi colpisce sempre la figura del papà di Chiara, schivo, di poche parole, quasi a fare da sfondo al fulgore smagliante di mamma Maria Teresa. Entrambi sempre belli a vedersi, sorta di Maria e Giuseppe dei giorni nostri. La loro casa sempre aperta, pronti a parlare con chiunque passi da qui, a voltare verso il prossimo quello sguardo così carico d'amore che hanno sempre tra di loro. Mi scopro a pensare che spesso dietro alla storia di un santo straordinario c'é la santità quotidiana di due genitori.
Prima di venire in chiesa passo con la mia famiglia dal cimitero. Sulla tomba di Chiara c'é tempo e modo di lasciar scorrere libera la mente e la preghiera. Chiedo grazie per tanti amici. Non ricordo cosa chiedo per me. Ma mi lascio avvolgere dalla sua luce, dallo sguardo luminoso dei suoi occhi, una bella fotografia appoggiata sul pavimento della cappella di famiglia. Con noi c'é un'anziana suora, maestra d'asilo di tanti anni fa. Racconta ai quattro bambini di una famiglia di Torino dei piccoli atti d'amore di Chiara verso i compagni di scuola materna. Mi commuove la familiarità che nasce spontanea tra gente che non si é mai incontrata prima. Ecco, forse é questo il primo momento della giornata in cui mi scopro davvero emozionato. Come allora, Chiara Luce genera anche oggi la reciprocità dell'amore. Quando gli amici uscivano dalla sua stanzetta dove giaceva ammalata usavano ripetere spesso:"vicino a lei non si sentiva mai, neanche per un attimo, il peso della malattia, del dolore, delle limitazioni. Stando accanto al suo letto ero io ad avere la netta percezione di essere la malata, l'invalida. Sentivo di doverle chiedere una mano, ma poi, in verità, non occorreva chiedere nulla, bastava guardarla per imparare ad amare sempre e a ripetere con lei: "Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch'io. Sei tu, Signore, l'unico mio bene". Rientrando a casa avevo anch'io la certezza di aver vissuto un momento di paradiso". Chiara continua a compiere questo miracolo in chi le si accosta. Creare una fraternità. Luogo di presenza di Gesù, generata dalla reciprocità dell'amore.

La messa é semplice e solenne allo stesso tempo. Il mio sguardo continua ad andare verso l'altare di destra, lungo la navata: non riesco a distogliere lo sguardo da quella fotografia. Ancora quella foto di Chiara, ancora quegli occhi pieni di luce. Anche vescovi e cardinali, oggi, sembrano essere in un certo senso a scuola. Dirà più tardi Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari, anch'essa presente oggi a questa festa: "La sento come una sorella per il carisma dell’unità che ci lega: una sorella minore perché figlia del Movimento dei Focolari che ora presiedo; una sorella maggiore perché, correndo come gli atleti alle Olimpiadi, mi ha preceduta nella santità". 
Al termine della celebrazione c'é tempo per incontrare un po' di amici, venuti da ogni dove. Ad un tratto scorgo Franco, lo vedo da lontano dirigersi verso di me. Un amico argentino, che ha letteralmente illuminato tratti di esistenza della mia incerta gioventù. Non lo incontro da anni, mi si fa incontro, lo stesso sguardo e sorriso di sempre, uno dei più luminosi che abbia mai conosciuto. Lo abbraccio, questa volta mi commuovo e mi emoziono per davvero. E' ancora Chiara a generare tutto questo, lo sento. La reciprocità dell'amore. Valeva la pena di arrivare fino a qui anche solo per quest'abbraccio. Lungo una strada tutta curve. Il paradiso dietro a una strettoia.



Di tutti i libri su Chiara Luce che ho letto, quello di Franz Coriasco - "Dai tetti in giù" - mi é sempre parso il più bello. Coriasco é autore radiotelevisivo, musicale, teatrale; scrittore e critico musicale: sono anni che leggo le sue recensioni di musica rock su Città Nuova e tengo in cuore la speranza di poterlo prima  o poi incontrare di persona. Si definisce agnostico, ma il suo sguardo sulla realtà é quello che, da credente, mi piacerebbe spesso avere, io che mi sento così spesso schiavo dei miei pregiudizi. "Oggi, molto più di vent'anni fa - scrive Franz - Chiara mi dà sollievo, ogni volta che la penso: non illumina, ma riscalda la mia oscurità. E' come se contribuisse a tenere aperto lo spiraglio di una porta, così da non cedere alla tentazione di un'esistenza claustrofobica o meramente autoreferenziale. Soprattutto m'invita quotidianamente a cercare compiutezza e perfezione nelle piccole cose di ogni giorno, anche se ahimé, ci riesco di rado".
Penso a queste parole lungo le strettoie che da Sassello riportano giù verso il mare. La strada verso casa é lastricata di un misto di emozioni - quelle della giornata appena trascorsa - e d'intenzioni, quelle di puntare a rendere Bellezza tutte le piccole cose che attendono d'incrociare il mio cammino. Il rischio è di fermarsi al desiderio, ma in fondo basta saper volere, proprio in quelle piccole cose di ogni giorno: "Bisogna saper morire a colpi di spillo per saper morire di spada", diceva spesso Chiara. E pensare a Chiara serve anche a me a tenere aperto quel piccolo spiraglio, attraverso il muro della mia oscurità e del mio peccato. Ma non esiste muro così spesso che non abbia crepe. Dovrei saperlo, ormai, che é da quelle che passa la luce.

