Il primo post cinque anni fa, in quel moderno Moleskine che é questo blog, taccuino su cui annotare volti, luoghi, storie che ho incontrato, spesso semplici ma struggenti storie di comunione.
Non mi sono stancato di viaggiare, anche se un rispettoso silenzio di fronte a ciò che incontro é ciò che vorrei mi potesse contraddistinguere sempre più. Ain't talkin', just walkin', mosso da qualunque cosa o persona che, lungo la mia strada, mi ricordi che ciò che il cuore desidera esiste, senza tener conto del punto in cui ci si possa trovare lungo quella strada.
Saper riconoscere il Volto buono del Mistero mi affascina ancora, in tutte le vicende della vita ed il condividere quest'Incontro é l'unica cosa che m'importa veramente. Anche dentro pagine di un blog, che possono narrare di medicina, rock'n'roll, viaggi o quant'altro, ma che, al fondo, sono sempre e soltanto tensione a tener desti domanda e desiderio. E certezza che esiste sempre una speranza che non muore.
Stay warm, my friends, il taccuino rimane in tasca, pronto a raccogliere la scrittura di nuove pagine, ogni qual volta vi sarà qualcosa che valga forse la pena di raccontare.
Per tutti, poi, ci si rivede come sempre là: le long de la route.
Mi ricordavo che l'avesse cantata anche lui. Il 27 agosto 1990, a Merrilville, sperduta cittadina dell'Indiana, Bob Dylan si era cimentato con un'improbabile Moon River. Fatta a modo suo, ma bella, struggente, eseguita con quell'esaltante garage band che aveva dato inizio un paio d'anni prima a quello che poi avrebbero chiamato Never Ending Tour. Di G.E. Smith, geniale chitarrista di allora, ho ancora oggi una nostalgia immensa. Garnier, invece, é sempre là, simpatico e inossidabile, ma sotto sotto inutile - non me ne voglia il buon Tony - che, in fondo, come ebbe a dire lo stesso Bob un giorno - "I don't give a shit who plays bass in the band". Vabbé, Moon River, si diceva. Mille miglia distante, la versione di Dylan, da quella di Audrey in Colazione da Tiffany, che con quello sguardo da cerbiatta, a cavalcioni sul davanzale, avrebbe fatto innamorare anche un sasso. Distante come lo é Dylan dalla Hepburn. Ma quella canzone, quella sera aveva un cuore. Uno sguardo rivolto lassù, dove Stevie Ray Vaughan era appena andato a raggiungere la band dove suonano già da un pezzo Jimi, Elvis e tutta quell'altra gente che ancora oggi ci manca da morire.
Ieri un altro Steve ci ha lasciato, quello che ha sempre pensato differente ed io, chissà perché, continuo ad avere in mente quella canzone.
Jobs sapeva due o tre cose sul dolore: ne parlò bene a Stanford, davanti ai neolaureati qualche anno fa, lui che alla laurea non ci andò mai neppure vicino. Quel discorso ha già fatto il giro del web e di tutto i media tempo fa, figuriamoci adesso, che diventerà il suo testamento spirituale. E allora, ieri sera, me lo sono andato a risentire anch'io, perché ci sono un sacco di passaggi che meriterebbero più di un pensiero su cui soffermarsi un po'.
Tre storie, raccontò quel giorno Steve. Tre storie per un'unica esistenza.
