Il mio viaggio finisce dov'era cominciato: davanti al mare. Perché tutte le strade finiscono sempre davanti al mare. Mentre scrivo queste righe - carta e penna come una volta - il sole é caldo, le onde lontane e la gente é ancora a casa a dormire. Le prime ore di uno splendido mattino su una spiaggia della riviera ligure di Ponente. Il mattino, al mare, é il momento migliore, quando i dolori ed i fantasmi della notte se ne sono andati via e la speranza si riaccende, prima che, anche qui, il mondo si rimetta a correre e ad urlare.
Alla fine ho scoperto cosa significa, in bretone, Startijenn. No, come si pronuncia, ancora non l'ho capito. Ma il significato di questa parola é energia ed io, isole di buona energia, ne ho trovate davvero tante. Eppure la cosa più bella l'ho pescata una volta giunto a casa. Ed anche questo lo sapevo. Che tutte le strade, prima o poi, riconducono a casa. La cosa più bella - dicevo - l'ho trovata leggendo una frase di Benedetto XVI al milione di giovani della spianata di Madrid: "Non siamo viandanti verso l'abisso, verso il silenzio del nulla o della morte. Siamo pellegrini verso di Lui, che é la nostra meta e la nostra origine".
E allora adesso sì, che sono pronto per ripartire di nuovo ed ancora verso il mare. Il muso dell'auto, stavolta, puntato verso sud, una Rimini dove altre centinaia di migliaia di persone stanno già scommettendo su una nuova avventura.
Quella che l'esistenza possa diventare un'immensa certezza.
Accadde di notte. Fosse sogno o realtà, poco importa. Una notte d’autunno di quel lontano 708, notte poco tranquilla in cui ad Aubert, vescovo di Avranches, venne negato il riposo. L’arcangelo Michele lo scosse dal sonno, ordinandogli di trasformare in santuario il monte Tombe, isolotto di granito in mezzo alla baia più infestata dalle maree di tutta Francia. Inizia così la storia di Mont Saint Michel, il luogo più visitato del paese, tappa per secoli del perocorso di pellegrini, in cammino verso Roma o Santiago. I monaci benedettini vi giungono appena i duchi di Normandia hanno la compiacenza d’andar via ed é un nuovo inizio: l’abbazia romanica che viene su; poi è fuoco d’incendio, che costringe a ricominciare un’altra volta, e tutto, merletti di pietra ed archi rampanti, è sempre più proiezione verso il cielo: nasce la Merveille ed il suo splendore, spirituale e intellettuale, rischiara tutta la comunità.
Mont Saint Michel è ultimo lembo di terra normanna, ma guide di Bretagna e Normandia ne rivendicano ciascuna appartenenza a sé. Come il gioiello più prezioso di un tesoro, si fa a gara per averne il possesso. L’ingresso al Monte, un portico che fa breccia nella possente cinta delle mura, dà accesso ad una stretta via, che, dopo la locanda della Mère Poulard, s’inerpica lentamente in alto, verso la chiesa.
Ogni ombra del fascino antico è irrimediabilmente persa per chi percorre questa via nelle comode ore del giorno; molto meglio giungervi all’imbrunire, quando il terreno è ormai sgombro dei turisti e le ombre iniziano ad allungarsi sinistre nella baia, facendo a gara con la marea montante. Il nostro ennesimo viaggio, lungo scale, cortili e stanze dell’abbazia, predilige questa volta le ore notturne, dove i giochi di luce creati dai moderni padroni della cattedrale hanno saputo creare impagabili suggestioni. Poi, arrivati lassù, nell’abside della chiesa, monaci e suore vi cantano come solo gli angeli sono capaci di fare. Sono i canti della Fraternità di Gerusalemme, nuova incarnazione del mai defunto carisma di San Benedetto. E quando, all’indomani, nel corso della liturgia domenicale, quegli stessi monaci e suore, passeranno di panca in panca per stringere col loro sorriso le mani dei fedeli, l’unione tra terra e cielo non sembrera più il già e non ancora, ma un sogno che, come d’incanto, è diventato realtà.
Altri monaci ed altre suore, della medesima comunità, ravvivano oggi il fuoco della fede anche a Vézelay. Un gioiello d’architettura, nel cuore di una Borgogna che non è solo vigne e campi di frumento, lasciato troppo a lungo in balia di occhi oscurantisti e illuministi, ma per fortuna conservato intatto sino ad ora. Dopo la guerra, nel 1946, pellegrini d’ogni nazione s’incamminarono sino a qui, desiderando di ritrovare nella fede un’ideale che nessuna bomba facesse più crollare. Ogni popolo dietro ad una croce di legno, finché anche la comunità dei prigionieri tedeschi chiese di costruirne una, per unirsi a quel nuovo cammino di speranza. Oggi tutte quelle croci fanno bella mostra di sé, lunga la navata della splendida abbazia, ma quella di Germania è la più bella: dice al mondo che il male non prevarrà, non avrà l’ultima parola sul destino delle cose.
Obiettivo della Fraternità monastica di Gerusalemme è l’essere pietre vive, testimoniando la bellezza della liturgia. E basta davvero poco per rendersi conto di come sappiano fare bene il proprio lavoro. La comunità cristiana è forse piccola a Vézelay, come lo è a Le Mont Saint Michel, ma è viva e sana. Ma anche questa storia, del seme che sembra morire in inverno per poi rinascere a primavera, è storia già scritta. Storia singolare, ma sempre attuale. “il germe sembra rinascere proprio là dove la terra sembrava inaridita” - scrive Marina Corradi su un editoriale di Avvenire dello scorso 11 agosto, dopo un viaggio a Parigi ed in Spagna - dove sembra prevalere la secolarizzazione. Ma “il seme morto rispunta, invece, ancora, ostinato; e vive e genera, duemila anni dopo”.
Non è un lungo pellegrinaggio a piedi, quello che mi porta fino a qui, un cammino come quello che Charles Péguy fece da Parigi. Eppure il percorso che mi conduce a Chartres è, a suo modo, altrettanto intenso e affascinante. Per mesi ho studiato ogni pietra di questa cattedrale, ho cercato di entrare nel mistero della capacità di carpentieri, scultori e mastri vetrai, che in soli ventisei anni riuscirono ad innalzare quel capolavoro d’arte gotica che è la cattedrale di Notre-Dame. Ventisei anni a partire da un venerdì di giugno del 1194, in cui un furioso incendio risparmiò solo la cripta e le torri della facciata dell’edificio principale ed in cui si pensò che il Velo della Vergine, quello indossato da Maria il giorno dell’Annunciazione, fosse andato irrimediabilmente perso tra le fiamme. Fu il suo insperato ritrovamento tra le braci, invece, a fare da vera e propria testata d’angolo della costruzione di una nuova chiesa, quella – più bella – che forse la Madonna voleva per sé ed alla cui ricostruzione una comunità intera - vescovi e commercianti, umile popolo e cavalieri - volle dedicare tutta la fatica ed il proprio denaro.
Ho già percorso altre volte la strada che, dalla periferia sud-ovest di Parigi, conduce sino a qui: la campagna della Beauce, infinite distese di prati verdi e campi di granturco, dai quali, già a molti chilometri di distanza, si possono scorgere le guglie della cattedrale svettare verso il cielo. Il viaggio è più veloce di quando viaggiatori e pellegrini di un tempo lo percorrevano a piedi o a cavallo, ma le sensazioni non sono poi così diverse, per uomini che abbiano conservato intatto il desiderio del proprio cuore.
Perciò, quando giungo davanti alla facciata, mi sembra d’avere in tasca, in qualche modo misterioso, le chiavi per aprire finalmente i cancelli della Bellezza, il portone dell’infinito capace di farsi solida certezza. Nel suo discutibile libro “I misteri della cattedrale di Chartres” – discutibile perché distorce, con occhio esoterico e massone, la realtà – Louis Charpentier almeno una cosa giusta era giunto ad affermarla: “l’armonia è rimasta intatta… e nessuno può vantarsi, anche intellettualmente, di uscire dalla cattedrale di Chartres identico a quello che era prima di penetrarvi”. E' proprio così: non si può rimanere indifferenti in questo posto. Ma il possesso di quelle chiavi non é esclusivo: si tratta di qualcosa alla portata di tutti, di chiunque abbia conservato un cuore sincero, non corrotto dal tempo e dalle cose, e capace ancora di desiderare cose grandi.
Il sole, passando attraverso il blu cobalto delle vetrate, illumina magicamente anche gli angoli più remoti della cattedrale, mentre fuori la luce di un tramonto surreale – quasi le dieci di sera e dietro ad ogni individuo si staglia ancora chiara la sua ombra – incornicia uno dopo l’altro i meravigliosi portali. L’angolo nord-est, direzione del sorgere del giorno al solstizio d’estate, è il luogo dove tutto reinizia, la porta della Natività, il compimento della Nuova Alleanza. Come uomini del Medioevo, incapaci di leggere e scrivere, ma custodi ancora di quel cuore sincero, si può compiere un percorso che, passando dal portale sud, giunga infine sino al Portal Royal, l’ovest della cattedrale e rintracciare così tutte le sorgenti del sapere. Non c’è contraddizione tra scienza e fede: Dio s’è incarnato e tutta la sua vita è qui rappresentata; ma la vita dell’uomo è importante ai Suoi occhi e la continuità della creazione è scolpita negli uomini al lavoro, nei numeri, nel suo sapere. Non ci sono urla né stridore di denti per chi sia stato capace di conservare quel cuore di carne. Il giudizio universale del portale sud e la rappresentazione dell’apocalisse ad ovest, l’ingresso della cattedrale, posto là dove il sole tramonta, non sono luogo di mistero e di paura, ma di speranza per chi si dirige ad est, verso il Levante, dove apparirà, come un nuovo sole, Cristo che sconfigge tutte le nostre fatiche e il nostro dolore. Anche il labirinto, tristemente coperto dalle sedie, al centro dell’enorme navata centrale, non è luogo che quel cuore lo schiacci o lo opprima. I pellegrini che lo percorrono in ginocchio oggi non ci sono più, ma l’ultimo passo, il “salto nella gioia” si può compiere anche adesso, ché la via d’uscita è uno sguardo verso l’alto ed il mito di Crosso, il combattimento di Teseo col Minotauro, è storia del passato: non siamo fatti per luoghi di morte, ma per la vita. E percorrendo in lungo e in largo tutta la cattedrale, le necessarie soste davanti a Notre-Dame de la Belle Verrière, al Velo della Vergine, a Notre-dame du Pilier, lo sguardo non riesce a fare a meno di andare continuamente fin lassù, le volte della chiesa. Perché la magia di quest’edificio di pietra è anche questa: un luogo dove mura, colonne ed archi rampanti convergono le forze verso il basso, attira invece irresistibilmente i nostri occhi verso l’alto. Nulla è superfluo, tutto è necessario. Ma ciò che è necessità, qui si é fatto anche Bellezza.
Alla fine, quando il giorno se ne va, giunge anche per me il momento d’andar via. Anche se non si tratta di un addio: piuttosto di un arrivederci, perché prima o poi qui ci tornerò. Ma c’è un’esistenza, là fuori, che chiama a sé, esistenza destinata a diventar certezza, ancor più bella - se vissuta bene nell’attimo presente - di dieci, cento, mille cattedrali. Nell’Annuncio a Maria, di Paul Claudel, Anna Vercors dice a Pietro di Craon, costruttore di cattedrali: “Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per esser data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire”. Eccola, la vita che chiama a sé, l’avventura che mi aspetta. Ed é semplice, in fondo, basta saperle obbedire. Con Amore. Nella certezza che il nostro nome, da sempre, è già stato pronunciato. Da un Altro.
Ecco quel che ci vorrebbe adesso, penso tra me e me, mentre cammino lungo la spiaggia di Perros Guirec, al ritorno da una scorpacciata di ostriche mangiate sul muretto di Cancale; ostriche pagate al prezzo delle cozze e coi gusci rigorosamente buttati giù, lungo la riva del porto, che così fan tutti da queste parti e non c’è nessun vigile che si sogni di venire a multarti, perché questa è proprio la tradizione del paese. Ci vorrebbe una bella birra o una buona bottiglia di sidro, possibilmente con un po’ di buona musica intorno, ecco quel che ci vorrebbe. Ed accade. Avviene che, come d’incanto, la musica venga a me. Si materializza dal nulla ed io non posso fare a meno di andarle incontro. Mi avvicino, arrivo sotto al palco, è un’isola di buona energia di cui abbiamo tutti bisogno.