Tuesday, July 17, 2012

FARI, GUARDIANI, ROTTE E DESIDERI

Pare proprio che l'ultimo guardiano rimasto sia lui, un enogourmet itinerante i cui racconti quotidiani appassionano più di un lettore al bar degli armadilli. Apprendo dal suo diario di bordo che ormai anche l'ultimo faro di Francia, tra Gironde e Charente, é andato tristemente verso un destino automatizzato. Già me ne accorsi tempo fa, nel selvaggio Finistère: niente più che solide mura circolari e fredde luci intermittenti, a far da ultimo baluardo alle poche navi che ancora avessero voglia di sfidare il mare tra Ar-Men e la punta di San Matteo. Poche speranze, quindi, di trovare adesso qualche uomo di guardia più a sud, lungo le più tranquille rive che dalla Costa Brava giungono sino alle lagune della Camargue. Tant'é, i motori sono già accesi e comunque di fari, rotte e guardiani ho già scritto altrove e adesso non troverei parole migliori a far da compagnia al mio nuovo viaggio.

Di desideri, però, il mio vecchio cuore non riesce proprio a fare senza, così li metto sempre in valigia per benino al loro posto. Uno su tutti: quello di bellezza, che, a braccetto con la malinconia, accompagna sempre i percorsi, gli arrivi e, immancabilmente, ogni ricordo e ripartenza. Perché non può non esserci, anche la malinconia, se quella bellezza l'hai sfiorata anche solo per un istante. 
La cercherò sotto la cupola della Sagrada, dove qualcun'altro già l'aveva scorta  ("Vorrei essere toccato da tutta questa bellezza"), prima di rendere canzone - Amazing Grace - il proprio bisogno di preghiera. E la rincorrerò, da ovest verso est, fino ad arrivare dove il sole rinasce su tre accordi e un desiderio. Di verità. E di ricerca dell'infinito. Perché il rock'n'roll é soprattutto questo, parola di John Waters e, accidenti, anche parola mia. 

E poi, alla fine del mio viaggio, me ne tornerò a casa, un passo avanti al desiderio. Perché il desiderio, da solo, non basta, non basta davvero a se stesso. Bisogna saper volere. Ed essere onesti. "To be outside the law you must be honest", aveva detto quel tale. Che in autunno, ritorna un'altra volta a cantar canzoni. Che belle notizie. E che bella la strada. Per chi cammina. E per chi va.

Monday, June 11, 2012

UNA PALLINA DA TENNIS. E L'INSOPPRIMIBILE ESIGENZA DEL CUORE

Match point della partita di semifinale. Il tempo non è bello: c’è un sacco di vento che alza la terra rossa del campo da tennis. L’avversaria risponde al servizio, ma la palla ritorna, diritta e precisa, nuovamente dall’altra parte. Tocca terra, urta un’altra pallina, lasciata lì incautamente dopo il punto precedente, e schizza via, imprendibile. Gioco, set, incontro, e la finale, sogno coltivato a lungo durante dure ore d’allenamento, pronto a materializzarsi all’improvviso. Perché le regole sono precise: è responsabilità di ciascun giocatore pulire la propria metà campo dalle palline rimaste a terra. Oppure si potrebbe rigiocare il punto, ma è lo sfidante che lo ha fatto in quel modo che ha facoltà di decidere.

In quei pochi istanti passano nella mente di Chiara mille pensieri. Quel film, visto decine di volte perché piace così tanto al suo fratello più piccolo, dialoghi mandati a memoria, automobili rese vive come persone grazie alla magia dei cartoni animati. Il vecchio DOC, auto da corsa ormai in pensione, che spiega al giovane Saetta McQueen che la Piston Cup non è altro che una coppa vuota e che non serve a nulla se il tuo unico scopo nella vita è sempre e soltanto quello di voler vincere a tutti i costi. E il giovane Saetta, che, memore delle lezioni di quel vecchio amico e maestro, nella gara più importante, dopo l’incidente di King, anziché tagliare il traguardo vittorioso, torna indietro per spingere l’auto avversaria fino al traguardo, arrivando ultimo. “Cosa vuoi fare, Chiara? Vuoi rigiocare il punto o andare in finale?”, grida l’allenatore, non riuscendo a trattenere, nel frattempo, una sonora risata. Momenti ancora più brevi, uno dopo l’altro, mentre il pubblico osserva, perplesso e curioso. Una decisione da prendere subito, senza incertezze. E’ allora che alla ragazza viene in mente anche quel che aveva udito al mattino. Una frase detta durante un incontro con altri amici, coi quali da un po’ di tempo condivide il proprio cammino. Parole sentite anche qualche settimana prima, migliaia di giovani radunati assieme per il triduo pasquale, dietro ad un’esperienza che ti dice che ciò che il cuore desidera esiste ed è un bisogno di felicità e di bellezza scritto da sempre dentro a quel cuore. Dovete essere leali con la realtà, le avevano detto quel mattino. E non dovete ridurre il vostro desiderio.

 “Allora, Chiara?”, grida ancora il maestro. “Allora rigiochiamo!”, risponde la ragazza. L’applauso del pubblico sorge impetuoso e scrosciante, come la ragazza non ne aveva mai sentiti in vita sua. L’avversaria se ne sta andando, ma si ferma e si volta stupita. Si rigioca il punto. Sempre match point della semifinale. Sempre ad un passo dalla vittoria. La ragazza rigioca. E perde. Perde la coppa che aspetta da quattro anni e che l’avversaria aveva già vinto l’anno prima. Ma non è triste, anzi: prova una felicità mai sperimentata prima d’allora. L’applauso del pubblico ora è inarrestabile, l’allenatore corre da lei, l’abbraccia, le fa i complimenti per come ha giocato, le dice che non ha mai visto niente di simile. Lui che gioca a tennis da una vita. Lui come suo padre, anch’egli allenatore, e neppure lui spettatore di qualcosa di simile sui campi di gioco.

