Sunday, July 01, 2007

RUSSIA

Ogni tanto in pronto soccorso ne capitava qualcuno.
Erano vecchi ormai e avevano un sacco di buoni motivi per presentarsi lì.
Ma succedeva sempre la stessa cosa: riconducevano ogni sintomo, anche il più disparato a quella terribile e pregressa avventura.
"Sa dottore - mi dicevano - io ho fatto la campagna di Russia".
Io sorridevo e spesso tagliavo corto : qualunque sintomo e qualsiasi patologia avessero in quel momento, cosa c'entrava una cosa così lontana ?
E così cercavo di sbrigarmi a capire invece cos'avessero, ma poi incrociavo tutte le volte quegli occhi dolci e rassegnati - ora sì che me li ricordo -, come se chi avevo di fronte mi dicesse "no, dottore, forse lei non ha capito".
Ma ero un po' più giovane allora. Credevo di sapere tante cose.


Quando gli alpini giunsero a Nikolajewka, l'accerchiamento dei soldati russi era ormai completo.
Avevano già marciato per giorni, gli italiani, nella neve ed al gelo, da quel maledetto giorno, il 16 dicembre 1942, in cui i russi avevano lanciato la loro grande offensiva lungo il fronte italo-tedesco ed era partito l'ordine di ripiegamento dal Don.
Ed ora si trovavano in pieno nella sacca e la situazione appariva ancor più difficile.
Non erano bastati i quarantacinque gradi sotto zero, senza abbigliamento adatto, lasciando indietro autocarri senza più benzina e viveri sempre più razionati. E poi feriti e congelati a centinaia ogni giorno, difficili da assistere e da trasportare e quei russi che attaccavano ogni giorno, molto più addestrati ed esperti a casa loro.
Ogni tanto, durante la lunga marcia, erano passati anche gli alleati, i tedeschi, meglio equipaggiati e con più automezzi e carri armati. Allora gli italiani cercavano di saltarci su, almeno coi feriti che non erano più in grado di camminare. Ma trovavano solo rabbia e cattiveria e calci e baionette a rimandarli giù, così che ad un certo punto avevano smesso anche di provarci e li guardavano passare con quegli occhi vuoti che assistevano impotenti all'inferno.


E' il tramonto e sulla strada non c'é quasi nessuno.
L'auto scorre via veloce ed il sole, rosso fuoco sulla linea dell'orizzonte, dà un strano senso di calore. Dal lettore cd le note fuoriescono struggenti, un brivido non può fare a meno di percorrere la pelle. La voce di Massimo Priviero accompagna le note della canzone, così azzeccate per quel pezzo, "la strada del Davai":

"Lo sai mamma mia che freddo fa stasera
E quanti occhi senza niente accanto a me
Chissà se mai la finirà, chissà se tu mi rivedrai
Son sulla strada, la strada del davai"

Dicevano così i soldati russi a quei prigionieri, italiani e tedeschi, che si trovavano a ripercorrere, da catturati, l'estenuante marcia nella neve che avevano fatto prima, alla ricerca di una via di scampo. "Davai !", "avanti !" gli urlavano in faccia e chi non ce la faceva veniva finito lì, senza pietà, con una raffica di mitra. Non sapevano, i poveretti che ancora riuscivano a camminare, che quei loro compagni di sventura avevano fatto una fine migliore di quella che aspettava loro, nei lager sovietici. Più di sessantamila dichiarati "dispersi" dalle autorità occidentali alla fine della guerra, ma invece - tutti lo vennero a sapere, molti anni più tardi - fatti morire di fatica, fame e freddo dal regime comunista che aveva "vinto la guerra" contro il nazismo.


"E' mostruoso - diceva poco dopo in quell'unica isba che raccoglieva ormai tutta la ventisei, il colonnello Verdotti, che portava i segni dell'aspra sofferenza divisa con i soldati; - la Julia venendo in Russia aveva circa ventimila uomini. Sapete in quanti siamo usciti dalla sacca ? In quanti siamo rimasti ?
- Compresi gli uomini mandati agli ospedali ? - chiese Serri.
- Compresi quelli.
- Diecimila... - azzardò Bartolan.
- Duemila trecento - rispose il colonnello.
La ritirata nella sacca ci pareva un disastro - proseguì il colonnello - invece é stata una tragedia senza nome. Anche le altre divisioni sono giunte svuotate, nella disgrazia noi non siamo stati neppure tra i più sfortunati. Non avete ancora idea di quello che é successo durante le marce, vedevamo ciò che accadeva intorno a noi, ma spesso non ci accorgevamo di quanto avveniva a chilometri da noi, nella notte, nella tormenta, nei paesi durante le soste: la colonna era lunga molte decine di chilometri, spesso discontinua, i reparti russi attaccavano la coda composta dagli uomini sbandati e più stanchi, li isolavano e li catturavano; nel corpo della colonna battaglioni distanziati, reggimenti interi hanno perduto i contatti, hanno sbagliato strada e sono caduti in blocco nelle mani dei russi. I morti in combattimento sappiamo chi sono, gli assiderati caduti sulla neve li abbiamo visti, in tutto rappresentano una cifra minima al confronto del numero degli assenti: mancano generali, colonnelli, molte decine di migliaia di soldati, reparti al completo che sono rimasti prigionieri. Una tragedia che non poteva essere più grave e dolorosa, figlioli."
(Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio)