Sono melodie dolci e accattivanti, a tratti quasi stregate. Note forti, decise, suonate con vigore. E chi é quello, lassù sul palco, che suona il suo strumento che sembra Jimi Hendrix mentre dà fuoco alla sua chitarra? Altro che flauto: con buona pace di Ian Anderson e dei suoi Jethro Tull (mai piaciuti i Jethro Tull), quella che sta suonando quel ragazzo é una bombarda ed è davvero tutta un’altra cosa. E il tipo lì a fianco, con la cornamusa, chi è che mi ricorda? Ma sì, è Malcolm Jones dei Runrig, è altrettanto bravo e spacca, eccome se spacca, pure lui. E poi la fisarmonica, che qui la chiamano accordéon diatonique, che potenza anche quella, insomma bisogna stare attenti, perché qua è tutto letteralmente un bombardamento. Dietro a tanta manna solista, poi, ecco il basso pulsante ed un drumming preciso, che fanno da perfetto tappeto sonoro su cui far scorrere la voce del cuore, ed una chitarra ritmica, che compie egregiamente il suo dovere. Quella di questi ragazzi è musica totale, folk rock cosmico, la lezione di Alan Stivell mandata a memoria e spinta oltre, fin lassù, dove danzano i folletti, le streghe e tutti i nostri sogni rock’n’roll. E Van De Sfroos dove sei, che manchi solo tu, e stasera il bretone è come il laghée e parliamo tutti la stessa lingua.
Ma la cosa più incredibile da vedere è la gente che balla sotto il palco tutte le danze della tradizione bretone. E come è bello vedere giovani ed anziani, accomunati dalla stessa passione, gioia e desiderio di stare insieme. Ecco cos’è la vera musica popolare, quella che non rinnega le radici, coniuga il passato col presente e sa far convivere le conquiste di un tempo e le giuste ambizioni per il futuro. Scatto qualche foto, sono così stordito che mi dimentico di avere in tasca un telefonino, con cui fare un filmato della festa. Poi mi avvicino al banchetto del merchandising: “le dernier?”, mi chiede il tizio là sotto. Sì, dammi l’ultimo, amico, e peccato che non ho abbastanza soldi per comprarli tutti, i vostri dischi.
Mi tocca andar via quando il leader della band inizia a presentare i musicisti, poco prima dei bis finali. Mia moglie ed i miei figli reclamano a sé una presenza, é giusto così, ma è davvero difficile scendere giù dal pianeta su cui ero salito insieme a questi extraterrestri. Sarà per la prossima volta, ragazzi, che ora che vi ho trovato, non vi perdo più di vista per davvero. Già, ma come cavolo si pronuncia Startijenn?
Vi è qualcosa d’atavico e ineffabile nell’abitudine dell’uomo a dirigersi così spesso ad ovest. Popoli interi o singoli emigranti, l’attrazione a seguire il corso del sole e giungere laggiù dove tramonta appare come qualcosa d’irresistibile. Anche l’asse longitudinale delle grandi cattedrali, quello che dall’abside percorre tutta la navata per giungere sino alla facciata della chiesa, è quasi sempre costruito lungo questo percorso che da est porta ad ovest, fino al luogo che si contrappone al Levante, dove apparirà, come un nuovo sole, Cristo che sconfigge la morte. Per questo a Chartres, ma anche nelle altre numerose chiese che fiorirono nel XII secolo in Francia, è rappresentata l’Apocalisse nel portone principale. Eppure il volto di Gesù, al centro del timpano del Portal Royal, non è di quelli che incutono timore; è un viso dolce, invece, quasi che la Parusia non sia un evento di cui aver paura, ma istante in cui tutta la vita dell’uomo possa finalmente ricomporsi in un’armonia a lungo cercata, in mezzo a mille dolori ed affanni.
Sarà pur vero che quel che importa non è dove si va, ma andare, eppure l’attrazione a puntare il muso dell’auto verso quel benedetto ovest, che fa capolino anche nei più oscuri meandri della mia mente, è troppo forte per opporvi un’adeguata resistenza. Allora i 160 chilometri che separano il tranquillo golfo del Morbihan dalla fine di tutte le terre, la Pointe Du Raz, estremità ovest del Finistère, sono nulla in confronto al desiderio di giungere sino ai confini di queste terre di mezzo. La strada da percorrere, diritta e silenziosa, ha intorno a sé una cornice di sole e nuvole di pioggia che danzano tra loro, mentre il sottofondo è un affascinante tappeto sonoro, strano mélange tra tradizione celtica e rock, come solo la musica di Alan Stivell è stata, negli anni, capace di fare. Suoni e canzoni ascoltati mille volte e che sembrano riuscire finalmente a liberarsi dallo spartito che le ha tenute rinchiuse, ora che hanno ritrovato la strada che porta verso casa. E quando, come richiamati da una sorta di magica alchimia, i fratelli di Scozia dei Runrig fuoriescono prepotentemente anche loro dall’iPod, ecco finalmente, lungo le note di Loch Lomond, stagliarsi all’orizzonte le lunghe scogliere della Finis Terrae.
Alla Pointe Du Raz, però, non si arriva poco dopo aver lasciato l’auto nel parcheggio ed è giusto che sia così, perché la Bellezza è qualcosa che merita d’essere conquistato con fatica e con sudore. Ci sono ancora venti minuti da fare a piedi, lungo il sentiero che s’insinua tra rocce e campi d’erica in fiore e che, poco a poco, lasciano che lo sguardo giunga a conquistare sempre di più il mare.
Mare che, però, non è mai disposto a farsi afferrare per intero. E’ lui il vero padrone della terra, con le onde che, anche oggi, giorno di bonaccia, minacciano pericolosamente i fari più lontani, laggiù dove s’intravede l’Ile de Sein e ancora più in là, ove vi è solo il colosso di Ar-Men.
Eppure non può essere inferno, tutto questo, penso mentre, seduto sul bordo della scogliera, guardo il via vai incessante delle onde. Non lo è il faro di Ar-Men, così come quello della Jument, a dispetto della paura che il mare ha sempre messo addosso ai loro guardiani. Non lo è neppure il maestoso faro di Punta Saint Mathieu, l’altro estremo occidentale del Finistère, costruito a ridosso delle rovine di quell’antica abbazia che monaci benedettini erano venuti a costruire proprio qui, perché, ancora una volta, l’ovest non è più luogo dove tutto finisce, ma dove la Bellezza è risorta perché la gioia e la speranza possano non avere più fine.
E mentre, tranquillo, guardo ancora una volta tutta quella distesa d’acqua, alle mie spalle la statua di Notre-Dame des Naufragés, ultimo baluardo sulla terraferma della Pointe Du Raz ed unico porto sicuro per noi, poveri pellegrini in balia dell’ira della tempesta, mi tornano alla mente le parole che un prete brianzolo, che tanto aveva amato il mare, pronunciò un giorno neppure così lontano: “ma calmo o agitato, silenzioso od irato, il mare ha ogni giorno ed ogni istante un minimo comun denominatore, un significato base unico ed inesorabile, che è la sua grandezza; il senso travolgente di una immane aspirazione all’infinito, al mistero infinito”
Rigiro tra le mani un libro, lo sfoglio, lo leggo qua e là. Cosa ci faccio qui, una mostra sul Madagascar nel mezzo del cuore della Bretagna, proprio non lo so; a me che, oltretutto, gli oggetti d’arte africana non sono neppure mai piaciuti più di tanto. Ma, tant’è, avevamo promesso a quel simpatico prete tutto nero e sorridente, incontrato a messa e poi di nuovo per strada, che saremmo passati a dare un’occhiata, perciò eccoci qui. Il libro che ho in mano, però, con l’Africa non c’entra proprio niente. In copertina il primo piano di un uomo bretone di circa cinquanta, sessant’anni, un bel cappellone di paglia in testa, l’espressione di chi abbia trovato il posto dove stare, dopo tanto peregrinare nella vita. “Sul cammino di mio padre”, è il titolo, che dice già tutto della storia di quest’uomo. Un percorso, faticoso, lungo le proprie radici, sulla strada che porta verso casa. Per un attimo mi c’immedesimo anch’io, su queste strade di Bretagna che non sono quelle delle mie radici, ma che ho già percorso quasi trent’anni fa e che cerco inutilmente di riconoscere ad ogni passo, mano a mano che le percorro. Alla fine lascio giù il libro, senza sapere il perché, esco dalla mostra e m’incammino nuovamente lungo la stradina che porta giù, al porto di Saint Goustan. E’ uno sbaglio e me ne accorgerò quando sarà irrimediabilmente troppo tardi per tornare indietro a comperarlo, la possibilità mancata di entrare dentro la storia vera di un uomo di quassù, d’immedesimarmi di più in ciò che mi stupisce e m’incanta ad ogni istante in queste terre del nord. Ma posso sempre provare a scrivere la mia, di storia, quella di un’avventura colta come qualcosa che sempre ci è dato, senza che nulla sia mai tolto. Ed è questo il fascino che m'attrae, ogni giorno che passa, a dispetto di un passo che talora sembra trascinarsi stanco.