Quando torna a casa, alla sera, la gioia del racconto, assaporato a tavola insieme ai fratelli ed ai genitori, ha il sapore del buon cibo ed il calore e la bellezza della fiamma della candela che la sua famiglia usa mettere a tavola ad ogni cena. Il giorno dopo squilla il telefono: dall’altro capo del telefono l’allenatore, che vuol parlare con la ragazza e poi con la madre. Vuole capire. Vuole sapere che cos’è quel qualcosa che ha fatto vibrare il suo cuore in quel modo. La mamma di Chiara prova a spiegare. Gli racconta di quel cammino fatto di piccoli passi di ogni giorno, vissuto in cordata in famiglia e con gli amici, e che fa del percorso della vita una splendida avventura, a sedici anni come a cinquanta. “E’ così grande l’esigenza del nostro cuore che a volte rimaniamo sconcertati – si era sentite dire la ragazza in quei giorni di ritiro – Niente ci dà pace. Niente ci appare all’altezza dei nostri desideri. Che tenerezza verso di sé ci vuole per non disertare il proprio cuore! Ma chi non demorde, prima o poi, capirà perché ne valeva la pena: per scoprire il fascino di Cristo”. Quel pomeriggio di un giorno ventoso, Chiara, correndo dietro ad una pallina da tennis, non aveva disertato il desiderio del suo cuore. E quel desiderio era diventato esperienza di stupore ai suoi occhi ed a quelli di molti altri. Anche quelli del suo giovane allenatore di tennis, il cui vecchio cuore aveva vibrato in quel modo così forte ed inatteso.

Sunday, June 03, 2012

HOUSE OF THE RISING SUN



Sullo striscione della classe di liceo di mia figlia, esposto in piazza Duomo venerdì per l’arrivo del Papa, c’è il verso di una canzone da sempre amata: “Cammina l’uomo quando sa bene dove andare”. Dove sto andando – mi chiedo anche oggi, cinque e mezza, fermo alla stazione del filobus – circondato dalla mia famiglia e da tutti gli amici di San Protaso? C’è la messa all’aeroporto di Bresso, momento conclusivo dell’Incontro Mondiale delle famiglie, ma non è la grandezza dell’evento che  scalda il freddo cuore del mattino. Lo è piuttosto l’ultimo pensiero su cui mi sono addormentato poche ore prima, il testamento di colei che da molti anni guida costantemente il mio cammino. Uno solo è il Maestro ma le parole di Chiara Lubich hanno raddrizzato spesso i miei sentieri: “Se oggi dovessi lasciare questa terra – aveva scritto – e mi si chiedesse una parola, come ultima che dice il nostro Ideale, vi direi, sicura d’esser capita nel senso più esatto, siate una famiglia”. Ecco dove sto andando stamani, dietro a quel desiderio scritto da sempre nel mio cuore. Lo spirito di famiglia, da portare ovunque, con i figli e gli amici come sul luogo di lavoro. “Non anteponete mai qualsiasi attività di ogni genere – aveva scritto Chiara quel giorno – né spirituale, né apostolica, allo spirito di famiglia con quei fratelli coi quali vivete”.
Eppure l’esperienza del mio limite sembra essere sempre lì, pronta a fare capolino quando meno te l’aspetti, scoraggiare tutte le buone intenzioni di cui è sempre lastricata l’anima mia. Come i discepoli di Galilea, brano del Vangelo di oggi, anch’io, quando Lo vedo, continuo a prostrarmi, eppure dubito. Nella mia infedeltà ed incoerenza d’ogni giorno. La risposta sembra stare nel bastone sul quale Benedetto XVI si appoggia quando scende dall’auto per salire sull’altare, dopo il bagno di folla in mezzo a questo milione di amici che occupa stamani la spianata del Parco Nord. Un bastone a forma di croce, l’amore di un Dio che si è fatto Abbandono e che ha vinto ogni infedeltà ed ogni mio peccato. Il resto è solo una festa. Festa delle famiglie, festa degli amici che ho intorno. Festa del mio cuore. Contemplo il mistero della Vita della Trinità ed intravedo la possibilità, come c’invita il Santo Padre nella Sua omelia,  di “vivere la comunione con Dio e tra noi sul modello di quella trinitaria”, chiamato a “vivere l’amore reciproco e verso tutti, condividendo gioie e sofferenze”, tassello di un mosaico anch’io, capace, col mio contributo di edificare comunità ecclesiali che siano sempre più famiglia, capaci di riflettere la bellezza della Trinità e di evangelizzare non solo con la parola, ma per «irradiazione», con la forza dell’amore vissuto.
Quando esco con la mia famiglia dal Parco Nord, al termine della celebrazione, incontro gli amici più inattesi. In mezzo ad un milione di persone, sono tra gli sguardi e gli abbracci più intensi. Non ho più paura adesso. “Io sono con voi – dice Gesù agli undici di Galilea – tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ed anche il mio passo ora è sicuro. Cammina l’uomo, quando sa bene dove andare.


Tuesday, May 29, 2012

PER AMORE

Ha fatto la cosa più rock'n'roll di tutte. Andare dietro al desidero ed all'attesa che aveva nel cuore. Non vada, signor parroco, non entri in chiesa, che qua tra un po' viene giù tutto. E lui niente, non ascolta nessuno, entra dritto e deciso: c'è la piccola statua della Madonna da salvare. 
Il Signore se l'é preso quand'era pronto: al culmine di un atto d'amore. A noi, ora, colmare col nostro, di amore, ciò che resta da fare. Basterebbe riempire di esso anche solo l'attimo presente del nostro povero e misero agire quotidiano, lì dove Dio ci ha messo giorno su giorno. A Maria non smettere di fare ciò che ha sempre fatto, sin da quando Giovanni l'ha presa con sé dopo la morte del Suo Figlio in croce. 
Aiutare i figli che così tanto Ella ama.

Wednesday, May 23, 2012

BECAUSE THE NIGHT


"Something is happening here and you don't know whati it is. Do you, mr. Jones?"

Mi sono svegliato al tremare del letto. Nel silenzio dell'oscurità ho udito vibrare le mura della stanza. Non ci siamo detti nulla in quegli istanti, solo ci siamo stretti forte la mano. Fuori di noi la paura, dentro le mani il nostro amore. Senza parole, di notte, solo il nostro amore.
A chi appartiene la notte?

Percorrere la città quando tutto é oscuro. Incrociare volti così diversi da quelli che sfilano via senza ragione durante il giorno. Ogni frenesia é scomparsa all'orizzonte insieme al sole e con essa l'illusione che solo ciò che é veloce abbia ancora un senso. Attimi uno dopo l'altro, fatti di un nervosismo presuntuoso, villano ed ignorante. Eppure non sono altre facce, quelle della notte, ma gli stessi, identici, visi di ogni giorno. Lineamenti di volti divenuti finalmente anima e pensiero, liberi di camminare davanti ad una strada libera. Tratti di un pennello che dipinge espressioni nuove.
Milano di notte é povertà e criminalità percepibile e vistosa, ma anche, soprattutto, gente comune che smette di correre e di urlare. Un gigante d'argilla che, dopo il tramonto, cade a terra, sgretolato dalle mille crepe che l'hanno attraversato durante il giorno. E che, curvato finalmente lo sguardo su di sé, scorge quello spazio largo e disteso che non trovava prima.

C'é bisogno di percorrerla al buio, la città. Quando le auto sono chiuse dentro ai garages o ferme a ridosso dei marciapiedi vuoti. E di guardare. Non smetterei mai di farlo. Attraversarla da un capo all'altro e fermarmi ad osservare. Un viso triste, chino sulla fermata di un autobus che non arriva mai e che quando giunge non ha più un posto dove poterti portare. Un volto che avanza, inesorabilmente lento, pedalando su una bicicletta sgangherata. Una coppia che si bacia, una scritta sul muro, o un ubriaco fermo, appoggiato ad un lampione. Ogni faccia col suo dramma dentro, o con la gioia d'un istante durato troppo poco. Per tutti lo stesso, insopprimibile, desiderio di felicità. Milano di notte é la Milano esistenziale, quella più facile da amare. Se ci fossero finestre senza tende, in questa brutta e insopportabile città, potresti leggere le stesse storie anche negli occhi sepolti dentro appartamenti troppo piccoli per contenere le vicende di un'esistenza intera.

Se c'é qualcosa che sta accadendo ora, la notte é il momento in cui quel qualcosa si fa tenero e struggente. Ed é ora che non voglio lasciarmelo sfuggire. Perché sappia riconoscerlo anche domattina, quando tutto sarà più insopportabile ed irato. Il grido di un'umanità ferita, ma desiderosa di qualcosa di grande, perché plasmata a modello della Bellezza. Il grido di un Dio, che - crocifisso perché pazzo d'amore - s'é fatto addirittura abbandono. Pupilla attraverso la quale Egli vede il suo popolo. E pupilla nostra attraverso la quale noi siamo in grado di vedere finalmente Dio.
C'è una crepa in ogni cosa, ma la terra di sogni e di speranze ora si svela.
E' così che di solito passa la luce.


Monday, May 07, 2012

UNA BRICOLA A FURMA DE CRUUS

Che cos'è il tempo, Davide? Ho chiuso gli occhi come hai detto tu, almeno per un po', lungo la carrellata di ricordi che hai messo proprio all'inizio del tuo spettacolo. Li ho chiusi e in un istante la magica alchimia che sai creare con le parole mi ha preso con sé e trascinato via lontano. Slogans pubblicitari, flashes del tempo che fu, prima di uno spettacolo di canzoni. Poi, quando li ho riaperti, mi sono pure vergognato un po'. Ho evitato di guardare se chi era seduto di fianco a me aveva seguito il tuo consiglio, se li aveva chiusi per davvero o riaperti all'improvviso, prima del tempo. "Quelli che hanno chiuso gli occhi hanno la mia età" - hai detto - interrompendo di colpo l'inarrestabile fluire del tuo parlare, ed io non mi sono sentito vecchio, in quel momento, proprio per niente. Semplicemente ricco di tutto quel che avevo vissuto sino a qui.