Dicono che Bob Dylan non canti più come una volta, una voce andata in malora, scalette troppo simili l'una all'altra nei concerti del suo Never Ending Tour ed una band sottotono.
Può darsi anche che sia vero, ma l'altra sera, ascoltando la registrazione di uno dei suoi utimi show dell'attuale tour, nel Nord America, quella "Masters of War" - "Padroni della guerra" - mi é sembrata intatta nella sua forza e rabbia di sempre.

"Come Giuda al tempo antico
voi mentite, voi ingannate,
mi volete far sicuro
che una guerra mondiale la vincete.
Ma io vi vedo negli occhi,
io vi vedo fin dentro il pensiero,
come vedo nell'acqua
che mi scende nello scolo

Vi farò una domanda,
quanto vi vale il denaro,
ve lo compra il perdono,
ci credete davvero ?
Io credo che invece scoprirete,
quando la morte vorrà il suo pedaggio,
che con tutto il denaro che avete
la vostra anima non la ricomprerete"

"Mai più la guerra !" e l'aveva detto anche Giovanni Paolo II, ma a guardarsi in giro, anche al giorno d'oggi, sembra davvero che l'uomo non voglia imparare mai.


Qualcuno é riuscito a raccontare quegli avvenimenti, una volta tornato a casa.
Giulio Bedeschi, Nuto Revelli, Eugenio Corti.
Quando lessi le pagine di Corti - I più non ritornano, Il cavallo rosso - ringraziai il cielo che qualcuno avesse avuto la forza di non dimenticare.
C'é un passaggio del resoconto di Corti in cui tanta tragedia sembra divenire alla fine sorta di castigo all'intera umanità. Ma c'é anche qualcosa che questo grandissimo scrittore ed ex ufficiale scrive in nota, sotto forma di lettera ad un amico :
"(...) prima di chiudere io dovrei introdurre qui un'altra componente molto ma molto importante del quadro (forse la più importante di tutte). Come cioé Dio recuperi la sofferenza degli uomini, soprattutto degli innocenti - crocifissi al pari di Cristo innocente - la quale sofferenza pertanto non va affatto sprecata. Dunque quei morti non sono morti per niente: ti rendi conto di quanto ciò sia importante ? "

Sono passati gli anni ormai ed i superstiti della Russia non li vedi più, ormai sono morti quasi tutti.
Vorrei tanto tornare indietro ed incontrarli di nuovo, in qualche pronto soccorso.
Allora questa volta sì che mi fermerei, per farmi raccontare tutto.
E forse, alla fine, gli direi che se "ghe manca el fia' " é davvero colpa di quella maledetta guerra.
Qualche tempo fa, però, li ho incontrati di nuovo.
Ho girato la testa, per caso, e su quella lapide di marmo c'era il nome di tutte le loro compagnie. La Cuneense, la Tridentina, la Julia, tutte insieme in mezzo ai personaggi celebri, al cimitero Monumentale di Milano.
Allora mi sono domandato quale fosse il significato della parola speranza.
Forse gli occhi di una madre. La madre é l'unica che non la perde mai, anche quando le circostanze sembrano sostenere il contrario.
Mi volto indietro. Di fronte c'é la tomba di Don Giussani.
C'é sempre qualcuno che viene a trovarlo: in qualunque ora del giorno non lo trovi mai da solo.
Vado a salutarlo anch'io. Sulla lapide una sola frase: "Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza".

3 comments:

Paolo Vites said...

che bel post... sono appena tornato da tre giorni sulle dolomiti... incantanto come sempre quando posso ammirarne la bellezza, facendo memoria dei tanti che vi hanno lasciato la vita...

priviero said...

.....Mi è stato segnalato questo blog e l'ho visto. Vi mando i miei migliori complimenti, una carezza e un abbraccio forte.
Massimo Priviero

Fausto Leali said...

Grazie di cuore Massimo, é un onore avere un commento da parte tua sul mio blog.
E grazie anche a te caro Paolo, capisco bene quel che vuoi dire..