Saturday, January 23, 2010

BORN TO FIGHT

"Is there anything else you would like to add?"

"No, thanks for coming and being here. Do you fancy a beer?"
(Dan Stuart, Anthony Strutt interview, 18-5-2007)



BORN TO FIGHT
appunti di viaggio e di pensiero
su un disco amato senza riserve
Un tramonto rosso fuoco, intravisto dal finestrino della macchina, mentre davanti c'é già il blu; incertezza, forse anche tristezza - the blue - della notte che si fa strada, di una notte che ti attende on the road. Quando la gente comprava i dischi, invece di scaricare mp3, il fascino cominciava anche da qui, da una copertina, prima ancora di ascoltare la musica. Fantasia della tua mente che precedeva le note, pronta poi a farsi strada con loro, a viaggiare con esse senza limiti e senza freni. Copertina di un vinile come la copertina di un bel libro. Proprio così. La mia avventura col secondo disco acquistato dei Green On Red era cominciata in questo modo. Passione per il lavoro di una band, rimasta tra le mie preferite anche ad anni di distanza, per quel piccolo fenomeno, sconosciuto ai più, che fu il Paisley Underground, modo tutto americano di coniugare tradizioni e radici della musica stelle & strisce con novità, psichedelia, ribellione di pensiero di stampo punk.
Nebulosa attraversata lungo gli anni ottanta, prima che gli Uncle Tupelo fossero, albori di un' alternative country, o "americana" o chiamatela come volete, comunque un'affascinante melting pot, proteso verso qualcosa di nuovo ed inatteso senza però dimenticarsi da dove si é partiti, delle radici che ci fanno essere quel che siamo.



Già il Paisley Underground. Che in fondo non é mai esistito, perché, anche a quei tempi, provare ad etichettare in questo modo qualcuna di quelle band emergenti - Green on Red, Long Ryders, Dream Syndicate, le Bangles, i Rain Parade - suscitava nei membri di quei gruppi fastidio e ribellione, apparendo più esercizio artificioso di critici musicali che non sguardo corrispondente sul serio a realtà ed esperienza, quella di musicisti che cercavano solo una via d'uscita esistenziale, sorta di viaggio verso una libertà interiore sotto forma di voce e di chitarre.
Per loro, poi, i Green On Red, col tempo fu coniato pure un gran bel termine: "desert rock"; ed in effetti la loro musica pareva davvero spesso tragica e desertica, intrisa di drammacità e desolazione, a partire dalla voce youngiana e disperata di Dan Stuart, il sogno americano sbattuto chissà dove, su una strada senza uscita, finita nel bel mezzo del nulla dopo una corsa rettilinea all'impazzata. E d'altra parte quella del deserto era l'aria delle loro parti, quella che fuori dalla periferia di Los Angeles portava fino a Tucson, in Arizona ed é proprio Stuart che ti descrive cosa possa accadere guidando lungo certe strade sperdute, laggiù nel west: "Quando vedi un cartello stradale con su scritto "prossima stazione di servizio 200 miglia", se vieni da New York ti domandi: come cazzo si fa a vivere in un posto così? Ma se sei di queste parti finalmente ti rilassi e ti senti a casa".




The Killer Inside Me é il disco dei GoR che ho amato di più in assoluto e quello che reputo migliore nella breve ma luminosa storia di questa band. L'apice di una parabola, partita da un garage rock mescolato alla psichedelia (Gravity Talks, lo stesso Gas Food Lodging) e passata attraverso un country rock rivisitato (No Free Luch), fino a giungere a quella strana terra di nessuno, una No Man's Land che é miscela di suoni e percorsi musicali, dove gli accenti gospel ed il virtuosismo tastieristico di Chris Cacavas donano una drammaticità tutta particolare e nello stesso tempo fanno intravedere quasi una via di speranza e redenzione a quella che sembra la perfetta rappresentazione del fallimento del sogno americano. La voce youngiana di Dan Stuart, talora deliziosamente sgraziata, appare l'interprete ideale dei personaggi di queste canzoni, socialmente e umanamente sconfitti, intrisi di deserto nei suoni e nella mente. La stessa chitarra di Chuck Prophet pur lontana com'é da graziose ed addolcite melodie, ma pur sempre tecnicamente sopraffina anche quando ammicca a sonorità che risentono della vicinanza temporale di Replacements ed Husker Du, dipinge straordinari scenari musicali - come ad esempio nei riff della parte finale della title track - capaci di armonizzarsi perfettamente con le derive alcooliche e caratteriali di Stuart.
Il disco successivo - Here Come The Snakes - esplorerà ancor più la direzione del deserto, in musicalità e stato d'animo di liriche e suoni, prima che il gruppo si abbandoni ad un manierismo country rock poco esaltante ed ormai inesorabilmente privo di vena creativa, portando all'inevitabile risultato dello scioglimento della band.
"I live in Clarkesville" grida, incalzato dal basso pulsante, il protagonista della prima canzone, ed é solo uno dei tanti poveracci, destinati ad infilarsi in strade desolate e senza uscita. Puoi anche imbracciare il fucile o la pistola, ma non sarai liberato dalla rabbia, lo sfogo é un'illusione e l'armonica intrecciata alla chitarra - come in Mighty Gun - é uno spazio troppo breve, la disperazione é pronta a riassalirti in un istante. Ci sono amori perduti, vite sospese, percorse su confini e terre inospitali, come laggiù in Old Mexico oppure El Salvador. Ma vite, nonostante tutto, che non si arrenderanno, perché - yes, indeed and Lord forgive us - me and you, brother, we were born to fight" (Born To Fight).
E allora lo devi sparare a tutto volume, questo disco, solo così lo puoi apprezzare davvero. Devi lasciare che un vento di speranza investa il tuo volto lungo il viaggio, quando speranza sembrava tu non ne avessi più ("You'll take the high road and I'll take the low" - We ain't free) e sussurri al tuo cuore che qualcosa o qualcuno si può fare ancora strada tra le note distorte della tua esistenza, come in quel magnifico coro gospel - un Glory, Glory, Halleluiah così trionfante - sulle note finali di quella canzone da brivido che é Whispering Wind.
E' impressionante, ma non c'é un punto debole in tutto il disco, un crescendo di pathos e perfezione di suoni cristallini, il gospel alternato al country rock, la voce di Dan Stuart a duellare con le tastiere di Cacavas e la chitarra di Chuck Prophet, fino a quel riff finale di The Killer Inside Me, che si chiude drammaticamente con un coro d'archi, quasi a sottolineare che é fino a questo punto che la redenzione ha bisogno d'arrivare, perché o si salva anche l'aspetto più oscuro dentro te - darkness in my mind - oppure non c'é speranza di salvezza per nessuno.

Dopo lo scioglimento del gruppo, per anni nessuno saprà più nulla dei Green On Red; solo Chuck Prophet proseguirà con una più o meno dignitosa carriera solista, di cui l'ultimo capitolo - il recente Let Freedom Ring! - rappresenta uno dei punti più luminosi. Nulla fino ad un'inattesa reunion a Tucson, autunno del 2005, per ricordare assieme lo scomparso ex batterista Alex F. MacNichol e poi all'Astoria di Londra, il 10 gennaio dell'anno successivo, per rifare quel concerto che il gruppo aveva disatteso quasi vent'anni prima, un lontano maggio 1987 in cui il tour veniva bruscamente interrotto ed il leader del gruppo dichiarato senza troppi fronzoli inaffidabile e poco sano di mente. Qualche show in giro per l'Europa, poi il silenzio, sia compositivo che sul palco. Ma in fondo é molto meglio così e le reunions non hanno mai portato poi così lontano, troppo spesso insipide nella loro sostanza di minestre riscaldate. Ma quello che i Green On Red hanno lasciato, per quel che mi riguarda é già abbastanza, non fosse altro la presenza di uno sguardo che, pur disperato, non si stanca di ascoltare il desiderio più profondo che alberga nel cuore e nella mente.
Tempo é passato, quindi, ma tempo che nulla può di fronte a tanto desiderio.
E il sole non smette di brillare di fronte a cuori che continuano a battere ad ogni costo.
Time ain't nothing, when you're young in heart

And your soul still burns.
I'll see rainy days, sunshine in every face
all through the night

(Time Ain't Nothing, Green on Red - No Free Lunch)


2 comments:

Maurizio Pratelli said...

che pezzone e che band! che poi anche presi uno ad uno. grazie doc

ciciuxs said...

bell'appunto sull'etichettatura Paisley Underground che non ho mai digerito, oltretutto quasi tutte le bands così etichettate mi facevano kaka, i GoR sono stati sicuramente un'altra cosa. See U soon