Una magica alchimia la tua, come sempre, esaltata dalla dimensione intima e raccolta del teatro Smeraldo di Milano. E che peccato che, proprio questo luogo che ci ha visto ballare e sognare, ridere e scherzare, piangere e crescere tante volte insieme, tra poco non ci sarà più. Un teatro che chiude,  un colpo di spugna su mile frammenti, fatti di musica e di parole, pezzi di vita che si danno la mano, chi sul palco a raccontarli, chi laggiù in fondo, l'ultima fila della balconata, a sentirli come se fossero i suoi.
Che con te, Davide, ogni volta é così, quando metti in scena quel fiume di poesia di cui sei capace. Scherzi, ridi, ci prendi in giro, ci fai cantare e ballare e poi sterzi all'improvviso, ci trascini giù nel profondo, là dove é nostalgia di bellezza e magia, di vita dura e voglia di mistero, di desiderio di afferrare il senso delle cose.
Come la dura pioggia che cade ogni giorno, per esempio, e che questa sera é un meraviglioso medley con A Hard Rain's A-Gonna Fall di Dylan e la splendida New Orleans, una delle poche canzoni che non riesco mai a smettere di ascoltare. E' così facile sentire quella pioggia come vera, vera come quella degli affanni di ogni giorno. Sentirla inzuppare l'anima prima ancora che il vestito, appesantirne il corpo al punto che in certi momenti sembra quasi non che riesca più a tirarsi su. O come la scia costruita lungo una vita di sacrifici, orgoglio e dignità della propria famiglia e del proprio lavoro, eredità da lasciare a un figlio, che sarà - come te - Costruttore di motoscafi a modo suo. Un altro pezzo di storia, unico ed insostituibile come lo é la tessera di un mosaico, perché il disegno, tutto intero, abbia un senso, segno di una storia che la "breva" proverà "a scancélà", ma che "la porterà mai via".
Le canti tutte, Davide, le tue canzoni. Le canti tutte, questa sera. E sarà pur vero che questa mini serie di quattro date é, in fondo, il "best of Davide Van De Sfroos" tour, da ricomprarsi in doppio cd anche se quelle canzoni le abbiamo già tutte vissute ed ascoltate. Ma é anche vero che risentirsele di nuovo, stanotte, fa bene a te e pure a noi. Perchè non si smetta, per noia o per stanchezza, di continuare a guardare a tutto ciò che dà senso all'esistenza, a ciò che sa di bello e di vero, che non toglie il gusto della vita sia dentro la gioia che nel dolore. Sono raggi di sole nella pioggia, le tue storie e le tue canzoni, che la trafiggono incessantemente e fanno brillare quella scia d'asfalto lungo la quale corrono i nostri pensieri e tutta la strada - tanta - che abbiamo ancora da fare.

Ho un solo rammarico, caro Davide. Almeno a Milano, 40 Pass la potevi pure cantare. 
Perché se é vero che quei corsari della Bovisa non sono frutto della tua immaginazione, ma gente che hai incontrato veramente, é altrettanto vero che "trii come luur" - ce lo hai insegnato tu - siamo anche noi. E che quella Madunina, "la sarà anca piscinina", ma "la riess amò a brilà" e "anca a scultà".
Forse é tutto qui il Grande Mistero e non c'é più bisogno di continuare a chiedersi, con Lucio Dalla, cosa sarà che fa crescere gli alberi o morire a vent'anni anche se vivi fino a cento... In questa vita che vìvum e sògnum de sfroos, c'è da fare solo una cosa: pregare il Signore a bassa vuus.
Ognuno con la sua bricòla. Una bricòla a furma de cruus.

Saturday, April 14, 2012

YOUNGER THAN THAT NOW

Compiere gli anni fa pensare a molte cose. Se poi sono cinquanta, come mi é capitato da poco, i pensieri sono ancor di più.
A me, tra le mille gioie ed i dolori, viene in mente solo una parola: gratitudine per tutto ciò che ha incrociato la mia strada. 

Poi oggi, senza una ragione precisa, sono andato a riprendermi un post scritto qualche tempo fa. E' uno dei più letti di questo blog, e mi sono accorto che calza a pennello con quest'anniversario. 
E che continua a fare rima col mio cuore.

Friday, April 06, 2012

A SCUOLA D'AMORE SOTTO LA CROCE

Gesù, nell'ora in cui facciamo memoria della tua morte, vogliamo fissare il nostro sguardo d'amore sulle sofferenze indicibili da Te vissute.
Sofferenze tutte raccolte nel misterioso grido lanciato sulla croce prima di spirare: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?"
Gesù, sembri un Dio tramontato all'orizzonte: il Figlio senza Padre, il Padre privo del Figlio.
Quel tuo grido umano-divino, che ha squarciato l'aria sul Golgota, ci interroga e stupisce ancor oggi, ci mostra che qualcosa di inaudito é accaduto.
Qualcosa di salvifico: dalla morte é scaturita la vita, dalle tenebre la luce, dalla separazione estrema l'unità.
La sete di conformarci a te ci porta a riconoscerti abbandonato, ovunque e comunque: nei dolori personali e in quelli collettivi, nelle miserie della tua Chiesa e nelle notti dell'umanità, per innestare, ovunque e comunque, la tua vita, propagare la tua luce, generare la tua unità.
Oggi come allora, senza il tuo abbandono, non ci sarebbe Pasqua.