Quella di unire i puntini, per esempio, quelle faccende della vita che sembrano non riuscire mai ad andar d'accordo tra di loro: "(...) non é possibile unire i puntini guardando avanti, potete unirli solo guradando indietro. Così dovete avere fiducia che, in qualche modo, in futuro, i puntini si potranno unire. Dovete credere in qualcosa - il vostro intuito, il destino, la vita, il Karma, qualsiasi cosa. Questo approccio non mi ha mai lasciato a terra e ha fatto la differenza nella mia vita"
La seconda storia, poi, parla d'amore e di perdita: "Ero stato rifiutato, ma ero ancora innamorato. Così decisi di ricominciare. (...) Fu una medicina con un saporaccio, ma presumo che ‘il paziente’ne avesse bisogno. Ogni tanto la vita vi colpisce sulla testa con un mattone. Non perdete la fiducia, però. Sono convinto che l’unica cosa che mi ha aiutato ad andare avanti sia stato l’amore per ciò che facevo. Dovete trovare le vostre passioni, e questo è vero tanto per il vostro la vostra findanzata che per il vostro lavoro. Il vostro lavoro occuperà una parte rilevante delle vostre vite, e l’unico modo per esserne davvero soddisfatti sarà fare un gran bel lavoro. E l’unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi; come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l’avrete davanti. E, come le grandi storie d’amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi".
E la terza storia, infine, una storia di morte: "Ricordare che sarei morto presto è stato lo strumento più utile che abbia mai trovato per aiutarmi nel fare le scelte importanti nella vita. Perché quasi tutto - tutte le aspettative esteriori, l’orgoglio, la paura e l’imbarazzo per il fallimento - sono cose che scivolano via di fronte alla morte, lasciando solamente ciò che è davvero importante. Ricordarvi che state per morire è il miglior modo per evitare la trappola rappresentata dalla convinzione che abbiate qualcosa da perdere. Siete già nudi. Non c’è ragione perché non seguiate il vostro cuore."
"La morte é la migliore invenzione della vita", disse ancora Jobs in quel discorso. Sei pazzo Steve? Perché nessuno vuole morire, c'é anche questo nella chiacchierata di Stanford. Come quel "siate affamati, siate folli" che lo concluse in modo memorabile, da fissarsi nelle menti quasi quanto quello di Martin Luther King, quel giorno così lontano della Washington Rights March.
Non eri pazzo Steve ed ora che sei arrivato, forse ti sono ancora più chiare anche quelle due o tre cose sul dolore che comunque conoscevi ed hai saputo raccontare così bene. C'é un Altro, un Amore più grande, che unisce quei puntini, il disegno di un ricamo che si chiama Destino, che il Volto buono del Mistero ha già tracciato e che noi non riusciamo mai a distinguer bene perché lo vediamo sempre da sotto, dove sta il rovescio. Essere nudi davanti al Destino, andare davvero dove ci porta il cuore, significa comprendere come la nostra vita sia nelle mani di Dio e che se amore e perdita andranno misteriosamente a braccetto, sarà nel nostro sì all'attimo presente della vita quel formulare il patto tra Creatore e creatura che solo é in grado di donare significato e gioia all'esistenza.
"Siate affamati, siate folli" hai detto quel giorno, Steve. "Sappiate osare d'essere santi e ardenti", ha detto il Papa qualche giorno fa. Non é poi così diverso, in fondo.
Ti penso nell'abbraccio di un Altro, Steve, arrivato alla casa del Padre dove arrivano tutti coloro che si sono redenti nella sofferenza, storie quotidiane che ho sotto gli occhi ogni giorno, camerette d'ospedale dove si raggruppano a due o tre.
Ed io, adesso, me ne torno alla mia Moon River. Perché anche una canzone può aiutare, in fondo. A ritrovare la diritta via che era smarrita, quella che si rischia di perdere ogni giorno, ad ogni istante. Ed a rimettersi nelle braccia dell'Amor che move il sole e l'altre stelle.
Ne ho già scritto, di Audrey, su questo blog e ne riscrivo.
Scarsità d'idee? Tutt'altro. E' che oggi son 50 anni che é uscito questo film ed io non mi sono ancora stancato di guardarlo.
E la questione che la libertà vada a braccetto con l'appartenenza é una profonda verità.
Buona visione a tutti i romantici come me. E non solo.
"(...)Vuoi sapere qual è la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora, che si deve appartenere a qualcuno, perché questa è la sola maniera di poter essere felici. Tu ti consideri uno spirito libero, un essere selvaggio e temi che qualcuno voglia rinchiuderti in una gabbia. E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani ed è una gabbia dalla quale non uscirai, in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa"