Tuesday, April 27, 2010

DALL'ADIGE AL DON



Occhi grandi e spalancati. Forse ancora spaventati. Me li ricordo ancora oggi come fosse allora. Occhi dentro fisici asciutti, malandati, consumati dalla vecchiaia e dalle malattie. E dalla tanta, troppa sofferenza. Me li ricordo, i reduci ormai anziani della guerra, con quel loro gentile e sommesso "sa, dottore, io ho fatto la campagna di Russia". Ed io lì a non capire, a dire va bene ma che c'entra con quello che lei ha adesso, son passati così tanti anni...
Ma ero troppo giovane e troppo stupido per capire. Così come lo sono adesso, d'altra parte, più vecchio e stanco, ma sempre inadeguato. Incapace nel capire sino in fondo che quel "tu" davanti a me non é solo un malato, ma "la" domanda di un significato, il Senso della propria sofferenza, bisogno d'essere curato ma soprattutto esigenza di un cammino in compagnia, dentro quella stessa sofferenza e dentro tutto il male.


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La foto in bianco e nero di un tenente alpino, appoggiata giù per terra, vicino ad un leggio. Poi la voce narrante, splendida, di Federica Toti, il volto illuminato dalle luci soffuse del palco, le mani da una piccola abat-jour posta su di un tavolino. Inizia così "Dall'Adige al Don", musica e letteratura a rappresentare insieme il dramma dei soldati e degli alpini: "Durante la seconda guerra mondiale tra il luglio del 1941 e l'autunno del 1942, furono inviati in Russia circa 230.000 soldati italiani. Costituivano lo CSIR, il Corpo di Spedizione Italiana in Russia, successivamente denominato ARMIR, Armata Italiana in Russia. (...) La spedizione ebbe invece un esito finale disastroso per le potenze dell'asse, costituito da Italia, Germania, Finlandia, Romania, Ungheria, una divisione di volontari spagnoli e piccole unità slovacche e croate e si concluse con la perdita di un numero enorme di soldati...".
E' l'inizio di un urto violento e insieme una carezza, racconto di un'ora e mezza che ti rapisce la mente e il cuore, lasciando le tue membra incollate alla sedia, un'intensità che, a tratti, ti costringe quasi a trattenere il respiro. Sono racconti ora del soldato, ora della sposa o fidanzata che é rimasta a casa, ora del padre rimasto senza il figlio, ora della vedova o della madre che il figlio lo ritrova, ma non si può far capace di raccontare la sua gioia davanti agli occhi disperati di chi ha perso il proprio caro. Testi meravigliosi, scritti da Roberto Curatolo, l'autore stesso impegnato con Federica Toti nella passione del racconto.

E, in mezzo, le canzoni di Massimo Priviero. Splendide canzoni: La Strada Del Davai, Nikolajevka, Pane Giustizia e Libertà, classici alpini rivisitati con una rabbia rock che riesce a rimetterli su strada in una maniera nuova. Musica che si fa poesia e canzoni che diventano racconto, in un incredibile crescendo d'intensità anche nei toni della voce, per uno spettacolo che non vorresti avesse fine.
E' così e solo così che forse riesci anche tu ad entrare dentro gli ultimi istanti della vita di quel giovane tenente, quello che amava così tanto i suoi alpini, occhi girati indietro, la vita passata davanti come un film, l'amore disatteso e un "tornerò" ricacciato in gola sotto i colpi delle granate più fredde della neve: "(...) gli occhi, ruotando verso il cielo livido, non incontrarono l'immagine funeraria di mia madre, né il volto apprensivo e severo di mio padre, ma sbiadirono, nella luce calda dello sguardo innamorato di Alina..."



Fatica, Priviero, a star seduto mentre canta, ma, lui ed i suoi musicisti (tra gli altri, un Michele Gazich spettacolare al violino) riescono a farlo mentre i testi di quel dramma scorrono uno dopo l'altro, uno più feroce e più tenero dell'altro, la stessa solennità capace di rapire tutti. Rispetto e solennità di fronte al dramma della guerra, che a poco a poco sanno farsi tenerezza, sinché giungono ad essere comunione. Perché é questo ciò che accade quando il racconto di quei protagonisti si fa strada tra attori, musicisti e spettatori: ciò che si realizza é una magica alchimia che, in modo misterioso, fa diventare tutti una cosa sola.
Finché, alla fine, riusciamo anche ad alzarci tutti, per un applauso che più che tributo diventa in qualche modo una condivisione, coscienza d'essere entrati dentro la storia tutti insieme.
Ed é solo alla fine, allora, che ci si può alzare per cantare per davvero, cantare tutti insieme quel Nessuna Resa Mai, sorta di manifesto di umana resistenza, perché, prima della fine, si possa ripartire da qui nuovi per davvero.



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"Lo sai mamma mia che freddo fa stasera
E quanti occhi senza niente accanto a me
Chissà se mai la finirà, chissà se tu mi rivedrai
Son sulla strada, la strada del davai"
(M. Priviero, La Strada Del Davai)

"Davai!", "avanti!", urlavano i soldati russi ai prigionieri, italiani e tedeschi, quelli che non erano morti sotto le granate o congelati, costretti a ripercorrere, da catturati, l'estenuante marcia nella neve che avevano provato a fare prima, disperata ritirata alla ricerca di una via di scampo. "Davai !", "avanti !" gli urlavano in faccia e chi non ce la faceva veniva finito lì, senza pietà, con una raffica di mitra. Non sapevano, quei poveretti che ancora riuscivano a camminare, che i loro compagni di sventura già morti sul campo di battaglia avevano fatto una fine migliore di quella che aspettava loro, nei lager sovietici. Più di sessantamila dichiarati "dispersi" dalle autorità occidentali alla fine della guerra, ma invece - tutti lo vennero a sapere, molti anni più tardi - fatti morire di fatica, fame e freddo dal regime comunista che aveva "vinto la guerra" contro il nazismo.

Ma qualcuno, a tornare a casa, alla fine ce l'aveva fatta. E loro, i sopravvissuti della guerra, avanti nella vita, in qualche modo, c'erano andati. Finché, vecchi e stanchi, erano arrivati sino a qui, davanti a me, con quel loro "sa, dottore...". Ogni acciacco, ogni pianto, ogni incertezza, buttati dentro quello sguardo indietro, l'inferno di un inverno del '43.
Ed ora, potessi tornare indietro, me li abbraccerei tutti, ad uno ad uno.
Adesso sì che lo farei, ora che non li incontro quasi più, perché poco a poco stanno morendo ormai; loro, gli ultimi, destinati a raggiungere tutti gli altri , l'ARMIR che si riforma in un altro luogo, dove deporre finalmente le armi, lassù dove trovare di nuovo la strada che porta verso casa.

Non li abbracciai allora, ma non é un rimpianto. Loro, ne sono certo, avevano già capito. Compreso che nessuno, in fondo, potesse intuire veramente ciò che avevano vissuto, la sofferenza da portare dentro di sé, ogni maledetta alba di ogni nuovo giorno.
Eppure, poco a poco, qualcosa può iniziare a entrare nell'anima anche adesso, dentro le pieghe di una fredda mente e di un arido cuore.
Aiutandosi con chi ha fatto memoria di quegli avvenimenti - certamente - ma facendo anche in modo che mente e cuore siano capaci di farsi compagnia, andare a braccetto tutti e due, sostenendosi l'un altro nel cammino, alla ricerca dell'Amore al quale alla fine, siamo tutti destinati.

E, fatto questo, andare avanti, una strada del davai dentro le incertezze della nostra stessa vita, cercando di non sfuggire più la sofferenza che il nostro passo incrocia ogni momento.

Come Maria, che non chiedeva, ma stabat, ai piedi della croce.
Maria, sicurezza della nostra speranza, madre della nostra povera, stanca, incerta umanità,
figlia di un Amore che si é fatto inchiodare per noi ed é risorto.



Note: le foto sono tratte dal sito di Massimo Priviero (www.priviero.com)

2 comments:

Roberto Curatolo said...

Caro Fausto,

Massimo Priviero mi ha inviato una mail con il link del tuo blog in cui hai commentato in modo così lusinghiero il nostro spettacolo.
Mi permetto di darti del tu, se non altro perchè anch'io sono medico.
Ti ringrazio per le tue parole così profonde, così ispirate, così gratificanti per noi che abbiamo allestito questo spettacolo con molto entusiasmo e molta convinzione.
Del tuo commento mi ha colpito soprattutto il tuo sottolineare che man mano che lo spettacolo procedeva, si determinava una magica comunione tra palco e platea: perchè è proprio questo che io ho percepito in maniera chiara, la condivisione delle emozioni tra noi e gli spettatori. Ti dirò francamente che questa sensazione è stata più forte che nelle precedenti repliche, non saprei dire se perchè noi eravamo più ispirati o se il pubblico più partecipe o entrambe le cose.
Per me è stata un'esperienza molto intensa e ciò che ogni volta mi stupisce è che io, pur avendo scritto i testi e pur avendoli già replicati più volte, ogni volta mi emoziono in questo viaggio della memoria.
In platea c'era anche un reduce di quella drammatica esperienza, uno di quegli uomini che tu hai incontrato nella tua attività di medico e di cui parli nel tuo blog: uno dei pochi ancora viventi, mio padre, ora quasi 89enne, allora solo 21enne. Una drammatica esperienza, quella della campagna di Russia, come quella di qualunque guerra, che lascia solchi indelebili nel cuore dei superstiti. E un profondo desiderio di pace.
Ti ringrazio ancora per le tue considerazioni così profonde e così sentite.
Mi auguro di poterti ancora incontrare.
Un caro saluto a te e alla tua bella famiglia (ho visto qualche foto del tuo recente viaggio in Francia).
Se vuoi vedere qualche bella foto dello spettacolo di sabato, guarda http://www.marcocuratolo.com/dalladigealdon4/index.html

Roberto Curatolo

Maurizio Pratelli said...

Sabato replicano a Bergamo, ne ho appena scritto per il mio giornale. E anche quel Gazich è sempre un grande. Ciao Cardioman.