(Anna Maria e Danilo Zanzucchi - tratto dalle meditazioni per la Via Crucis al Colosseo, 6 aprile 2012)

Saturday, March 10, 2012

OUR LOVE IS ALL WE HAVE

L'hanno fatto di nuovo. Mettere a ferro e fuoco un'arena a colpi di mitragliatrici Fender o Rickenbacker. Come fanno da anni, peraltro, quei folletti di nome Wilco, che imperversano, indisturbati, nelle praterie del rock'n'roll. Questa volta si chiama Alcatraz, la prigione dalla quale stanno cercando di uscire, ma non c'é verso, nessuno uscirà vivo da qui, miei cari, perché il pubblico italiano - é l'introverso Jeff Tweedy che lo dice, non Bruce Springsteen il piacione - é il migliore del mondo. E noi lo sappiamo bene, noi che abbiamo reso sold out questo locale già da un sacco di mesi. Lo so bene anch'io, che da quando li vidi per la prima volta al conservatorio due anni fa, deicisi di non perdermi più un loro concerto per nessuna ragione al mondo. Lo comprende anche il mio amico Marco, che non li aveva mai visti suonare dal vivo. Il mio amico Marco che non si é ancora stufato d'insegnarmi a suonare la chitarra, una pazienza infinita con me che tanto non imparerò mai. Questa la facciamo sabato, mi dice dopo un assolo devastante di Nels Cline, la cui anima sembra voler fare di tutto per uscire da un corpo perennemente in pena, passando da riff ed infinite strade inesplorate che percorrono ogni tipo di suono. E come no, amico mio, la facciamo quando vuoi questa canzone. Chiamami anche stanotte, io sono già pronto.

E comunque meno male che siamo all'Alcatraz stasera. Che il conservatorio avrà pure tutta un'altra acustica, ma come si fa a starsene seduti tranquilli quando lassù, sul palco, sta accadendo di tutto? E dice anche questo, Jeff, a un certo punto, che é bello essere qui, davanti ad un pubblico in piedi che balla e canta con loro, conosce a memoria quasi tutte le loro canzoni.
E' per questo, forse, che a un certo punto comincia anche a sorridere. Un sorriso all'inizio un po' sornione, sguardi d'intesa lanciati ai membri della band, ma che, a poco a poco, si fanno sempre più larghi e distesi, rivolti verso quella gente sotto il palco pronta a condividere la festa. Ci sono tutte le canzoni dei Wilco, questa sera: tante dal nuovo album - The Whole Love - ma almeno una anche di tutti gli altri. E i sorrisi le attraversano tutte, sempre più. Fino a quella Jesus, etc. in cui la furia delle note sembra fermarsi all'improvviso e dilatarsi in una dimensione finalmente senza spazio e senza tempo. Tweedy lascia il microfono, vuole cantarla insieme al pubblico e ci riesce. Allarga le braccia: "Our love is all we have", canta. Possiamo fermarci qui, Jeff. O almeno il mio concerto, quello potrebbe fermarsi anche qui. Our love, tutto quel che abbiamo. Non abbiamo biosgno d'altro per andare avanti in questo mondo. La certezza di un Amore più grande sopra di me e di te. Un amore elargito gratuitamente, gratuitamente da redistribuire tra di noi.
Jeff non si ferma, però, e non si fermano i suoi; rimettono in moto il motore, lo lanciano all'impazzata fino alla fine: Hoodoo Voodoo é l'apoteosi finale, energia ed allegria senza fine. Anche un tecnico del suono impazzisce e salta sul palco, balla e batte il tempo, la faccia di Frank Zappa e a torso nudo come Iggy Pop. Due ore e passa di concerto, sorridono tutti alla fine, anche Cline che finalmente si é quietato.
"See you next time", ci dicono mentre vanno via.
Stanne certo, Jeff, noi ci saremo.
With our love. It's all we have.




Friday, March 09, 2012

ESSENZIALITA' E CONDIVISIONE


di Silvano Gianti

Quali le possibili vie d'uscita dall'attuale crisi che ha investito l'economia non solo del vecchio continente, ma del mondo intero, lasciando fuori ben pochi Paesi? Come ragire e su cosa puntare per riemeregere? Di questi argomenti si é riflettuto a Milano nel corso di un convegno proposto dal Movimento dei Focolari dal titolo "Essenzialità e condivisione: una via d'uscita dalla crisi?". Un'occasione di riflessione e progettualità non solo per Milano, ma per l'intero paese, collegato a quel progetto di nuovo impegno per l'Italia che i Focolari hanno lanciato a metà gennaio...

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Thursday, February 23, 2012

STORIE DI SEMPLICE COMUNIONE


Nel silenzio del momento dell'elevazione sembra ancor più solenne e affascinante. Il suono delle campane, le campane del duomo di Milano. E' in quel momento che lo sguardo, assorto in preghiera, si rialza e guarda un popolo che riempe la cattedrale tutta intera. Non c'é più un posto, né a sedere né in piedi, per il popolo del don Gius, nell'anniversario del suo Dies Natalis, celebrato insieme al suo arcivescovo. Ed io lì con loro, con mia moglie e la mia figlia più grande. Con tutta la mia storia ed un suo pezzo che passa anche da qui.
Ed é in quel momento che mi commuovo per la seconda volta.

La prima era stata alla fine dell'omelia, quando Scola dice a tutti che é l'Unità la strada maestra per me, per te, per tutti. Cita Pentecoste '98, dice che "comunione" é "liberazione". Ed io ripenso a quella foto, appesa nel salotto di casa: Chiara che dà la mano a Giussani davanti alla cattedrale del primo papa della Chiesa. "Siamo una cosa sola", aveva detto il don Gius quel giorno: "L'ho detto anche a Chiara e a Kiko che avevo di fianco in piazza San Pietro: come si fa, in queste occasioni, a non gridare la nostra unità?".
Unità, oggi come allora, oggi più di allora.