Quando torniamo all’incantevole porticciolo di Saint Goustan, la marea ha raggiunto quasi il marciapiede, lambendo i copertoni delle auto lasciate incautamente parcheggiate, nonostante un bel divieto reciti tanto di data ed orario. In ogni tratto di costa, la vita di Bretagna viene scandita dalle regole del mare. Un’andirivieni incessante e quotidiano, l'acqua che avanza e si ritira, mutando continuamente i profili del paesaggio e la possibilità di percorrere alcune strade al posto di altre. Nella baia di Mont Saint Michel, il mare compie percorsi fino a quindici chilometri e nei secoli passati più di un pellegrino si trovò sorpreso nelle morse mortali della sabbie mobili o delle onde giunte al galoppo all’improvviso. In un’istante mi ritrovo col pensiero lungo l’infinita spiaggia di Perros Guirec: il tramonto estivo, in queste terre del nord, sorprende i pensieri anche con l’orologio che scandisce quasi le dieci di sera. Laggiù in fondo, dove ora c’è quiete e spiaggia deserta, solo poche ore fa una moltitudine di gente approfittava del sole ancora caldo ed alcuni ragazzi si gettavano da un trampolino in mezzo al mare; ora che tutto tace, quello stesso trampolino appare come una sorta di piccolo faro, appoggiato sulla spiaggia a difesa di una riva che ha respinto l’assalto dell’acqua, che ora scorre lontana. Quasi ovunque, lungo tutta la costa di questa regione di Francia, sorta di baluardo a forma di sperone, affacciato ad ovest nelle acque della Manica, si possono trovare barche coricate lungo un fianco, l’albero maestro inclinato, quasi che le vele siano ormai senza vita, ma capaci invece, come d’incanto, di tornare a galleggiare di nuovo poco dopo, pronte a riaffrontare un mare che le sfida incessantemente ogni giorno.
Quella che si fa strada, nell’animo e nella mente, a poco a poco, è un’attrazione magica e irresistibile per questo gioco quotidiano del mare. Alta e bassa marea come cerchi concentrici che avvolgono di continuo il percorso dell’esistenza, rendondola mutevole e affascinante ad ogni istante.
Di fronte al piccolo molo in pietra, che unisce alla terraferma l’affascinante Saint Cado, piccolo paese posto su di un isolotto, al centro del golfo creato dalla Ria d’Ethel, c’è una serie di fotografie d’autore; in una di esse è ripreso un vecchio pescatore, abiti sdruciti, stivaloni alti, il volto consumato dalle rughe. Sotto la foto una scritta, la testimonianza della sua esistenza: “non sono mai andato via da questo posto, la mia barca, i miei pesci, il mare e la mia casa: che bisogna c’era d’andare altrove?”. Ecco tutto ciò che conta, al di là delle maree, del tempo variabile, del mare che non sai mai se sarà bonaccia o tempesta: la vita reale, vissuta con pienezza e con Bellezza. E nella certezza che ogni mattina – immancabilmente e dolcemente - viene a visitarci dall’alto un sole che sorge.