La terza commozione é un sorriso. Il sorriso di Scola, quando lascia perdere il suo scritto e parte "a braccio", tira fuori quello che ha nel cuore. E' la fine della celebrazione. Ha appena parlato Carron, ha ringraziato lui, il don Gius e tutti i presenti. Una benedizione finale e si va tutti a casa. E invece no. Il cuore dell'arcivescovo torna fuori, ed ha ancora qualcosa da dire a quello di tutti noi. Parla dei sorrisi di Giussani, tutti i tipi di sorrisi di cui quell'uomo era capace. Dice che ce n'é uno speciale, quello che ti riservava quando gli chiedevi aiuto. Un sorriso meno gioioso, brioso, ma profondo e penetrante. Un sorriso che era abbraccio. "Non ti risparmiava niente, il don Gius", ci dice, "ma soprattutto non ti risparmiava il tuo bene". "Ed é così che si fa ad amare", aggiunge.

C'è bisogno di un amore così per andare avanti, un amore che ha a cuore il tuo bene. Questo é il sorriso di Dio, da dispensare al fratello che ti passa accanto. Il 14 marzo saremo di nuovo lì, col nostro arcivescovo ed il popolo focolarino in Sant'Ambrogio. Per il dies natalis di Chiara, questa volta. Per dire con la nostra vita che l'unità é possibile. Che il testamento di Gesù é l'eredità più preziosa.
E che la comunione tra gli uomini é la nostra unica e vera liberazione.


Sunday, February 12, 2012

SCUOLA DI MATEMATICA

Una bella domenica di gennaio, il freddo non ancora intenso come quello del febbraio che deve ancora venire. Un gruppo di amici, famiglie, bambini, gente di ogni età. E un prete in mezzo a loro, quello che si diverte sempre a spiazzarti. C'é il vangelo di Matteo, durante la messa, quello che parla dei pani e dei pesci. Quello che lo conoscono anche i sassi, anche quelli che a messa, tutte le domeniche, non ci vanno affatto. Nell'omelia ci chiede quale operazione abbia compiuto Gesù quella volta, quel provocatore dell'amico prete. E ci frega anche stavolta. Perché per tutti, grandi e piccini presenti, la risposta è una sola: moltiplicazione. Non é una moltiplicazione, amici, ci siete cascati ancora. E' una divisione, quella che fece Gesù quella volta, tanti anni fa. Anzi, di più: una condivisione. Ed il risultato è la sovrabbondanza: una folla intera che mangia e si sfama, migliaia di persone sedute in riva al lago. E dodici ceste piene di pezzi di pane e di pesce portate via perché avanzate alla fine. Ciò che opera la Grazia, davanti a un cuore sincero, è sempre di dare oltre la misura di cui hai bisogno.

A scuola di condivisione, in realtà, avevamo cominciato ad andare già un paio d’ore prima, ascoltando il racconto di Paolo ed Enza, una coppia della comunità Sichem di Olgiate Olona, che ci aveva raccontato la loro esperienza. Otto famiglie che hanno cercato e trovato una nuova casa, le une accanto alle altre, per condividere gioie, speranze, sofferenze, e per allargare la propria casa all’accoglienza verso altre persone e famiglie in condizioni di temporaneo bisogno. Tre cortili di una cascina ben ristrutturata, dove anche armonia e bellezza sono il segno di una fraternità vissuta. Paolo ci parla di “pregiudizio positivo”, che è lo sguardo verso il fratello che a loro piace avere in ogni circostanza, e si potesse prendere di loro anche solo una cosa da portare a casa, basterebbe già questa a cambiare lo stile della nostra giornata. E’ bello sentirli parlare di alleanza tra famiglie che si apre all’accoglienza ed è per questo che quel Vangelo di Matteo e quell’omelia trovano poi terreno fertile su cui plasmare menti che stanno provando ad andare ad una scuola di matematica nuova, dove s’insegna che la condivisione genera più dell’addizione e della moltiplicazione.

Lo si sperimenta già a tavola, per il pranzo, dove la comunione è d’anima e di beni. Si divide quel che c’è: il cibo ed il desiderio di bellezza che ciascuno ha dentro sé e che si esprime nell’allegria e nell’armonia del nostro stare insieme. Il pomeriggio, in visita alla Badia di San Gemolo é l’occasione per continuare a mettere in pratica ciò che poco a poco stiamo imparando. “Siamo pronti a perdere la testa per Dio?”, ci provoca ancora don Paolo, davanti alle reliquie del Santo e nel luogo in cui egli fu martirizzato, una cappellina distante una quindicina di minuti dalla Badia, raggiunta dopo una bella passeggiata nel bosco. Scegliere la strada della fraternità in Cristo non è, evidentemente, solo questione di convenienza. E’ desiderio di bellezza, entusiasmo del cuore che comincia a palpitare nel petto quando incontra l’Amato, desiderio, una volta trovata la perla preziosa, di vendere tutti i propri beni per acquistare solo quella.

Alla fine del giorno, è un piccolo gruppetto di amici, quello che si saluta sorridente davanti alle macchine, prima d’intraprendere la strada che porta verso casa; poche persone, forse, qualcosa d'insignificante davanti alla grandezza del mondo che c'é là fuori, con tutte le sue tristezze e i suoi dolori, ma che ha con sé la perla preziosa: Gesù tra loro perché uniti nel Suo nome. E che, a Lui piacendo e se vivrà così, può diventare sale della terra, proprio come quei pochi pani e pesci che hanno nutrito una folla intera.
Mentre l’auto corre veloce lungo la strada, l’orizzonte oltre il parabrezza è un tramonto fatto di spicchi rosso fuoco, che contendono all’azzurro gli spazi del cielo. La bellezza del creato è la cornice di un quadro, quella che una piccola comunità di persone ha dipinto nel suo essere famiglia. Cosa desiderare d’altro, se non di continuare ad essere il pennello nelle mani di un Altro?

Saturday, January 21, 2012

KING OF THE VILLAGE


"gli occhi chiusi di Jamie e quel suo viso con una smorfia di sorriso, raccontano qualcosa in più di quel che sentiamo o vediamo. C'è così tanta vita dentro la sua musica, che quando la incontri non puoi rimanerne indifferente. Ti mette ai suoi piedi con quelle onde che vibrano passione e sincerità. E quando ti rialzi, è bello sapere che il cerchio non si è ancora spezzato."


"This is my voice / I have no choice": canticchia, scherzando, Keith Rose, il bassista di Bocephus King, mentre prova il microfono, arpeggiando, nel frattempo, sulle corde del suo strumento. E' anche questo - penso tra me e me, mentre sorseggio il mio drink - il bello del rock'n'roll e della sua lingua madre, l'inglese: bastano pochi accordi, quattro parole in rima, e sei già dentro qualcosa che ha in sé tutte le possibilità di farti vibrare il cuore. Bocephus King lo avevo incrociato poco prima, fuori dal locale, attanagliato da un gelo che sembrava essere arrivato direttamente da Vancouver assieme a lui, mentre cercava di azzeccare la porta giusta per entrare; adesso é lì anche lui a provare, davanti a quei quattro gatti che, molto più tardi, all'inizio dello show, saluterà con un "welcome Nidaba People!", che neanche fossimo al Madison Square Garden di New York.
Che poi, stasera, il Nidaba, minuscolo ma affascinante locale milanese, assomiglia un po', in fondo, ad uno di quei posti dove un bel po' di tempo fa potevi imbatterti per caso, se ti trovavi a passeggiare su e giù per MacDougal Street. Ed é vero che la Milano della recessione del 2012 non assomiglia neanche lontanamente al Greenwich Village dei '60, ma é altrettanto vero che alla buona musica, per fortuna, non le riesce mai di morire, anche in tempi di crisi del rock e non solo di quello.


Il concerto vero e proprio, Jamie Perry, in arte Bocephus King, lo inizia quando l'orologio sta scoccando allegramente le undici di sera: prima di allora, dopo quella mezz'oretta di prove in cui é riescito a far entrare un po' di tutto, ha preferito trascorrere il tempo chiacchierando con vecchi e nuovi amici, seduti ai tavoli qua e là. E' forse per questo, la mente del musicista lasciata insieme all'ultimo boccale di birra abbandonato sul bancone del bar, che la prima parte del concerto scorre via piatta e senza troppi acuti, risvegliata solo alla fine da una bella versione di Willie Dixon God Damn!, calda e vibrante al punto giusto ed in grado di traghettarci verso una seconda parte dello show, a mezzanotte inoltrata, che sarà tutta un'altra cosa. Un po' perché sul palco cominciano a salire Marco Python Fecchio con la sua chitarra ed una violinista davvero brava, ad aggiungere energia e poesia nelle giuste dosi, e un po' perché Bocephus tira finalmente fuori la voce, le canzoni e pure il cuore. Canzoni, le sue, che in realtà non conosco, perché questo artista canadese, non l'ho mai sentito cantare prima d'ora: "devi andare al Nidaba a sentirlo", mi aveva scritto l'amico Maurizio Pratelli e non c'é niente di meglio che fidarsi dei consigli degli amici. Quelle che riconosco, però, sono una manciata di cover che Bocephus sembra d'essere in grado di fare meglio di chiunque altro. Come quando, ad esempio, canta Isn't It A Pity di George Harrison o una Will The Circle Be Unbroken che non riesci a non saltar su dalla sedia ed andresti di corsa sul palco a cantarla insieme a lui, tanto é bella. O come quando tira fuori dal cappello a cilindro una Papa Was A Rolling Stone, così bella e intensa che un tizio davanti a me si mette a piangere quando finisce la canzone, tanto era il tempo - dice - che non la sentiva suonare così.
E' quasi l'una e mezza e Bocephus suona ancora, come e meglio di prima; lo guardi e pensi che potrebbe tirare tranquillamente mattina, lui e noi insieme a lui e senza neanche troppe birre a farci compagnia. Mi tocca andar via, invece, e son sicuro che mi perderò una di quelle Racing In The Street che solo lui é in grado di fare. Ma io, tra poche ore, devo passare dalle note di una chitarra ad una manciata di volti sdraiati su letti d'ospedale ed é giusto che sia così, ad ognuno il suo, basta non smettere di mettere il cuore con passione, lì dove si é chiamati a stare.

Mentre torno a casa ripenso a quel tizio e al fatto che si può arrivare a piangere per una canzone. Forse é un po' eccessivo per un classico dei Temptations, seppur suonato bene. Ma dove ci sono lacrime ed emozioni puoi trovare anche cuori desiderosi d'incontrare ciò che sa d'amore vero e sono segni di speranza attaccato ai quali mi piace poter sempre stare.
Io, intanto, da domani voglio procurarmi tutti i dischi di Bocephus che, per una notte, é stato il re del Greenwich Village del mio cuore. Che la prossima volta che vengo a sentirlo, voglio riconoscerle, le sue canzoni. Chissà che non scappi una lacrima anche per quelle.